L’immaginazione salvifica nel pessimismo leopardiano

La filosofia come forma, più che come metodo, della conoscenza. La filosofia come parte dell’espressione poetica, di una poesia dei sentimenti che, tuttavia, non è assolutizzabile nella banalità romantica...

La filosofia come forma, più che come metodo, della conoscenza. La filosofia come parte dell’espressione poetica, di una poesia dei sentimenti che, tuttavia, non è assolutizzabile nella banalità romantica di cui Leopardi esprime, con grande acutezza, una critica piuttosto ferma e decisa. Dunque, la conoscenza dell’inconoscibile fino in fondo, l’amore per la sapienza è intrinseco alla trasformazione letteraria, nella transizione dal bello al vero e, quindi, anche alla propensione tutta umana, frutto dell’autocoscienza in cui ci troviamo, a fare della della poesia il momento di sublimazione del desiderio di creare un senso collettivo nel “deserto” della vita.

L’oppressione cui siamo sottoposti dalla constatazione del dolore quotidiano che ci regala la natura matrigna, la meccanicistica universale, la trasformazione incessante della materia in un processo di conservazione della stessa nel mutamento pressoché totale, si scosta per qualche attimo dai nostri pensieri e dalle nostre sensazioni proprio mediante una poesia filosofica che per Leopardi è un vero e proprio “respiro, una boccata di ossigeno” (come nota Emanuele Severino). Il tutto si situa nella conversione che il recanatese conosce nel momento in cui vive il passaggio dalla celebrazione della natura alla sua constatazione mediante i versi.

La “poesia d’immaginazione” dell’antichità qui lascia il posto a quella “poesia sentimentale” cui si faceva cenno poco sopra: per cui diviene impossibile scindere l’essenza che il poeta traduce nella dolcezza delle sue composizioni con il ragionamento, con l’osservazione, con la filosofia in quanto tale. Non di meno nella grande opera leopardiana il tema dell’inconoscibilità del senso esistenziale permea più stili letterari e, in particolare, si sostanzia e si esprime compiutamente nelle meravigliose “Operette morali” che sono un concentrato di pensieri che non sfuggono al razionale ma che danno il meglio negli slanci emotivi.

Nel suo soggiorno romano, lasciata per la prima volta Recanati dopo vent’anni di giovinezza trascorsi nella biblioteca paterna in quello che lui stesso definì lo “studio matto e disperatissimo“, Giacomo affronta la prima grande delusione: la capitale pontificia è tutto fuorché un prologo di virtuosismi, una speranza di felicità o, quanto meno, di quel mancato godimento che è assenza di dolore. La città eterna mostra tutti i segni della corruttela umana: dalle altezze del potere che vorrebbe pretendere la discendenza dalla perfezione divina, fino alle miserie oggettive, materiali di un popolo costretto a sopravvivere nel fetore dei vicoli e a contorcersi tra mille morbi e malattie.

La sua salute cagionevole riverbera su di lui tutte queste sensazioni di matrignità della natura, di inospitalità per l’essere umano (ma il discorso sarà esteso poi ad ogni essere vivente e senziente) alle origini della cosmogonia: poco conta che nel principio, ammesso che sia mai esistito, vi sia Dio o qualche altra causa (o se vi sia per davvero una Causa con la ci maiuscola che ha prodotto in un dato momento l’esistente, la materia, la vita cosciente come più complessa trasformazione della stessa); ciò che risulta chiaro al poeta è la condizione di convivenza del sentire col dover sentire il male.

La felicità è mito occidentale che Leopardi, se proprio non lo fa a pezzi, quanto meno contribuisce modernamente a minarne la mitizzazione tanto ecclesiastica quanto laica, restituendo all’essere pensante e raziocinante anche un dovere di sentimentalizzazione delle condizioni di vita che sono, oggettivamente, avverse a noi stessi che, per lenire questa consapevolezza, ci lanciamo nella ricerca costante di un bengodi dall’epoca delle epoche, rifuggendo l’annichilimento della morte, la fine eterna del nostro essere ed esserci. Il “pessimismo” leopardiano nasce dal soggiorno romano, in quei dolci vent’anni del poeta afflitto dalle conseguenze fisiche del suo studio incessante.

