L’impossibile soluzione dei problemi sociali da destra

Il Senato della Repubblica dà il via libera all’invio di nuove armi al governo di Kiev. Lo fa tra le gaffes di Maurizio Gasparri sulla guerra di Crimea, su...
Giorgia Meloni

Il Senato della Repubblica dà il via libera all’invio di nuove armi al governo di Kiev. Lo fa tra le gaffes di Maurizio Gasparri sulla guerra di Crimea, su Cavour e sul Regno di Sardegna (che lui, semplicisticamente, chiama “di Piemonte“) che sarebbe ancora esistito tra il 1861 e 1863. Questa è una farsa che, però, si avvita sulla tragedia bellica, sulla perseveranza con cui il governo delle destre meloniane applica il dettame della NATO, investe in armamenti, aumenta il costo della benzina e, in generale, il quello della sopravvivenza di decine di milioni di italiani.

Eccolo il primo impopolarissimo inciampo per Giorgia Meloni e il suo esecutivo nero: è uno dei costi più evidenti, che tutti (o quasi) ogni giorno affrontiamo quando andiamo alla pompa del distributore. La Presidente del Consiglio si affretta a fare un video in cui ci spiega che dal 2019 in poi, cioè da quando aveva promesso che, una volta al potere lei, le accise sarebbero state falcidiate, le cose sono cambiate. Eccome se lo sono.

Pandemia, guerra, crisi economica mondiale conseguentemente aumentata e polarizzata sempre più tra est e ovest. Ma sono cambiate anche le contingenze che hanno riguardato la politica italiana: la grande massa di soldi del PNRR non avrebbe mai potuto essere richiesta dall’Italia all’Europa prima delle catastrofiche chiusure dovute alla Covid-19 e dello scoppio del conflitto in Ucraina.

Di quei soldi, prima il governo Draghi e poi quello Meloni, hanno deciso di indirizzarne la maggior parte verso le imprese, mettendone al sicuro l’instabilità dovuta più alle speculative scelte industriali rispetto all’intrecciarsi dei problemi continentali e internazionali.

La NATO chiama tutti i paesi che ne fanno parte ad aumentare il gettito del loro PIL in materia di riarmo, portandolo al 2% del totale della spesa pubblica e lo Stato italiano esegue prontamente. La campagna elettorale di Fratelli d’Italia includeva, scripta manent, anche una “sterilizzazione delle entrate dello Stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di IVA e accise“; l’insediamento al governo delle forze di destra, trainate proprio dal partito meloniano, mette da parte quel pezzo di programma e si adegua alla compatibilità economica.

Segue, quindi, le direttive di un liberismo che, senza troppi misteri, ha ispirato il resto degli intendimenti esposti in campagna elettorale, seppure mascherati da interventi a favore della popolazione, come priorità nazionali per mettere in sicurezza una economia devastata da troppe intromissioni straniere.

Prima l’Italia, prima gli italiani, ma poi, in fin dei conti (ovvero al loro principio pratico di applicazione) la benzina costa uguale per tutti ma, come tutte le imposte indirette, ha un impatto diverso da tasca a tasca, da portafoglio a portafoglio.

Mentre scriviamo, rispetto alla settimana scorsa, gli aumenti vanno dal +167% per la benzina verde al +160% per il gasolio auto (dati del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica). Significa che, nel giro di pochi giorni, seguendo questa tendenza, da 1 euro 62 centesimi al litro della verde di soli sette giorni fa, nel giro di due settimane, si passerà a toccare la soglia dei 2 euro al litro. Praticamente quanto veniva a costare il carburante più utilizzato appena dopo le prime settimane di guerra, nella metà di marzo di un anno fa.

Il taglio delle accise scritto nel programma del partito di maggioranza relativa e di governo, avrebbe potuto esservi se si fosse scelto di intervenire, ad esempio, sulle grandissimi ricchezze, con una tassazione patrimoniale, con un prelievo non una-tantum sugli extra profitti, con un intervento davvero strutturale sulla fiscalità in generale.

