L’impossibile proiezione esistenzialista nel moderno mondo liberista

Più che mai oggi, in una società atomizzata dall’estremizzazione liberista della competizione del mercato, in cui l’individualismo è la precostituzione di una nuova soggettività indotta da una concorrenzialità antisociale...

Più che mai oggi, in una società atomizzata dall’estremizzazione liberista della competizione del mercato, in cui l’individualismo è la precostituzione di una nuova soggettività indotta da una concorrenzialità antisociale che decostruisce il collettivo e la socialità comunitariamente intesa, vale la pena raffrontare la prima ottocentesca pulsione esistenzialista di Søren Kierkegaard che, soltanto molto tempo dopo, ebbe quella fortuna che gli fu riconosciuta come particolare visione di una filosofia nettamente opposta all’hegelismo.

Ripresa, seppure negata come etichetta di un nuovo filone che si ispirasse al pensatore danese dalla vena malinconica, da Martin Heidegger, la corrente esistenzialista sembra, in chiave ovviamente moderna e modernista, una sorta non tanto di anticipazione dell’egoismo capitalisticamente inteso, declinato nel suo senso proprietario e imprenditoriale, scisso da qualunque venatura moralistica ed eticheggiante, quanto semmai una conferma della solitudine quasi atavica dell’essere umano nel mondo.

In un mondo che gli è incomprensibile, che non sa risolvere perché, in fin dei conti, gli è impossibile arrivare alla stessa soluzione riguardante la sua esistenza – per l’appunto – che è l'”esserci” rispetto all'”essere“, la questione prettamente ontologica è un noioso giocherello di distinzioni semantiche, di pronomi che si associano a predicati verbali, di sottigliezze che si divertono a separare i concetti per cercare di mettere una distanza tra un ragionamento compiuto e la sua conseguente proposizione nella realtà oggettiva.

L’individualismo moderno e la filosofia del singolo di Kierkegaard hanno dunque dei tratti in comune? La storia della dialettica e del pensiero critico è lì a dimostrarci che, se si vuole,  si può piegare qualunque concetto a ciò che gli si vuole fare dire, operando le associazioni più astruse, facendo convergere le divergenze più conclamate e riuscendo persino ad argomentarle senza troppo dispendio di energie intellettive.

Ma, se davvero si intende rendere compiutamente tanto il pensiero di uno studioso quanto l’impatto successivo che ebbe nella società, allora si dovrà mettere da parte ogni ludico utilizzo della filosofia applicata o affiancata anche soltanto ad una moderna sociologia che finirebbe per contraddire entrambe e sminuirne il portato più che altro metafisico (visto che di kantianamente scientifico qui c’è molto poco da indagare).

Se proprio si vuole cercare qualche punto di contatto tra individualismo esistenzialista, liberalismo prima e liberismo poi, si può provare ad utilizzare la singolarità kierkegaardiana in relazione all’angoscia determinata dalla presenza costante nell’esistenza della scelta come esocentrica prigioniera di una libertà magnificata in quanto possibilità di optare per una o l’altra cosa.

Il mercato capitalistico, in effetti, ci mette davanti a delle scelte, e non solo quando ci costringe (nella libertà di opzione) a valutare se morire di fame mediante la pratica quotidiana delle nostre più profonde attitudini (che ci farebbero certamente felici) oppure a svolgere un lavoro che ci immalinconisce, ci rattrista, ci perseguita, ci tortura perché, sostanzialmente, è autoalimentazione di una alienazione che ci depersonalizza, ma che ci dà di che sopravvivere.

Ma, soprattutto, il regime delle merci e dei profitti drammatizza tutto questo scientemente, perché fa della nostra esistenza una non-essenza, una spoliazione della nostra volontà, una inedia psicosomatica, un deperimento tanto della coscienza più spirituale che è in noi, intesa proprio come “psiche“, come soffio primordiale, quanto della nostra fisicità, del nostro essere corporeo, della nostra relazione col resto del mondo attraverso percezione sensoriale.

Nel momento in cui il capitale rende tutto vendibile e acquistabile, per primi gli esseri viventi, gli umani, gli animali, le piante, i terreni, i prodotti della natura senza distinzione alcuna, la singolarità dell’individuo esistenze è compressa tra gli interessi che finisce per rappresentare sul mercato.

