Qualcuno timidamente accenna al fatto che Giorgia Meloni abbia fatto riferimento al fascismo nel dichiarare, il 25 aprile appena trascorso, che dalla fine di quel regime si posero le basi per la democrazia.
Sarebbe un passo avanti verso magari una futura dichiarazione personale di adesione ad un antifascismo convinto, ad una ammissione del fatto che anche il proprio passato politico è stato improntato al perseguimento di intenti, attraverso ideali, che erano e rimangono dalla parte sbagliata della Storia novecentesca dell’Italia, dell’Europa e del mondo.
Qualcun altro sottolinea che persino il ministro della cultura Sangiuliano ha detto, apertis verbis, che lui non ha problemi a definirsi “antifascista“. Salvo poi chiosare che, però, a tale terminologia non può non andare di pari passo anche un altro sostantivo aggettivizzante: “anticomunista“.
Perché i comunisti, che pure hanno fatto la loro grande parte nella Resistenza e nel partigianato, sono relegati dal ministro ad una minoranza, in mezzo a tutti gli altri colori delle brigate che decisero di organizzarsi e lottare contro il regime di Mussolini e la torsione perversa nella repubblichina di Salò.
Non è una novità, purtroppo. I neo o postfascisti di molte risme hanno sempre affermato, per delegittimare il basamento sociale e politico su cui ha poggiato, in buona parte, la storia dell’Italia postbellica, che i comunisti erano equiparabili ai fascisti: dittature totalitarie di qui in Occidente; dittatura totalitaria di là ad Est.
Lo stesso Parlamento europeo si è prodotto in una revisionistica equiparazione che è stata votata trasversalmente da forze politiche tanto di destra estrema quanto di sinistra socialdemocratica (compresi tredici deputati del PD). Correva l’anno 2019, ma non sembra passato molto tempo, in fondo…
Quando scocca l’ora del 25 aprile, puntualmente l’Italia si divide tra coloro che depongono mazzi di rose davanti alle tombe dei caduti della RSI, che vanno a Predappio ad inchinarsi davanti alla tomba di Mussolini, che celebrano così una sorta di giornata dell’orgoglio fascista in contrapposizione alla festa nazionale per la Liberazione, per la fine di quella guerra che il fascismo volle e sostenne fino in fondo accanto al Terzo Reich di Adolf Hitler.
Che esistano e persistano delle differenze è anche comprensibile, visto che – come ci ricorda molto bene lo storico Alessandro Barbero – tre generazioni di italiani crebbero in seno a famiglie che avevano avuto morti nella guerra civile.
Chi stava dalla parte della democrazia e del rinnovamento sociale e politico ha insegnato ai propri figli e nipoti il valore fondante della lotta partigiana, del sacrificio per la conquista di una nuova Italia dopo quella resa macerie dal conflitto e umiliata nel profondo dalla negazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano, prima ancora che di ogni cittadino.
Chi stava dalla parte delle brigate nere, del fascio e della dittatura, non ha fatto i conti con il suo passato e ha insegnato alla propria progenie che c’era del buono in quella lotta: una lotta per l’indipendenza della patria, per l’italianità a tutto tondo, contro le plutocrazie fintamente libere dell’Occidente, contro il sovietismo e il comunismo.
Per questo l’Italia non ha mai avuto una “memoria condivisa” sugli accadimenti del Ventennio fascista, così come sull’epilogo della Seconda guerra mondiale.
Perché, ben prima dello sdoganamento operato trasversalmente un po’ dal centrosinistra e ovviamente dalle destre ringalluzzite dai successi elettorali berlusconiani prima e salvian-meloniani poi, come ci ha molto acutamente spiegato un altro storico preziosissimo come Luciano Canfora, il fascismo in quanto pratica politica e ispirazione ideale non è mai morto.
Ha cambiato pelle, nome. Ne ha assunti molti altri: da Movimento Sociale Italiano a Ordine Nuovo, da Terza posizione alle tante frange dell’estremismo nero scivolate nell’eversione stragista.
