L’improbabile “svolta a sinistra” del PD

Ci sono voluti quasi quindici anni per far sì che il Partito Democratico ci arrivasse per contrarietà, senza saper scegliere in tempo. Ci sono voluti diversi governi, altrettanti sfracelli...

Ci sono voluti quasi quindici anni per far sì che il Partito Democratico ci arrivasse per contrarietà, senza saper scegliere in tempo.

Ci sono voluti diversi governi, altrettanti sfracelli referendari ed elettorali affinché il PD mettesse in ipotesi un cambiamento di tipo sociale del proprio programma politico, scostandosi da un neoliberismo di centrosinistra per approdare (forse, perché nulla è ancora affatto detto…) ad una blandissima critica degli eccessi del mercato e di tutto quello che i democratici avevano magnificato come meravigliosa evoluzione moderna: privatizzazioni, tagli allo stato-sociale, destrutturazioni contrattuali e, quindi, il lavoro come variabile dipendente delle oscillazioni del capitale.

Nel testo elaborato comunemente da Letta e Speranza, insieme agli altri novantotto “saggi“, in vista delle primarie per la nuova segreteria nazionale e per quello che dovrebbe essere pure il nuovo corso del partito, la svolta appare, si percepisce se si mettono a paragone gli impianti politici del 2008 e di oggi. Ma sembra già però scomparire se si prende in considerazione la concreta ipotesi che a vincere la competizione per la guida del PD sia Stefano Bonaccini.

E’ nei fatti lo stridere tra quello che dovrebbe essere un recupero progressista di un partito pericolosamente scivolato sempre più al centro, su un terreno liberistissimo, atlantisticissimo, fedele ad ogni presupposto di governismo che avesse in sé il carattere di tutela dei privilegi dei più benestanti, mettendo così in contrapposizione una affermazione solo a parole di difesa dei diritti dei salariati moderni con una pratica di gestione del potere tutta legata alle compatibilità esclusive del mercato.

Ben venga, dunque, il cambio di passo, la folgorazione sulla via dell’archiviazione della rivendicazione perentoria dell'”agenda Draghi” come presupposto di governo durante tutta la campagna elettorale del settembre scorso. Ben venga tutto quello che può spostare l’asse della politica italiana dal dogma del capitalismo liberista, ma, nonostante tutta la buona volontà di credere a quanto si legge oggi, alcuni sacrosanti dubbi rimangono.

Se la guida del PD sarà bonacciniana, quante possibilità vi sono che tra il dire e il fare vi sia una sostanziale contiguità, una coerente applicazione della nuova carta costituente di un partito che per tre lustri ha fatto le parti della destra sul piano economico nell’azione di governo come all’opposizione?

A pensar male si farà pure peccato, ma l’abisso venutosi a creare tra la grande massa degli sfruttati di oggi e la politica cosiddetta (impropriamente, appunto) “di sinistra” è responsabilità prima di un PD che ha, con l’ambivalente ed equivoca condivisione di ideali progressisti e controriforme filoconfindustriali e mercatiste, creato uno iato enorme tra le aspirazioni ad una espansione equivalente e costante tra diritti civili e diritti sociali.

Il campo largo delle destre al governo è espressione di una uguale e contraria assenza di una sinistra tanto moderata quanto di alternativa e anticapitalista in questo Paese.

La fusione delle due vecchie culture di governo (socialdemocratica e democristiana), che si sono unite «non in termini di rappresentanza parziale di segmenti sociali», ma volendo quindi essere interclassiste, apertamente votate ad una interpretazione pseudo-sociale delle istanze del capitale in una Italia che era già parecchio andata a destra nel ventennio berlusconiano, ha rappresentato una vera e propria anomalia nel quadro più generale dell”Europa economica e finanziaria.

La critica che abbiamo rivolto, almeno fino ad oggi, al PD era proprio quella di aver creato un “anomalo bicefalo“, creando una discrasia cognitiva, (anti)sociale e molto impolitica: alterando la percezione della sinistra pur dentro il centrosinistra, permettendo volutamente che si confondessero i piani e che le politiche in difesa degli interessi dei più ricchi fossero fatte da un partito che si proclamava e si lasciava descrivere come forza principale della sinistra.

Adesso, sulle macerie di quella grande menzogna, edificata per essere buoni per tutte le stagioni e per tutte le classi di questa società, per gestire il potere tanto a Roma quanto nel più piccolo comune della Repubblica, dovremmo credere che si voglia rimettere insieme i cocci partendo quasi esclusivamente da una prevalenza del progressismo socialdemocratico sulla cultura popolar-democristiana di un tempo.