Rifugiarsi nella mancanza di tempo è, da parte dell’esecutivo, un palliativo, perché la legge di bilancio poteva includere intanto degli indirizzi di massima che sarebbero stati la base su cui erigere una serie di riforme in questi primi mesi del 2023.

Ma era davvero realistico attendersi da un governo iperliberista come questo un compromesso tra la propaganda elettorale di stampo sociale, strabicamente rivolta ad un post-fascismo altrettanto tale e pelosamente rivolto per decenni ai ceti più deboli della società per acquisirne il favore politico, per dare una risposta di destra estrema a problemi che il fascismo per primo aveva negato alleandosi con i più grandi industriali dell’epoca per ottenere il potere con un colpo di Stato niente affatto nascosto o misconosciuto?

Non era e non sarebbe stato realistico. Soltanto un giochetto illusorio, una ipotesi nel migliore dei casi; un raffronto per evidenziare ancora di più le discrepanze evidenti tra il dire e il fare del governo, tra il sembrare e l’essere delle forze che lo compongono oggi.

Le scelte fatte sino ad ora parlano più di qualunque video di Giorgia Meloni o abborracciamenti dell’ultim’ora su una manvora data alla sua esecuzione da alcune settimane. Palazzo Chigi non è intervenuto in nessun modo per attenuare l’impatto dell’aumento inflazionistico indistinto sulla grande fascia dei consumatori che fanno fatica ad arrivare non più tanto a fine, bensì a metà del mese…

Non ha calmierato i prezzi, non ha sostenuto i bonus per i pendolari (ed anzi ne ha diminuito la platea di erogazione), non ha aumentato le coperture per la scuola pubblica o per quegli ambiti sociali, come il comparto sanitario, che dipendono dalle Regioni, per cui si prospetta un peggiormento tramite la controriforma disequilibrante dell’autonomia differenziata calderoliana.

Il governo si è mosso, con il favore anche di una parte dell’opposizione (il celeberrimo Terzo Polo), nella direzione di una tutela sempre più vigorosa del privato a scapito del pubblico.

Una perfetta adesione alla conduzione di uno Stato in chiave liberista, per niente impressionato dalla crescente povertà, dalla sua possibile evoluzione in un movimento cosciente di critica sociale che diventi opposizione di piazza, opposizione di massa che chieda più tutele per un mondo della precarietà che è la prima soglia ormai verso la nuova povertà endemica.

Le destre, invece, hanno privilegiato gli interessi di un ceto medio che non combacia nemmeno più con gli ultimi gradini della scala antisociale confindustriale e che pretende di essere competitivo con le grandi aziende, di avere un ruolo nelle dinamiche economiche di una Italia in cui la povertà strutturale, quella che viene anche definita “assoluta“, riguarda quasi il 10% della popolazione e, quindi quasi sei milioni di italiani.

Si pone quindi una domanda, davanti a questo scenario così mutevole e molteplice nel suo dispiegarsi sulla scena europea e mondiale: i partiti di governo sono in grado di rappresentare pienamente gli interessi, ossia i privilegi, della classe dominante, di quella imprenditoria che assorbe parte della piccola impresa, che ne fa corollario di sé stessa in indotti dove si sfruttano i brevetti altrui e dove si fanno extra-profitti di impronta internazionale, perché la globalizzazione ha comunque il suo ruolo in tutto questo?

Certamente il governo di Meloni non può, per propria natura, stare dalla parte dei più deboli. Può continuare a dire di volere il bene della nazione, di essere patriotticamente pronto all’estremo sacrificio per la difesa dell’italianità di questo o quel prodotto, ma in questa narrazione così fintamente sociale non c’è posto per garanzie di espansione del potere di acquisto dei salari, delle pensioni e per un contenimento della povertà assoluta.

