L’inciampo sull’iter di approvazione del Documento di Economia e Finanza, se unito ai tantissimi miliardi del PNRR che giacciono nelle casse dei ministeri perché sono scaduti i termini di impiego mediante decreti attuativi delle misure che erano state previste, traccia una fisionomia governativa tutt’altro che rassicurante. Prima di ogni altra cosa proprio riguardo la capacità gestionale dell’amministrazione (quasi) ordinaria del “sistema Paese“.
Le cifre sono impietose: su duecentosette decreti che dovevano mettere in pratica le norme approvate con la destinazione dei fondi, ben centottantuno sono quelli rimasti al palo. E, per aggiungervi il carico come ad un cinico e baro gioco di carte, cinquatadue decretazioni sono proprio lettera morta, perché il tempo per la loro definizione e per l’attuazione è ormai consegnato al passato. Le scadenze datavano da gennaio fino ai primi di aprile.
Ma il governo era troppo impegnato nelle sue politiche repressive, in quelle di contenimento dei diritti umani e nelle polemiche sull’antifascismo e la Resistenza per potersi concentrare sulla spesa di fondi che ora rimaranno inevasi. I capitoli in cui questi soldi dovevano andare erano i più disparati: dalle esenzioni IMU per i proprietari di casa le cui abitazioni sono abusivamente occupate, ai finanziamenti “contro la decarbonizzazione e la riconversione verde delle raffinerie esistenti“.
Riguardo alla collocazione “ideologica” dei capitoli di spesa, la trasversalità la fa da padrona: restano senza finanziamenti tanto i “pro vita” vandeani dei “Family day” quanto gli studenti universitari che avrebbero forse potuto vedere migliorate le loro condizioni di alloggio presso gli atenei.
In monenta sonante si tratta di un bel pacco di miliardi, per l’esattezza cinque: il che vuol dire che almeno il 10% delle risorse della Legge Finanziaria del governo Meloni resterà inoperoso, privo di sbocco nella concretezza del reale, a data da destinersi. Per un esecutivo composto da forze che si gloriano di patriottismo ad ogni piè sospinto, non è certo una bella prova di aderenza tra il dire il fare, tra il proclamarsi e l’essere.
I giochi di palazzo, poi, si stagliano come ombre furtive nella notte più buia che oggi abbia passato Giorgia Meloni come Presidente del Consiglio dei Ministri se ci si riferisce in particolare a quello che eufemisticamente si può definire uno scivolone e che fa fare al governo un tonfo dai risvolti internazionali.
Dall’estero, dove si trova in visita bilaterale con il primo ministro britannico Rishi Sunak (il più risolutamente a destra da un po’ di tempo a questa parte, nemmeno a pari con Boris Johnson su piani inclinatissimi come quello della guerra e del riarmo) Meloni commenta icasticamente aggiungendo al termine “scivolone” l’aggettivo “brutto“.
La minimizzazione comunque serve a poco, perché i sei voti mancanti pesano più di quel che sembrano e fanno adombrare l’ipotesi che una dialettica malversatrice si sia innestata in un gioco tutto interno alla maggioranza.
Le motivazioni, siccome si parla di ipotesi collegate alle voci di palazzo che si rincorrono sui giornali e su Internet, potrebbero essere rintracciabili sull’approvazione o meno di misure legate alla fiscalità, oppure ai troppi bonus che non sono certamente sostitutivi di un rinvigorimento in chiave sociale della manovra.
Le elemosine del governo iniziano ad essere imbarazzanti visto che di aumento dei salari non si parla, mentre si sottolinea a più riprese il convincimento liberista di sostenere a tutto tondo l’impresa piuttosto del lavoro.
Mentre in Italia traballano i conti previsti da Palazzo Chigi, la Presidente del Consiglio firma con Sunak un’intesa che ha il sapore dell’Italexit (non come partito ma come processo induttivo che porti ad una lontana ipotesi di revisione dei trattati con Bruxelles e Strasburgo) ma che, garantisce Meloni, si tiene in piena coerenza e complementarità con l’adesione italiana all’UE: le comunanze tra i due capi di governo fortemente di destra si registrano su migranti e sicurezza, difesa, economia, energia, innovazione.
Il tema dell’economia nazionale ritorna proprio mentre il governo dà prova di non avere la certezza assoluta del controllo dei suoi deputati e senatori. Neppure con una ampia maggioranza parlamentare e sorta di coalizione indefessamente unita verso l’obiettivo dello sdoganamento di qualunque tabu riguardi la destra erede del MSI e del postfascismo, del sovranismo e del qualunquismo in generale.