Le caratteristiche più singolari, le particolarità più esclusive, quindi le ricchezze di ogni singolo capolavoro che è ognuno di noi (per dirla alla CB) vengono depredate dalla vorticosa spirale del valore di scambio in funzione del valore d’uso.

Il “valore animale“, quello “umano” e quello “naturale” spariscono o, quanto meno, si affievoliscono molto nel contesto che li mortifica nel nome di una crescita globale che, pur rifacendosi all’interezza della società, la contraddice nel mentre la ricerca come base fondante del nuovo sviluppismo, perché ci costringe a fare continuamente, senza sosta alcuna, scelte su scelte e ci ingabbia in questa prigione di un finto collettivismo che ci riguarderebbe tutti e che, invece, altro non fa se non metterci gli uni contro gli altri.

Quando, con l’esistenzialismo novecentesco si avrà la “reinessance” del pensiero di Kierkegaard, il processo di industrializzazione delle coscienze sarà già ampiamente avviato e il capitalismo entrerà di lì a poco nella sua fase espansiva globale con guerre di annientamento, con una diffusione della produzione su scala mondiale.

Si salveranno, per un certo periodo di tempo, dalla furia annichilitrice del mercato quelle società plurimillenarie consolidatesi attorno ad una condivisione armonica tra spiritualismo e complessità dell’esistenza.

Nella saggezza orientale, tanto arabeggiante quanto indo-sino-nipponica (fatte le debitissime differenziazioni del caso), si potrà trovare una barriera immunitaria che farà da diga alla penetrazione dell’occidentalizzazione di tutto e di tutti, ma che, alla fine, dovrà cedere davanti alla prepotenza dei dati oggettivi, del pragmatismo politico così come di quello spietatamente e schiettamente economico. L’Europa non riuscirà più a conquistare il mondo come aveva fatto fino alla fine dell’800.

Le guerre mondiali e quelle che ne seguiranno, compreso il glaciale conflitto tra i blocchi opposti nel primo multipolarismo moderno, saranno l’ennesima dimostrazione di una prigionia delle scelte per ogni essere umano: dal Presidente degli Stati Uniti d’America fino a quello che, con spregio, si potrebbe definire l’ultimo dei proletari newyorkesi o bostoniani.

Il pessimismo esistenzialista, che controbilancia l’ottimismo positivista, si dovrebbe adattare di più allo scoraggiamento sociale rispetto all’anarchia dei mercati.

L’entusiasmante innovazione tecnologica, la possibilità di immaginare addirittura la vita su Marte mediante l’istituzione di colonie della specie umana per evitare la sua scomparsa anzitempo su un pianeta Terra devastato grazie alla puerile esaltazione del singolarismo a tutti i costi, del rampantismo egoistico, dell’accumulazione di ingenti risorse per una esiguissima parte della società antisocialmente intesa, sembrano piuttosto attinenti all’allucinazione positivista e non rispondenti ad una problematica esistenzialista.

La domanda che, molto tempo dopo la morte di Kierkegaard, si pone Martin Heidegger è tanto antica quanto la filosofia stessa: che cos’è l’Essere?

Insomma, che cos’è tutto questo che siamo noi, che ci circonda, che esiste perché c’è? Dall’indagine introspettiva sulla nostra essenza saremmo dovuti arrivare ad una soluzione anche del problema dello squilibrio di ogni rapporto di forza: a cominciare dal fatto che, lo si voglia o no, ogni speculazione filosofica prova ad aggiungere un tassello anche conoscitivo e gnoseologico al tempo stesso. Conoscere la conoscenza stessa per migliorarci.

La domanda sull’Essere sembra paradossale nella piena espansione moderna del liberismo. Perché, anzitutto, è l’esserci che viene meno, che quindi fa sempre meno parte dell’essere, di ciò che c’è. A prescindere da noi. L’interrogativo, da Parmenide ad Hiedegger aveva come presupposto il sollevamento di orpelli che opprimevano la conoscibilità dell’essere umano e del mondo in una unità cosmologica che poteva anche riguardare una certa forma (e sostanza) deistica.

Tutto era finalizzato ad un miglioramento dell’esistenza nell’essenza. Senza alcuna scissione tra pensato e fatto, ma anzi con un diretto filo conduttore tra idea e fenomeno, nello specifico tra idealismo e fenomenologia. La filosofia, nel corso dei secoli, ha smesso di fare a pugni con sé stessa e ha provato ad essere, pur nell’asprezza dialettica e del confronto tra le tesi spesso opposte, un punto di partenza per migliorare la condizione esistenziale.

