Sui programmi antisociali che il governo ha in mente, la voce più grossa in questo momento la stanno facendo i Cinquestelle che, vista la loro storia, non sono proprio i migliori interpreti delle ragioni del mondo del lavoro e della previdenza sociale. Per un motivo molto semplice: da sempre, alfiere del pubblico e tutto ciò che lo concerne è stata la sinistra. Comunista, anzitutto. Ma di questa, al momento e oramai da tre lustri abbondanti, non c’è traccia in Parlamento.
I gruppi parlamentari di ManifestA – Potere al Popolo – Rifondazione Comunista sono un importante diritto di tribuna che le forze politiche della sinistra di alternativa si sono guadagnate grazie a scomposizioni di gruppi parlamentari e, nello specifico, proprio di quelli pentastellati, ma non sono sufficienti, almeno in questo momento, a spostare l’attenzione sociale dal tentativo di riacquisizione da parte del M5S di un profilo sociale, civile e morale che, tuttavia, fa a pugni con la permanenza tanto nel governo quanto nella maggioranza draghiana.
Un segno che la trasversalità del Movimento 5 Stelle è servita almeno a qualcosa, pur avendo occupato per lungo tempo uno spazio geopolitico con artifici dialettici e promesse sociali che non si sono potute realizzare perché l’obiettivo dell’invenzione visionaria di Grillo e Casaleggio era un altro: mettere da parte soltanto (non che fosse poca cosa…) la “casta” del vecchio dirigismo tecnocratico – istituzionale e continuare a gestire il resto dentro il contesto liberista.
Quindi, nonostante la voce grossa sulla povertà, sul reddito di cittadinanza, sul salario minimo, sulla transizione ecologica e sulla contrarietà all’invio di armi a Kiev, anche in questa fase contiana il Movimento 5 Stelle rimane terreno dell’ambiguità trasversalista sul piano meramente ideologico-politico, mostrandosi vicino alle ragioni sociali e a quelle imprenditoriali al tempo stesso.
Una ambiguità abbandonata da Di Maio che ha, alla fine, scelto da che parte stare senza troppi infingimenti: la pretestuosità delle ragioni per l’abbandono della vecchia casa madre è fin troppo evidente.
Ma se il motivo per avvinghiarsi ancora di più al draghismo può essere trascurabile, effettivamente non lo sono tutte quelle ragioni che si portano ora a sostegno di una probabile nascita di un’area, preventivamente parlamentare, che sia una sorta di perimetro in cui collocare tutte e tutti coloro che non intendono mettersi a riposo dopo l’esperienza del governo di unità nazionale.
Le spinte opposte sono oggi sempre più evidenti: i Cinquestelle devono recuperare un consenso verticalmente precipitato dopo i tanti, troppi cambi di casacca e abbandoni degli originari intendimenti del movimento, mentre Di Maio assume una linea esclusivamente istituzionalista che, oggettivamente, pare l’unica caratterizzazione politica contornante il progetto di “Insieme per il futuro“.
Per non essere accusato di improvvisazione e, quindi, di atto quasi disperato nel tentativo di prefigurarsi una collocazione nello scenario politico dei prossimi mesi, in attesa della fine della legislatura e dell’elezione del nuovo Parlamento, il ministro degli esteri ha cercato di dare una parvenza di originalità ad una scissione che, a memoria, è difficile poter paragonare ad altre del passato.
E’ vero, sì, separazioni dettate da riposizionamenti tanto nelle fila parlamentari quanto in quelle governative ve ne sono state a bizzeffe nel corso dei settantasei anni di vita della Repubblica. Ma quella di Di Maio è davvero l’unica a non avere una benché minima ragione programmatica nell’immediato con, inoltre, un supporto ideologico-politico di medio o lungo termine.