C’è quindi, a partire dal ritorno a Recanati, l’elaborazione della conflittualità permanente tra felicità e natura e la sempre più ferma consapevolezza che l’essere umano si è dato una centralità nel mondo e nell’universo che è autoconsolatoria, priva di qualunque coerenza con la disarmonia di quello che i cattolici chiamano il Creato e che lui preferisce appellare – oggi potremmo dire “laicamente” – come “la Natura“, con un principio di antonomasia che fa del meccanicismo universale un sinonimo della stessa. A questo proposito è straordinariamente godibile il “Dialogo di un folletto e di uno gnomo“.

Quest’ultimo un giorno, dalle profonde caverne in cui si trova, torna alla superficie e si accorge che degli esseri umani non vi è più alcuna traccia. Hanno smesso di cercare gli spiritelli figli di Sabazio, abitanti di un mondo ectoplasmatico che il poeta immagina reale per favoleggiare una realtà che, purtroppo, gli appare sempre più cupa. L’estinzione umana, frutto delle continue guerre, diatribe e contrasti plurimillenari, non fa che dimostrare, agli occhi dei due piccoli esseri che si parlano ai margini della foresta, l’irrilevanza della nostra esistenza e presenza nel mondo e, quindi, nell’Universo propriamente detto.

Senza più umani, la terra prosegue la sua esistenza inconsapevole in una unità in cui la molteplicità della vita si esprime nelle trasformazioni materiali più diverse. L’attualità apocalittica di questo dialogo è disarmante: oggi, in tempi in cui i cambiamenti climatici si esprimono in quella che a noi appare una violenza inaudita (e che, invece, è semplicemente l’adattamento della natura ai mutamenti che noi le abbiamo imposto con secoli di presunto progresso industriale), Leopardi avrebbe avuto la conferma del suo pessimismo tutt’altro che cinico e irriverente nei confronti della vita.

L’antropocentrismo fallisce nel momento in cui diviene tale e pretende di mettere all’apice della piramide esistenziale soltanto l’essere umano come prodotto predestinato da Dio a regnare su tutti gli altri viventi. I “signori del mondo” che siamo stati, pensandoci e reputandoci tali in un processo di autoconvicimento prepotente, ora fanno i conti ancora di più con quell'”indifferenza” della Natura che procede nel suo mutare, nel suo essere che prescinde dalla coscienza e che, quindi, non è detto riproponga – per caso o per meccanica espressione delle leggi che la regolano, dettate o meno da Dio o da una Causa prima – le condizioni perfette perché una nuova specie umana, cosciente ed autocosciente, riviva.

Leopardi pone l’accento tante volte sulla conservazione dell’universalità dell’esistente: la sua è, in tutto e per tutto, una concezione materialistica che non prescinde del tutto da una teleologizzazione del tutto, ma che certamente mette al centro la meccanica dialettica esistente tra cause ed effetti che sono le regole del prodursi dei fenomeni. La “finalità“, dunque, viene progressivamente meno e lascia il posto ad una mera osservazione oggettiva di ciò che è visibile, tangibile, lontano dalla metafisica che presuppone, immagina, teorizza e finisce col suggerire la risposta più scontata su ciò che è in quanto tale: il creazionismo, il fare riferimento a Dio come panteistica ragione dell’essenza di ogni cosa.

Questo non esclude per Leopardi che si possa aspirare ad una ricerca di un luogo della mente e del corpo in cui trovare, se non proprio la felicità almeno l’assenza del dolore, l’atarassia, l’impermeabilità alle tempeste delle emozioni così come la crudele sudditanza alle tante avversità che la vita ci pone innanzi. Nel “Dialogo della Natura e di un Islandese“, è proprio questo il fulcro dell’interlocuzione tra il tormentato uomo (che è il poeta) e la Madre che gli si presenta con le fattezze di una donna smisurata. Nel suo girovagare per il mondo non ha trovato pace, ma si è scontrato con la furia degli elementi (caldo, freddo, vento, pioggia, terremoti e tempeste, eruzioni vulcaniche e ghiacciai) e con gli altri animali a lui ostili.