E ha continuato ad essere vellicato da un nordatlantismo che si contrapponeva al Patto di Varsavia nel gioco della guerra fredda tra i due grandi poli mondiali: USA e URSS. In questo quadro, l’antifascismo italiano non ha fatto il salto di qualità da sostanziale insieme di atti commemorativi ad un vero e proprio sentimento di condivisione popolare senza distinzione alcuna tra tutti i cittadini.
Ripetiamolo: che permanga una percentuale di nostalgismo e di revanchismo mussoliniano, è quasi endemico. Ma dovrebbe trattarsi di uno zerovirgolacinquepercento della popolazione. Invece, tutt’oggi, l’opinione pubblica, proprio sulla questione antifascista, nonché sul giudizio sul fascismo stesso, si divide quasi verticamlmente a metà.
Quasi. Perché, in fondo in fondo, se persino il ministro Sangiuliano è costretto a dirsi antifascista per evitare, più che altro, di dover rispondere sempre alle domande dei giornalisti nel merito della questione, vuol dire che una permeazione anche storica ed ideologico-politico-culturale del sentimento comune è forte e non così facilmente scalzabile dal contesto complicato dell’oggi rispetto all’ieri.
Questo è un Paese in cui nelle cento città convivono vie intitolate ai re di Casa Savoia, ai più accesi liberali e democristiani insieme a socialisti, comunisti, persino anarchici. Ma almeno, fatta eccezione per gli ex re di Casa Savoia e i loro discendenti maschi, si tratta di tutte personalità che hanno lottato contro la dittatura di Mussolini.
E non dallo scoppio della Seconda guerra mondiale in avanti, ma fin dai primordi; fino da quando si comprese che quel nuovo movimento dei fasci di combattimento non era un capriccio passeggero della vita italiana che soffriva della “vittoria mutilata“, ma una nuova offerta sullo scenario di un agone sociale e politico che si proponeva, nei fatti, come mediazione interclassista a tutto vantaggio del padronato e della status quo monarchico.
Rispetto ad paragone meramente storico, anche persone di estrema destra come quelle attualmente al governo hanno buon gioco nel distanziarsi dal fascismo involutosi nella propria essenza involutiva, tutta fatta di sopraffazione e violenza, arbitrarietà e coercizione: il partito che si fa Stato, il partito che diventa potere organizzato su un multilivello che impedisce qualunque autonomia personale e collettiva nella quotidianità dell’esistenza.
Ma se, invece, si evita di scadere nella sottile ricerca di una antitesi retorica tra fascismo ed antifascismo, così voluta e ricercata dai missini prima e dai loro eredi oggi, allora ci si renderà conto che la posta in gioco è ben altra.
Non la Presidente del Consiglio, che proprio non riesce ad abiurare finianamente il proprio passato postfascista, ma di certo alcuni ministri e sottosegretari, possono dare all’esecutivo una parvenza di democraticità e di accettazione sincera e convinta della Costituzione su cui hanno giurato all’atto del loro insediamento dopo il voto del 22 settembre di un anno e mezzo fa, nel dirsi antifascisti.
Premessa utile per intorbidire subito l’affermazione manipolatrice delle intelligenze altrui: abbasso tutti i totalitarismi, senza distinzione storica tra il prima e il dopo. Così Marx, Engels, Luxemburg, Gramsci e Togliatti vengono mescolati senza alcuna remora con Stalin, Pol Pot, Mao, Castro, Il-Sung…
Il revisionismo storico, politico e culturale che viene spacciato per grande sapienza storica, tralascia opportunamente di dire che, mentre l’invenzione del fascismo è tutta italiana e si è riprodotta in altrettanto feroci esperienze dittatoriali su scala mondiale, quella del comunismo e del socialismo non è una invenzione sovietica.
Buttarla in caciara è sempre molto utile per chi non riesce a giustificare le proprie pulsioni suprematiste, nazionaliste all’eccesso, razziste, xenofobe e i propri pruriginosi atteggiamenti di virilismo che vanno nella direzione dello stigma contro ogni differenza di genere rispetto a quella della “maggioranza“: termine che viene sussunto e preso a prestito come linea di legittimazione dei diritti e dei doveri.
