L’improprio regionalismo italiano, negazione dell’uguaglianza sociale

E’ un mondo meraviglioso! Basta che i padroni e i signori della Borsa alzino un poco la voce affinché qualunque testata giornalistica, persino quelle che teorizzavano le “prove tecniche...

E’ un mondo meraviglioso! Basta che i padroni e i signori della Borsa alzino un poco la voce affinché qualunque testata giornalistica, persino quelle che teorizzavano le “prove tecniche di strage“, ridimensionino i toni, addolciscano le parole e invece di aprire siti web e cartacei a nove colonne con il numero dei contagiati dal Covid-19, mettano in bella mostra il totale dei guariti.

Poche ore fa pareva quasi che dal nuovo Coronavirus non si potesse trovare scampo, che l’epidemia fosse destinata a sterminare quasi la metà del popolo italiano, ed oggi, invece, l’uniformità dell’informazione ossequiosa all’economia e ai mercati che la compenetrano così bene, capovolge le notizie e ci regala un poco di serenità.

Messaggi positivi, tranquillità, stabilità emotive, ridimensionamento dell’allarme. Tutto giusto. Ma non erano messaggi che già da giorni provenivano dalla quasi totalità del mondo medico-scientifico dei vari istituti epidemiologici della Penisola e che, invano, provavano a stabilizzare gli umori di milioni di italiani in preda alla compulsione da social network, al rimbalzare di sensazioni e ipocondrie improvvisate, fobie generalizzate e ansie totalizzanti?

Lo erano. I messaggi passavano anche in televisione, ma la polemica montava nel mondo politico, dai banchi delle opposizioni sovraniste (per la verità non tutte) provando a scalzare il governo Conte e ad arrivare presto ad una sua sostituzione con un esecutivo di “salute pubblica” o di “responsabilità nazionale“.

In questi frangenti le formule fioriscono in abbondanza quando si deve giustificare ipocritamente un cambio di maggioranza o un ricorso al voto molto peloso, volto non a tutelare il bene del Paese ma ad approfittare cinicamente di una situazione di grande disagio sociale (e sanitario, nel contingente che raccontiamo) per far fruttare i numeri – leggermente in calo – ma pur sempre significativi che i sondaggisti assegnano a chi da tempo ha nel suo simbolo la dicitura “premier”.

Il governo ha gestito la fase iniziale della crisi generata dal Coronavirus Covid-19 trovandosi a fare i conti con il regionalismo spinto, quello voluto con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha praticamente abolito il Sistema Sanitario Nazionale spezzettandolo in venti differenti modelli di amministrazione delle strutture e di indirizzo dei protocolli medici per la gestione – nel caso in questione – delle emergenze su vasta scala.

Meglio sarebbe avere a che fare con un nuovo “Comitato di Salute Pubblica“, quello vecchia maniera, di rivoluzionaria memoria, che non andava tanto per il sottile nel gestire il panico da invasione degli eserciti monarchici europei contro la Francia repubblicana appena nata. Metodi un poco sbrigativi, giustizia piegata al potere esecutivo dei comitati che in quel momento incarnavano il governo a Parigi, ma il tutto risultava essere la necessità per quei tempi eccezionali.

La centralizzazione dei servizi essenziali, vitali per ogni cittadino della Repubblica dovrebbe tornare completamente nelle mani dello Stato per evitare anche un sovrapporsi di oltre 46 ordinanze (tra regionali e statali) che altro non hanno fatto se non generare confusione nella popolazione, ma soprattutto per ridefinire un ruolo della Repubblica nell’interpretazione concreta del benessere comune, dei beni comuni nel senso più lato del termine.

Invece, in questi decenni si è cercato di assottigliare il ruolo laico e repubblicano dello Stato a tutto vantaggio di comunità locali che non sono i Länder tedeschi, che quindi non hanno una fisionomia storica di Stati associati fra loro in forma federativa fin dai tempi del Secondo impero bismarkiano e, allo stesso tempo, dipendono da Roma per tutto il resto.

