Un morso alla mela più famosa del mondo, ma Apple non vuole decriptare i codici di accesso al sistema globale dei dati contenuti nei suoi forzieri telematici, nonostante il governo americano lo chieda e nonostante lo abbia deciso un giudice. Per gli Stati Uniti si tratta di una questione di “sicurezza nazionale”.
Per tutti noi che abbiamo dei telefonini tra le mani, magari proprio un Iphone o un Ipad, diventa una questione di riservatezza. Siamo abituati a chiamarla “privacy”, quindi privato, qualcosa che dovrebbe essere inviolabile e che, invece, ogni giorno permettiamo che venga violato con un semplice “click” che istintivamente ormai ripetiamo ogni volta che scarichiamo un programma per il nostro cellulare.
Si apre la finestrella bianca che ti domanda se vuoi acconsentire a che i tuoi dati possano essere utilizzati da aziende che nemmeno conosci per migliorare le prestazioni del servizio.
E così, clicchiamo, acconsentiamo e non sappiamo che, anche aprendo un semplice indirizzo di posta elettronica, permettiamo con le clausole contrattuali che ci vengono proposte e che sono infinitamente lunghe per poter essere lette con dovizia di attenzione, permettiamo alla fine a queste grandi multinazionali dell’informatica di entrare nei nostri computer, di accedere a tutti i dati che ci riguardano e che sono, comunque, una parte della nostra vita.
Personalmente ho fatto una scelta: non nascondere niente. Non è rassegnazione, ma la convinzione che non esista un livello di protezione dei dati personali così assoluto da impedire di far conoscere tutto quello che ogni giorno faccio sia al computer che nella vita alle varie forme di espressione del potere.
Lo Stato italiano mi conosce, sa chi sono, quale reddito ho, sa anche che ho un cane e un canarino a casa. Non so se sa quanti libri ho di Virgilio o di Marx; non so se è al corrente di che programmi televisivi guardo o quali riviste leggo. Ma tutto è così interattivo ormai, da sfuggire anche al nostro controllo: Facebook, Twitter, Instagram, tutti i social network che usiamo più volte al giorno, sono una fonte inesauribile di informazioni che si incrociano e che queste aziende utilizzano per moltiplicare i loro profitti.
Anche il sistema di messaggeria gratuita, il celebre Whatsapp, che ha soppiantato l’uso dei brevi messaggi di testo (“Sms”) è gestito così: con la paradossale richiesta di consenso all’utente per la conservazione delle chiacchierate telematiche, per le telefonate sia audio che video. Noi diamo il consenso e così ci sentiamo tutelati legalmente. Ma siamo davvero certi che, anche negando il consenso, il “grande fratello” non ci spii e non aggiri le normative dello Stato italiano?
Passeggiando per le vie e le piazze delle nostre città non c’è più angolo che non abbia in alto piazzata una telecamera che riprende tutto giorno e notte. E’ per la sicurezza, dicono. Ma è anche per il controllo.
Forse, l’arma migliore per togliere ogni alibi ai guardoni della rete, di Stato e ai tanti guardoni privati che imperversano ovunque, è non nascondere niente di sé stessi. A parte, ovvio, i propri sentimenti e la vita intimamente privata che ognuno di noi deve poter chiudere in un sacro scrigno, perché quella sì è personale: è un’espressione così ancestrale e oscura di noi che forse nemmeno noi stessi la conosciamo fino in fondo.
Ma, senza cadere nell’analisi psicologica sommaria, è opportuno comunque osservare che sfuggire alle intromissioni indebite è tanto difficile quanto lo è avere la garanzia che la Legge ci possa tutelare in merito. Non è sfiducia nelle istituzioni, ma una constatazione di fatto: è il famoso “chi controlla il controllore”. Nessuno.
Quindi, che sappiano tutto, così i moderni guardoni forse non perderanno i profitti che fanno sulla nostra pelle, ma almeno il gusto di essere chissà quali spie, quello sì lo perderanno.
MARCO SFERINI
19 febbraio 2016
foto tratta da Pixabay