Non è, infatti, un caso che le ultime visite estere della Presidente del Consiglio siano andate in direzione di una specie di revanchismo cultural-ideologico proprio di un nazionalismo da rimarcare ogni tanto per tenere insieme elettorato e consenso, rapporti internazionali ed azione di governo. Le polemiche dei giorni scorsi sulle scorribande antistoriche dei suoi principali sostenitori della prima ora, possono essere superate da questa vistosa impreparazione sui conti, sulle spese e sui fondi da destinare alla riorganizzazione del Paese.
Tutto questo avviene in un momento, oltretutto, di profonda crisi sociale, di instabilità economica, di un disastroso scenario europeo in cui la politica estera tentenna e scricchiola sotto il peso dell’influenza nord-atlantica, con davanti ancora lunghi mesi, forse anni di guerra in Ucraina.
L’inadeguatezza di un governo non è dimostrata soltanto dal fatto che, nella maggior parte dei casi, ci si trova sempre davanti a quel “comitato di affari della borghesia” di marxiana memoria, ma pure dall’imperizia, dalla inadeguatezza di una classe dirigente che pretenderebbe di essere tale soltanto come sommatoria di più forze politiche collaudate e di certo non alla prima esperienza.
Ma, nel corso degli anni, tanto Forza Italia quanto la Lega, con qualche differenza per l’emergente Fratelli d’Italia (erede un po’ anomalo di una Alleanza nazionale che aveva fatto il percorso inverso rispetto a quello meloniano) hanno perso quelli che erano i più consolidati arbitri del gioco, degli equilibrismi ed anche dei trasformismi che consentivano al centrodestra di rappresentare meglio del centrosinistra quel punto di riferimento per le imprese, il padronato e la lunga filiera degli speculatori del mercato.
La vecchia guardia ex socialista ed ex democristiana, craxiana da una parte e liberale dall’altra, ha esaurito il suo tempo anagrafico e, per altri versi, è venuta meno per vicende legate anche a questioni giudiziarie. La figura del padre fondatore del centrodestra moderno, Silvio Berlusconi, è oggi, per svariate ragioni, inadeguata a reggere il peso di una riformulazione in chiave governativa del trittico storico delle forze politiche che hanno soppiantato il vecchio arnese del MSI e, in un certo qual modo, anche della Lega Nord.
Ecco che, se una rondine non fa primavera e una manciata di deputati mancanti non fa una crisi di governo, quanto meno il cosiddetto “scivolone” sul DEF è almeno la dimostrazione che non esiste nessuna imperturbabilità delle destre: possono aprirsi delle contraddizioni anche al loro interno e non soltanto essere condizionate dalle risposte comuni, sociali e di massa che, tuttavia, tardano a venire in questi momenti.
Le polemiche sul 25 aprile hanno rinvigorito il fronte democratico e antifascista ma non ne hanno fatto una alternativa concreta al blocco di governo. A cascata, questa mancanza di unità e di lotta, sfavorisce la partecipazione quotidiana ad un processo di costruzione politica che parta davvero dal basso. Non sono sufficienti le manifestazioni per consolidare una nuova rete di dinamismo dell’opposizione alle destre in ogni settore della vita pubblica, in ogni ambito in cui prendono corpo i problemi più dirimenti.
L’assenza di un vero dibattito costituente, di una riconsiderazione del progressismo su nuove basi, moderne e antiche al tempo stesso, è connaturata all’alienazione che i social provocano: una partecipazione illusoria, metafisica, priva di una sintonia adeguata con il reale e, per questo, deformante la percezione che si ha tanto dei problemi quanto delle soluzioni.
La gravità delle cifre della crisi economica si riversa essenzialmente sul mondo del lavoro e l’incapacità, oltre alla non volontà, del governo di mettere mano a queste crepe strutturali della nostra società dovrebbe essere una leva forte e decisiva, un grimaldello capace di risvegliare un tasso di coscienza critica adeguato alla esponenziale diseguaglianza crescente.
Invece nella sinistra di alternativa si muove poco o nulla, mentre si sprecano le inutili polemiche sull’abbigliamento di Elly Schlein. L’immaturità politica ci ha portato a considerare determinanti certi (pre)giudizi e a tralasciare invece una analisi compiuta tanto del precipitare del consenso elettorale (e quindi della stabilità democratica della Repubblica) quanto della simultanea disaffezione che si estende ai corpi intermedi. Sindacato compreso.
Sono tutti allarmi che bisogna intercettare e diffondere. E magari si creasse un po’ di panico generalizzato, una reazione alle paure anche esagerate. Significherebbe leggere tra le righe che c’è un po’ di vita a sinistra, nella galassia molto atomizzata dell’anticapitalismo e della critica al liberismo. Invece niente di tutto questo si realizza. I problemi restano e il governo può far finta impunemente di essere all’altezza della situazione.
MARCO SFERINI
28 aprile 2023
foto: screenshot ed elaborazione propria