Per vivere, dunque, meglio. Critica, scienza e persino una evoluzione del pensiero metafisico, dell’astrazione religiosa e della sua tendenza al teleologismo, quindi a ritrovare anche – e soprattutto – nella modernità una nuova prova della finalità complessiva dell’Universo che deve provenire senz’altro da un principio primo, da un Essere supremo, si sono in larga parte uniformate alle esigenze del capitalismo e se ne sono lasciate influenzare.

L’esistenzialismo moderno è, oggettivamente, una filosofia della crisi dei tempi, che si inserisce tra le due guerre mondiali e che, quindi, prova a dare, se non una risposta, quanto meno una interpretazione della grande solitudine che gli esseri umani avvertono in mezzo a tanto orrore.

I princìpi evangelici di fratellanza, amore, libertà e altruismo sembrano contraddetti continuamente da una modernità che annienta, che mette i popoli contro i popoli e che, nel violare il principio universalità dell’umanitarismo, pone i presupposti per un solipsismo davvero esasperato.

Socialismo e comunismo, lotta di classe e rivolta proletaria riaffratellano le coscienze, uniscono e fanno sentire meno soli nel “mondo grande e terribile“, ma i cicli capitalistici piegano le conquiste degli sfruttati e li trasformano, ad ogni nuova crisi globale, in carne da cannone, in instrumentum regni di nuovi Stati che sperimentano l’assolutismo moderno: il totalitarismo.

Primo fra tutti, l’Italia fascista. L’ontologia qui ha davvero poco margine di manovra. Prima si deve sopravvivere e poi ci si può allora chiedere perché si esiste, perché si vive.

L’essere dell’uomo nel mondo è, pertanto, una domanda che, da spettro ontologico, diviene paradigma di un grido di dolore: quando tanta è la sofferenza, si vorrebbe mettervi fine annullandosi, rinunciando alla vita. Malattie, miserie, guerre che devastano ogni cosa, sono sufficienti ad impedire alla volontà umana di essere il motore del rinnovamento personale e collettivo.

La coscienza, così, senza spinta volontaristica, diventa un nodo gordiano di autoreferenzialità, dove prevale il “si salvi chi può” e non la ricerca di una soluzione comune. La critica heideggeriana nei confronti del consumismo moderno si può leggere anche in questo senso. Con prudenza.

Ma, tuttavia, l’angoscia dell’oggi è coscienza del vissuto, relativamente piena consapevolezza di esperienze che inducono al pessimismo, alla ricerca di sé stessi soltanto in una questione sociale e collettiva che ha fallito, sconfitta dall’egoismo liberista. Ritrovare il proprio essere nell’esserci di oggi è davvero arduo, perché prevale la rassegnazione del singolo davanti alla straordinaria potenza di un sistema economico che nega l’individualità nel collettivo e la accetta soltanto se si contrappone a qualunque idea di comunità organizzata.

Ecco che anche noi abbiamo una qualche “spina nelle carni“, come scriveva Kierkegaard riguardo a sé stesso, giovane, malinconico, “figlio della vecchiaia” dei propri genitori, intrisi di religiosissimo protestantesimo danese, severamente cupi. Ci portiamo appresso tante angosce che sedimentano nel nostro inconscio e, senza scomodare ora Sigmund Freud o Karl Gustav Jung, costituiscono l’ossatura delle nevrosi che viviamo esistenzialmente ogni giorno.

Il nostro “esserci” nell'”essere” è anche la privazione di una parte di noi stessi, causata dall’alienazione quotidiana.

Ma il nostro “esserci” è, trasgredendo i limiti della prigione esistenzialista heideggeriana, i suoi asfissianti confini ontologici, anzitutto coscienza critica, libertà di azione nella consapevolezza proprio dell’inspiegabilità e dell’irrisolvibilità della vita. Se proprio vogliamo dare un senso al tutto, cominciando da ogni essere vivente e da noi stessi, facciamolo non astraendoci dai contesti, ma calandoci pienamente in essi.

Materialisticamente, sì. Perché non abbiamo nessuna prova di altre vite. Abbiamo questa e a qualcosa dobbiamo pure finalizzarla.

MARCO SFERINI

17 dicembre 2023

foto: elaborazione propria

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Il portico delle idee

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