Il regionalismo previsto dalla Costituzione, che si è provato a mettere in piedi a partire dagli anni ’70 del ‘900, doveva essere non una separazione tra Regioni e Stato, ma semmai una autonomia ragionata, consapevole della necessità di una simbiosi interattiva tra centro e periferia. Non, dunque, una questione di acquisizione “di potere” di un ente rispetto ad un altro, ma semmai di compartecipazione “nel potere“.

La vecchia definizione di decentramento istituzionale che si può osservare nella Legge varata il 20 marzo 1865 dal Parlamento italiano, denominata “Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”, recitava testualmente che le province sarebbero state “sede di decentramento dell’amministrazione centrale“.

Il neonato Stato italiano, infatti, composto da plebisciti indotti dai fenomeni di rivolta contro gli antichi sovrani decadenti, con popolazioni locali desiderose di entrare a far parte dell’emergente ruolo di guida assunto dal Regno di Sardegna rispetto al contesto europeo delle grandi potenze che stavano a guardare l’evolversi della situazione, non vedeva certo di buon occhio una organizzazione autonoma delle Regioni, ancora troppo simili ai vecchi staterelli che per secoli avevano dominato nello Stivale.

La Legge del 1865, promossa da Ricasoli, ebbe come funzione quella di centralizzare l’amministrazione dello Stato, di riorganizzare i comuni, accorpandone molti che avevano dimensioni territoriali piccolissime, e imporre quindi un riequilibrio tra autonomie locali e centralità del potere. Non risolse il problema del rapporto tra periferia e centro, tra il governo che all’epoca si trovava a Firenze e i capoluoghi di provincia dove si andava costituendo tutta una serie di nuove figure comunali che in parte confermavano la struttura del vecchio Regno sardo e che per altra parte la innovavano (nel senso che la mutavano pur mantenendo come punto di riferimento tanto la dinastia quanto lo Statuto albertino).

L’avvento della Repubblica nel 1946 parve, con l’elaborazione meticolosa della Costituzione, un punto di clamorosa svolta in questo frangente. La costituzione delle Regioni però rimase sulla carta fino agli anni ’70 quando si iniziò la strutturazione degli enti e si definirono le competenze delle giunte regionali, dei consigli e dei presidenti oggi impropriamente chiamati “governatori“. Anche questo è il segno di una deriva anti-culturale che ha sussunto una terminologia americana propria di un sistema statale federale che non appartiene all’Italia e che si vorrebbe in qualche modo far passare come simile o replicabile nella nostra Repubblica.

Il Coronavirus Covid-19 ha messo a nudo, in quanto emergenza sanitaria nazionale, tutte le imperfezioni tra disposizioni governative e presa in carico dei problemi da parte delle singole regioni italiane. Di più ancora, ha mostrato contraddizioni che non potevano non esistere visto il carattere costituzionale di una Repubblica che è centralista ma che rispetta le autonomie locali senza scivolare nel separatismo e nel vizio del “localismo“, quindi in una deformazione del dettato della Carta del 1948.

Per rimettere al centro dell’interesse pubblico del Paese le grandi questioni, in questo momento anche esiziali, che riguardano tutto il popolo italiano, quindi per ristabilire una uguaglianza di trattamenti dalla Vetta d’Italia fino a Lampedusa nei grandi campi sociali di cui lo Stato devo essere pro-curatore (si veda a proposito la locuzione latina originaria…) deve tornare di attualità il tema del riassetto istituzionale in merito.

Per riportare in seno allo Stato, dunque alla Repubblica come sua forma espressiva, tutto ciò che riguarda l’uguaglianza sociale e civile. La sanità, di ciò, ne è un comparto imprescindibile: un dibattito sul pubblico, sul gratuito e sullo statale forse andrebbe messo nell’agenda di tante forze politiche, soprattutto di quelle che si piccano di essere progressiste e siedono oggi al governo del Paese.

MARCO SFERINI

28 febbraio 2020

categorie
Marco Sferini

altri articoli