Per questo non è stato difficile per Conte e per il suo Movimento riprendere in mano la bandiera della voce critica in seno alla maggioranza di governo, approfittando di uno smarcamento a destra di un apparato di ministri e sottosegretari che, scegliendo di seguire Di Maio, hanno contribuito non poco a consegnare alla percezione collettiva quella realtà evidente che, di per sé stessa, andava già ben oltre la semplice sensazione: si è trattato di una manovra di palazzo, per il palazzo e destinata, se non troverà margini di manovra, a rimanere nel palazzo stesso.
A quel punto, il lavoro di progressivo distanziamento tra le parti è stato gestito, giorno dopo giorno, con un complesso botta e risposta su temi che meglio di altri potevano prestarsi a rinvigorire tutte le motivazioni (pretestuose e non) per riattribuire ai singoli partiti della maggioranza una fisionomia più riconoscibile a quella popolazione che presto si trasformerà in elettorato attivo.
Sono i mesi finali di una legislatura cominciata con il governo giallo-verde, che attraversato tutta la pandemia, che ha messo a dura prova i confini tra i poteri stabiliti dalla Costituzione e che ha, per la prima volta dal 1948, ridimensionato il cuore della Repubblica, pur non sottraendogli nessuna prerogativa.
Ma la riduzione dei parlamentari è un primo passo, non tanto verso il bugiardissimo importante risparmio di fondi pubblici (molto meglio spenderli per la guerra… vero?), quanto verso successive modificazioni della Carta per arrivare a quello cui aspirano non solo le destre sovraniste ma anche settori del cosiddetto “campo largo“, nonché dell’area draghiana tutta in frenetica magmatica composizione e scomposizione permanente: il presidenzialismo all’italiana.
Che cosa sarà di Mario Draghi quando la legislatura sarà terminata? Lo vedremo ritirarsi a vita privata, dispensando consigli come Romano Prodi, oppure bisognerà trovare all’ex banchiere europeo un posto da cui possa garantire ai mercati quella stabilità istituzionale, funzionando quindi da ipoteca stessa sulla politica del Bel Paese?
E’ molto probabile che né Draghi, e tanto meno il carrozzone di corifei che gli si prepara intorno, si metteranno alla riserva. Ed allora, la prospettiva più facile (e per questo niente affatto meno improbabile) da immaginare è quella di un avvicendamento al Quirinale con Sergio Mattarella e, nel corso della nuova legislatura, soprattutto se la maggioranza fosse di centrodestra, una accelerazione in senso presidenzialista per la Repubblica.
Il ricorso allo spostamento del baricentro dei poteri, dal Parlamento alla condivisione con la Presidenza della Repubblica e con il governo, si intende avverrebbe sull’onda emotiva della maggiore stabilità sociale, economica e politico-istituzionale.
La congiuntura rischia veramente di essere favorevole questa volta. E di esserlo per mettere in pratica ben più di una riconfigurazione dell’equipollenza tra i vari ambiti dello Stato: al potenziamento del ruolo del Quirinale e di quello di Palazzo Chigi può corrispondere un progressivo interesse delle istanze regionali per quella autonomia differenziata che farebbe implodere gli altri meccanismi e contrappesi costituzionali che determinano la solidarietà nazionale, l’unità popolare e il senso stesso della nazione.
Una volta mossa una pedina nel domino di una politica così insicura di sé stessa, tanto da doversi affidare all’uomo forte delle banche e alle sua mani remidiche, tutte le altre cadranno inevitabilmente, perché ogni precedente passo sarà quello che assicurerà l’alibi per una sempre maggiore separazione dal passato, dalle inefficienze dimostrate da una democrazia parlamentare mostrata come farraginosa, inconcludente e, per questo, da oltrepassare.
Ovviamente saranno i protagonisti di questa faragginosità e di questa inconcludenza a redigere la nuova parte della Costituzione che travolgerà la Repubblica nata dalla Resistenza e, di conseguenza, verranno meno anche tutta una serie di valori che hanno permesso alla società italiana di mantenersi salda nonostante i tanti tentativi di colpi di Stato propriamente e impropriamente detti che si sono susseguiti nel corso dei decenni e che hanno provato a limitare sempre di più il potere dei lavoratori, delle classi subalterne e di tutti coloro che sono costretti a sopravvivere.