Se di retrocessione economica si deve parlare, ciò vale esclusivamente per molto più di una buona metà della popolazione che vive del proprio salario (circa 19 milioni di persone) o della propria pensione (circa 16 milioni di cittadini): mentre le misure del governo vanno a proteggere quel ceto medio e quel mondo dell’impresa che costituisce, oggettivamente, una netta minoranza nei rapporti di produzione, nella costruzione dell’economia del Paese, nella contribuzione alla formazione del PIL.

Un Prodotto Interno Lordo che, invece di essere redistribuito con una certa equita – non si pretende al momento di avere dal governo delle destre riforme socialisteggianti… -, viene investito in capitoli di spesa che non fanno altro se non privilegiare ulteriormente coloro che dalla crisi pandemica, dalla guerra e dalle intersezioni finanziarie hanno guadagnato e speculato abbondantemente. Nonché dirottare quasi un milardo di euro in più sui costi di un riarmo, di un adeguamento delle Forze Armate ai canoni della NATO, secondo i protocolli di guerra per procura.

Pare davvero poca cosa che Gasparri sbagli le date della guerra di Crimea in questo massacro sociale che esce fuori dalla finanziaria del governo e dall’impiego delle risorse del PNRR secondo le direttive dell'”agenda Draghi”. Voleva applicarla per primo Enrico Letta, che ne fece un punto dirimente del programma di governo. Ed ha perduto sonoramente. Invece, promettendo il taglio dell’IVA e delle accise, Fratelli d’Italia vince e governa.

Qui non si tratta di bluffare per governare, perché la rabbia e l’ignoranza di alcuni milioni di italiani hanno potuto essere una leva per un sostegno ad un partito di destra che si pensava potesse fare cose di sinistra.

E su quella rabbia sedimentata, ed esplosa più volte in questi anni puntando sul conducator di turno, presentato dai media come il salvatore della Patria, su quella superficialità di conoscenza delle vere intenzioni politiche delle forze post-fasciste, liberiste e sovraniste, la parte che conta – economicamente e finanziariamente – ha esercitato una seduzione momentanea, per creare una sinergia interclassista.

Si sono saldati il disagio sociale di un moderno mondo del lavoro senza guida politica, tradito più e più volte dalla finzione progressista del centrosinitra, con gli interessi del ceto medio e di parte dell’industrialismo italico.

Questa saldatura rischia di saltare soltanto nel caso in cui il governo perda la fiducia su temi di rilievo prettamente contingenti, riguardanti appunto il prezzo di un carburante, l’aumento dei biglietti del bus o del treno, i costi dei pedaggi autostradali, le tasse in generale e, ultimo e primo ancora in classifica, il caro-bollette.

I governi liberisti devono puntare tutto sulle promesse sociali, che sono promesse di sostegno economico per antonomasia, ma possono vedersi tornare indietro queste stesse come un boomerang se in un brevissimo lasso di tempo non danno dei segnali di coerenza in tal senso. E, al momento, la crisi economica gioca a favore della grande finanza internazionale, delle enormi speculazioni borsistiche, del ceto medio su cui Palazzo Chigi è intervenuto per tutelarne la stabilità, ma non gioca a favore nemmeno per un centesimo di euro dei più deboli e disagiati.

Non è la fine del governo Meloni. Tutt’altro. Ma è la conferma che le contraddizioni esistono e possono essere aperte e alimentate. Compito di una sinistra di alternativa, oggi, è proprio questo: incunearsi, insinuarsi in queste intercapidini antisociali e mostrare ai più poveri che lì, tra le forze di governo, non c’è nessuna soluzone ai problemi più evidenti da affrontare ogni giorno.

Per la verità nemmeno tra le forze di opposizione, che si fronteggiano a colpi di primarie internettiane o nei gazebo, si registra un fronte di sostegno alle classi sociali più indigenti. La soluzione, semmai c’è, è ancora tutta da costruire e ricostruire.

MARCO SFERINI

12 gennaio 2023

Foto: screenshot tv

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