Chi può credere, guardando a quello che avviene in Francia, che l’elezione diretta sia sinonimo di «farla finita con i giochi di palazzo» come continua a ripetere Meloni? Il sistema istituzionale francese non è quello che la destra al governo sta provando a far passare qui da noi, ma ne contiene i difetti. Del resto Meloni e meloniani presentano il loro cosiddetto premierato, creatura sconosciuta al resto del mondo, come una versione attenuata del presidenzialismo: quella sarebbe stata la loro prima scelta se non fossero stati costretti a fare dei compromessi (ma compromessi non ne hanno fatti e il premierato se lo sono votati da soli).

Come prova drammaticamente la Francia e come scopriremo qui da noi – ammesso e non concesso che la riforma costituzionale passi definitivamente – elezione diretta di un capo e parlamentarismo non stanno insieme. A Parigi ha più o meno funzionato fino a che il doppio turno ha assicurato una maggioranza certa e il presidente della Repubblica francese ha compiuto scelte obbligate, così tenendo in secondo piano la sua natura che è quella del giocatore non dell’arbitro. Ora Macron sta giocando, pesantemente, con l’obiettivo evidente di tenere lontana la sinistra dal governo. Anche se per riuscirci dovrà definitivamente far cadere l’inganno in forza del quale si è lungamente presentato come barriera alla destra estrema.

Questo è il vantaggio, tattico, di Mélenchon, che lo sfida a votare insieme a Marine Le Pen la sfiducia a Lucie Castets, e per questo ne pretende l’incarico a prima ministra. D’altra parte anche il capo insoumise ha le sue contraddizioni, perché non è possibile battersi per un ritorno del parlamentarismo e insieme chiudere a ogni mediazione sul programma ed esigere la guida del governo in nome della «vittoria» alle elezioni. In un sistema parlamentare, appunto, chi arriva primo alle elezioni non le ha «vinte» se non mette insieme una maggioranza per governare.

Eppure, per tornare ai paragoni con casa nostra, se criticammo il presidente Napolitano perché nel 2013 non volle dare l’incarico a Bersani al quale mancavano solo pochi voti in una sola camera, a maggior ragione è criticabile Macron tantopiù che in Francia non esiste lo scoglio della fiducia iniziale al governo e non sono mancati, anche recentemente, governi di minoranza. Napolitano aveva una sua agenda non dichiarata (ma riconoscibile e purtroppo realizzata, le larghe intese), Macron ne ha una dichiarata proprio in virtù del diverso sistema istituzionale. Sistema che ha ancora tanti estimatori qui da noi ma che evidentemente non funziona.

Quanto al premierato, non si tratta affatto di una versione soft del semi presidenzialismo, ma di un sistema nuovo, ibrido, che prende il peggio dai sistemi puri.

La cervellotica riforma firmata dal governo che approderà presto alla seconda lettura non esclude affatto l’eventualità che entrambe le camere o una soltanto non siano in sintonia con il capo eletto direttamente. Per escluderlo la riforma avrebbe bisogno di essere accompagnata da una legge elettorale sulla quale permane il mistero, ma talmente maggioritaria da andare certamente a sbattere contro i paletti fissati dalla Corte costituzionale. Anche in quel caso la disciplina sarebbe imponibile solo in partenza, la riforma contemplando ogni possibile sgambetto e ribaltone successivo.

Più che un capo plebiscitato per governare con certezza, la riforma Meloni rischia così di creare la figura dell’eletto dal popolo che può a lungo lamentarsi perché lo ostacolano. In pratica una figura di «prima vittima» che può agevolmente ricordare qualcuno, o qualcuna. E in tutto questo la nostra Costituzione continuerebbe a prevedere la figura di un presidente della Repubblica, a quel punto svuotato di reali funzioni e probabilmente dedito a pettinare i crini dei corazzieri.

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

particolare della foto di Tommy Milanese