Non è bene che le classi popolari finiscano col credere di poter avere ancora fiducia nel sistema democratico e, magari, nella formulazione di una nuova proposta politica di sinistra che faccia come in Francia e arrivi a contendere le cime del potere alle forze che rappresentano il padronato, l’impresa e la finanza che governano veramente lo Stato transalpino.
E, siccome la crisi in cui siamo tutte e tutti immersi può avere, un po’ come tutte le vecchie crisi, due sbocchi: da sinistra con un protagonismo sociale degno di nota, con un sindacato che riprende il suo ruolo in mano e si riconosce in sé stesso nelle lotte per il contenimento delle spinte liberiste e guerrafondaie; da destra con una affermazione neonazionalista, sovranista, capace comunque di addivenire a compromessi utili col contenitore bancario europeo; è evidente che serve una via mediana per compensare tanto le rivendicazioni sociali quanto le pretese imprenditoriali di essere l’unico motore produttivo del Paese.
Nell’attuale “campo largo” di lettiana intenzione, questo compromesso tra le parti lo si ritrova molto efficacemente interpretato dall’asse PD-Cinquestelle. Con il curioso scambio di personalità politica, ma tutt’altro che nonsense, tra il ruolo di “sinistra” attribuito ai democratici dalla grande stampa italiana e quello di “centro” dato ai pentastellati.
I ruoli si invertono: Conte e i suoi interpretano molto bene la parte progressista della coalizione, mentre il PD recita altrettanto pregevolmente quella della forza di centro che lambisce i confini languidamente indefiniti di un una palude parlamentare in cui stanno le particolarità storiche del Gruppo Misto, così come le emergenti intraprendenze politiche di Calenda, Bonino e Toti.
Tra i confini del reale e quelli dell’immaginario a breve termine, ciò che attende l’Italia nei prossimi mesi è ancora più spaventevole se lo si incornicia nella non eludibile crisi multistrato internazionale che somma pandemia, guerra ed emergenza climatica. Sono tutti fattori di altissimo rischio per una strumentalizzazione della disperazione popolare, per un utilizzo del disagio sociale entro una eterogenesi dei fini sempre più difficile da gestire e da tenere a bada.
Gli interessi economici che si andranno confrontando, mentre si assesteranno i terremoti geopolitici in corso, saranno così enormi da costringere a scegliere tra il principio e la sostanza, dimenticando che senza princìpi non può esservi una vera condivisione egualitaria della sostanza: ad iniziare dal patrimonio di beni comuni che ancora l’Italia possiede ed arrivando alla condivisione delle responsabilità tra un pubblico sempre meno tale e un privato sempre più antidemocraticamente e antisocialmente ingombrante.
Possiamo sperare che questi scenari non si realizzino così come li abbiamo descritti, traendo spunto dai rapporti di forza attuali.
Ma abbiamo il dovere, come comunisti, come sinistra di alternativa, di fare tutto quanto è possibile per scongiurare anche solo una di queste evenienze: la vittoria delle destre, indubbiamente, ma pure la perpetuazione dell’allucinazione collettiva che costringe a vedere nel PD e nei suoi alleati un fronte progressista, una alternativa a quelle forze sovraniste che è tale solo nella scissione operata tra tra liberalismo civile e liberismo economico.
Le ambizioni e le pulsioni presidenzialiste si possono battere. Per farlo serve una rimodulazione dei rapporti tra la sinistra vera, di alternativa e di opposizione, con il mondo del lavoro e del precariato, con il mondo del vasto disagio sociale, con quella parte concretamente disperata del Paese che non troverà nessuna soluzione ai suoi drammi quotidiani né con il sovranismo nazionalista delle destre e nemmeno con il “campo largo” di un centrosinistra che troppo ha del centro e nulla ha di sinistra.
MARCO SFERINI
1° luglio 2022
Foto di SHVETS production