La maggioranza ha dei doveri e fa pagare il prezzo dei diritti alle sole minoranze sociali, mentre preserva i privilegi delle minoranze di classe: quelle, per intenderci, che determinano l’andamento del nostro tenore di sopravvivenza garantendosi lussuose esistenze all’ombra dei poteri in fiore.
Già di per sé questa è una irreggimentazione delle diseguaglianze che dalle questioni materiali si riverbera su quelle culturali, storiche e, quindi, sovrastrutturalmente politiche.
La destra al governo del Paese può, nel caso di crisi, per il suo regno anche dirsi antifascista. Ma non sarà mai solo quella parola pronunciata a fare di loro dei buoni amministratori, dei sinceri democratici, degli amici delle classi più indigenti della società. Il loro scopo è la concentrazione del potere in poche mani, entro un quadro destabilizzante l’attuale divisione costituzionale dello stesso. Sminuendo le funzioni del Parlamento e rinvigorendo quelle dell’esecutivo.
Il premierato è, unitamente alla devastazione regionalistica delle regioni stesse con il mefitico, malefico binomio dell’autonomia differenziata, la riesumazione di un progetto autoritario che deve allarmare tanto quanto può allarmare il fatto che alla guida del governo dell’Italia del 2024 vi sia una persona che non riesce a riconoscersi nell’antifascismo. Perché non è antifascista, ma è convintamente liberista e filo-atlantista.
I discorsi da campagna elettorale sono lontani ormai. Dopo la sconfitta alle regionali sarde, la destra si è ripresa dallo sconforto con i risultati abruzzesi e lucani. Calenda, che un po’ gerundianamente sembra il nome di un tempo in cui per lui tutte le stagioni sono buone, così come tutte le alleanze, si prepara a dare seguito ad un centro ondivago che, magari insieme a Forza Italia, dia solidità a quel punto di equilibrio tra gli ex poli contrapposti.
Almeno sull’antifascismo, Calenda è stato abbastanza netto. Si può dire che il liberismo che vuole apparire politicamente liberale non si discosta sul terreno dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino da una visione laica e repubblicana (confermata dal fatto che nella lista per le europee Azione, PRI e Repubblicani Europei hanno fatto stretta alleanza). La stessa Forza Italia ha, da questo punto di vista, contraddizioni ultraventennali.
Nasce come coacervo tra fuggiaschi craxiani, liberali e democristiani; diviene, lustro dopo lustro, governo dopo governo, paradossalmente il punto cardinale più vicino a ciò cui era più lontana all’inizio della sua epopea imprenditorial-politica: il rispetto non soltanto delle forme di governo, delle cariche istituzionali e di un certo protocollo sostanziale dettato dal galateo dei palazzi, ma anche la spina nel fianco dell’emergenza sempre più altezzosa di Fratelli d’Italia.
La competizione a destra, quindi, non è più tanto sulla rivendicazione plateale del chi è più vicino al vecchio armamentario delle ideologie criminali del fascismo e del neofascismo. La competizione si svolge, non da oggi, ma ancora di più odiernamente nella crisi dell’Occidente e nel pullulare dei conflitti armati ad Est e in Medio Oriente, su chi possa ereditare lo scettro di rassicurante rappresentante degli interessi economici dominanti.
E’ in questa cornice di sovrapposizioni e intersezioni di voglie di primeggiare che si situa tanto la ritrosia meloniana nel non voler abiurare, quanto la spavalderia sangiulianiana nel dichiararsi “antifascista” purché debitamente anche “anticomunista“.
Qui sta la vera pochezza storico-attualistica della non-classe dirigente che guida questo povero Paese. Nel non essere ciò che vorrebbe poter essere e nel dover essere ciò che, in realtà, farebbe tranquillamente a meno di essere.
MARCO SFERINI
27 aprile 2024
foto: screenshot da una celebre vignetta di Zerocalcare (“Qui abita un antifascista“) ed elaborazione propria