Dovremmo credere, e proviamo a crederlo, che si voglia sostituire i dogmi del mercato, venerati e fatti numi tutelari della politica del PD per tre decenni, una ferrea disposizione ad uniformarsi ai dettami dell’articolo 3 della Costituzione, lasciando indietro, e forse obliando, quei paragrafi dello statuto di origine veltroniana, ma quasi completamente condiviso dai fondatori tutti, in cui si descriveva la funzione del governo del Paese come atta al «fissare le regole per il buon funzionamento del mercato».

Sia chiaro: il PD non prova a diventare una forza di sinistra critica verso il capitalismo. Non sia mai che a qualcuno passi per la mente, leggendone la nuova carta dei valori elaborata dai cento addetti ai lavori, di passare dalla semplicistica e sempliciotta definizione “di sinistra” con una etichettatura “anticapitalista” e magari pure “comunista“. Saranno capaci di farlo i giornali di destra. Se ne guarderanno bene i quotidiani di quella borghesia imprenditoriale che intendono cercare la stabilità dei loro interessi in una relativa intesa da “pace sociale” con i salariati e i precari.

La presenza ingombrante di un Movimento 5 Stelle che occupa il posto del progressismo post-draghiano è, almeno in questa prima fase del governo nero delle destre, un ostacolo di non poco conto alla riaffermazione di un usato tutt’altro che sicuro come il PD per le classi lavoratrici, per tutto quel mondo della parcellizzazione contrattuale, della privatizzazione dei servizi, dell’esaltazione della precarietà come espressione naturale e logica di una modernità derivata dalla idea originaria (tutta liberista) della “flessibilità“.

Nel nome della crescita economica e delle compatibilità di mercato, per uno sviluppo a tutto tondo del PIL nazionale, partiti come il PD sono stati espressione di tutto questo e oggi, per guadagnarsi il rispetto e la fiducia di una parte del martoriato mondo del lavoro, almeno di quello che non va più a votare, dovrebbero davvero dire basta ad accordi con forze come quelle del Terzo Polo, staccarsene definitivamente ed esprimere una critica riformista che, quanto meno, lasci intendere che si sta guardando davvero altrove. All’opposto di dove si mirava prima.

Bonaccini, in questo senso, lascia poche speranze a chi può anche vagamente ipotizzare un ritorno di una sinistra moderata in Italia affiancata da una antiliberista e anticapitalista per provare a dare al Paese una alternativa tanto di lotta quanto di governo che scalzi davvero le destre da Palazzi Chigi e non le sostituisca con una ennesima loro brutta copia.

Lavoro, sanità, scuola, pensioni, ambiente, cultura, diritti civili, uguaglianza di genere, antifascismo per poter essere concretamente calati in un programma di sinistra di governo del Paese dovrebbero poter essere impermeabili a qualunque tentazione da “voto utile“, da “unità nazionale” e da controriforme incostituzionali tese a modellare l’impianto della Repubblica alle esigenze delle classi antisociali, di chi pretende che a decidere sia, alla fine, un uomo o una donna soli al comando, senza più quella centralità parlamentare che è una antidoto ancora potente contro le derive oligarchiche ed autoritarie.

L’impossibilità per il PD di abbandonare definitivamente le sue origini, di guardare al nuovo manifesto dei valori senza consegnare alla Storia il vecchio armamentario liberista, dice molto chiaramente che la cifra del processo ri-costituente sarà non quella della svolta ma quella del compromesso fra la corrente liberal e quella che pretende di essere “più di sinistra“.

La retorica nauseante sui “bisogni degli italiani“, su una politica che “sia vicino alla gente“, sono coniugazioni di astrattismi piuttosto che vere intenzioni da mettere in pratica una volta alla guida del partito. Certamente non è possibile affermare che pari sono Bonaccini e Schlein, ma se la cornice del quadro rimane quella appena descritta, chiunque vinca si troverà a fare i conti con una forza politica sempre da tenere in equilibrio tra esigenze imprenditoriali e diritti dei lavoratori; tra autonomia differenziata in salsa calderoliana e nuova considerazione delle autonomie locali sulla base dell’egualitarismo costituzionale.

E così via per molte altre tematiche. Il punto di caduta non potrà essere la scelta tra una delle due opzioni, netta e chiara, ma solo una compromissione delle stesse a discapito di una chiarezza di posizioni che sia poi, inevitabilmente, una altrettanto chiara disposizione parlamentare del PD e quindi anche una ricaduta sul terreno sociale.

Tutto sembra, dunque, tranne che il congresso della svolta, del cambiamento radicale, del ritorno a sinistra. Tutto sembra così. Staremo a vedere…

MARCO SFERINI

21 gennaio 2023

foto: screenshot

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