Ne ha concluso che l’impossibilità di vivere senza fare i conti con tutti i differenti gradi di avversione dell’esistente nei suoi (nostri) confronti: l’inevitabilità della sofferenza è equiparabile soltanto all’inevitabilità dell’assenza della felicità e del piacere. Essendo un dialogo, quanto a parlare è la Natura, è evidente che le tocchi quanto meno una autodifesa: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me ne avveggo…».

Non c’è, dunque, nessuna finalità, nessuna volontà predeterminata nella matrignità della Natura: è così e niente di più. Un dato di fatto di cui l’autocosciente essere umano, consapevole di sé stesso e del resto dell’esistente, interpretato ovviamente secondo le sue categorie mentali, non può che prendere atto e subirne tutte le conseguenze. Sbaglia chi, arrivato a questo punto, ritiene Leopardi un nemico, un odiatore della Natura. Il suo è un rapporto ambivalente: di amore e di odio, proprio come quello della persona che per troppa empatia finisce per disprezzare chi non la ricambia come vorrebbe.

Leopardi è un amante deluso, un uomo che si sente incompreso dalla meccanica degli eventi, dall’esistenza di cui fa parte e che gli sembra estranea a sé stesso nel momento in cui gli si rovescia addosso con afflizioni, malattie, asocialità, isolamento, disprezzo o presunzione di essere oggetto dello stesso, magari da parte delle donne. Che ha amato e che vorrebbe poter amare. Un tratto di misoginia c’è nella poetica e nella letteratura leopardiana, ma mai prevalente rispetto all’amore che esprime per un mondo di cui scorge tutta la bellezza nella tragicità dell’incomprensione, della mancanza di un senso che, nella Recanati del primo Ottocento, risente dell’opprimente arretratezza anche culturale dello Stato della Chiesa.

L’impossibile comprensione dell’esistente lo mette di fronte ad una rassegnata affermazione che, tuttavia, ha in sé una voglia di riscatto razionale ed emozionale, qualcosa di indomito che gli vaga internamente e che non mette fine all’ansia di conoscenza e di sapere. Così scrive nello “Zibaldone“: «Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principi stessi fondamentali della nostra ragione». L’essere umano, proprio perché consapevole di sé e del resto che lo circonda, impatta nei limiti della razionalità che gli è propria e che non è, per quanto possa sembrarlo, potenzialmente in grado di comprendere se esiste o meno una finalizzazione universale.

Le “Operette morali” sono un la descrizione del substrato essenziale su cui poggia la poetica di Leopardi: ne sono l’ambientazione filosofica e, si potrebbe persino dire, “antropologica“, perché le riflessioni profonde che contengono toccano ogni aspetto ed ambito dell’esistenza umana dentro un contesto di relazioni con gli altri esseri viventi che non vengono affatto trascurati nel loro rapporto con il mondo e con l’Universo. Quella che diviene, agli occhi del recanatese, una sorta di contraddizione ineliminabile, è circoscrivibile nel suo effetto plumbeo dall’immaginazione, dal sogno ad occhi aperti, da un onirismo attivo che regala all’essere umano attimi di illusoria felicità.

La brevità della vita è un dettaglio nel pessimismo leopardiano, perché non consola nemmeno nella sua accezione e declinazione negativa (l’essere meno di quello che potrebbe essere e, per di più, nel non-senso dell’esistenza) e quindi è, se non trascurabile, sicuramente inequiparabile alle angosce più profonde del poeta che nel “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco“, così conclude su “La fine del mondo“: «Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo».

Della cui certezza non possiamo avere nessuna contezza. I limiti ci perseguitano anche nella congetturazione del futuro, oltre che nell’analisi del passato. Si tratta non del destino cinico e baro, ma dell’essenza delle cose, della Natura. Per l’appunto. E amore ed odio si altalenano in un susseguirsi di emozioni interiori che, per quanto drammatiche e deprimenti possano essere, non hanno la forza di spegnere quell’immaginazione che è intrinseca all’essere vivente e che è una dea benefica, una consolatrice delle afflizioni, una amica del nostro tempo. Qualunque esso sia, ovunque sia vissuto nella sua lunghezza o nella sua brevità.

MARCO SFERINI

3 novembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee

altri articoli