La crisi verticale del sistema sanitario italiano ormai a rischio di crollo sotto i colpi della crescente emergenza e l’arresto dell’ex-amministratore delegato di Autostrade e di altri dirigenti dello stesso gruppo rappresentano fatti di stretta attualità, che richiamano necessariamente il discorso sul rapporto pubblico/privato così come questo è stato affrontato nel corso degli ultimi 30 anni.
Quando esplose “Tangentopoli” (in coincidenza con la caduta del muro di Berlino, il trattato di Maastricht, la fine della “Repubblica dei Partiti”), nell’incrocio tra politica e affari, l’Italia bruciò le tappe di una privatizzazione di gran parte del suo apparato pubblico produttivo, senza varare alcuna legge di liberalizzazione.
La stagione delle privatizzazioni si risolse, in quasi tutte le occasioni, in un passaggio dal monopolio dello Stato a oligopoli privati.
Furono liquidati grandi enti di Stato come IRI e Efim; venne ridimensionato il ruolo dello Stato nell’ENI, fondato da Enrico Mattei; passarono ai privati pezzi importanti di produzione e la gestione di grandi servizi. L’intero processo di privatizzazione non risolse però i problemi delle casse dello Stato.
Eravamo agli inizi degli anni Novanta: iniziò lo smantellamento dell’IRI di cui era Presidente Romano Prodi.
In quel momento l’IRI contava 500.000 dipendenti e gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, fu messo in liquidazione il 28 giugno 2000.
Poi è stata la volta del Credit (Credito Italiano), che godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit), tutto tra il 1993 e il 1994. Nel luglio 1996 iniziano le prime privatizzazione dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie.
Il 16 aprile 1997 viene privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.
Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizzò il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi fu la volta della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL 1999).
A maggio del 2000 si provvide a liberalizzare il commercio del gas.
In questo campo si aprì la strada a una mezzadria tra “mercato libero” e mercato tutelato allo scopo di garantire determinate concentrazioni di potere: mercato tutelato che dovrebbe proseguire fino al 2022.
Nel 1998 le Ferrovie dello Stato furono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata). Stessa sorte per le Poste, che diventeranno SpA. Lo Stato incassò circa 200mila miliardi di lire, pagando alle banche d’affari anglosassoni, che curarono il complicato passaggio dal pubblico al privato, una commissione che si valuta tra l’1% e l’1,7% dell’intero incasso.
Se l’operazione di privatizzazione, senza alcuna liberalizzazione, fosse stata presa per abbassare in modo consistente il debito pubblico, il risultato non fu affatto centrato, perché il debito si ridusse solo dell’8%.
Esaminando dopo anni quella discutibile operazione vale la pena di riportare il giudizio della Corte dei Conti: «Si evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractor e organismi di consulenza al non sempre immediato impegno dei proventi nella riduzione del debito».
Negli anni Novanta, la magistratura voleva rovesciare l’Italia per liberarla dalla corruzione, i “tecnici” dell’epoca (Ciampi, Amato) e i nuovi politici volevano più mercato e un’Italia più moderna. Partì la magistratura, naturalmente in perfetta buona fede e ossequiosa nei confronti della legge, e seguirono i politici della cosiddetta “seconda Repubblica”.
La crisi economica scoppiata nel biennio 2006-2008 ha successivamente messo in luce le debolezze del Sistema-Italia ormai privo di una struttura industriale adeguata nei settori strategici e l’incapacità delle istituzioni di far fronte all’indebolimento economico della classe media, ormai pressoché scomparsa. Infine, proprio in questi tempi di grande emergenza sanitaria è il caso di rivolgere uno sguardo al processo di inserimento dei privati nella sanità.
Il primo passo in questo senso è stato attuato attraverso la cosiddetta “regionalizzazione” della Sanità.
I dati possono essere una guida per capire come sia cambiato il SSN nel corso di questa evoluzione. Dal Rapporto Sanità 2018, 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale pubblicato da Nebo Ricerche PA emerge che, delle originarie 695 USL del 1983 si sia passati alle 101 di oggi (e 102 Aziende Ospedaliere censite nel 2016). I posti letto sono scesi da 500mila a 215mila con un crollo ancora più pronunciato se rapportati alla popolazione: 35 per 10mila abitanti raffrontati ai 93 del 1981. Due sole le voci di crescita: il settore privato, che nel frattempo è passato dal 15 al 20 per cento dei posti letto totali; e le aree della terapia intensiva, riabilitazione e lungodegenza, seppur rappresentate in maniera disomogenea sul territorio nazionale. Alle differenze tra le varie parti d’Italia si è collegata, almeno in tempi “normali” ,anche la crescita del 40 per cento dei ricoveri fuori Regione: ovvero gli spostamenti dei pazienti dal territorio di residenza a quello scelto per curarsi. Quest’ultimo dato vede la Calabria raddoppiare l’indice di spostamento dei pazienti rispetto al 1986; la Lombardia, nello stesso periodo, ha visto raddoppiare l’indice di attrazione mantenendo invariato quello di spostamento.
Le tappe legislative fondamentali che, con le successive riforme, seguirono questo percorso sono state quattro. La prima è la legge 833, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e la creazione delle Unità Sanitarie Locali. Il secondo è il D.Lgs. n. 502/1992 che aveva avviato la regionalizzazione della Sanità istituendo le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere e, per rispondere alla crescente pressione finanziaria, introdusse «una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria deve essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non può più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni» .
Il terzo passaggio è stato il Decreto Legislativo n. 229/1999 (anche noto come riforma Ter) che confermava e rafforzava l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituendo i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superano i livelli di assistenza garantiti dal SSN. Infine, con la riforma del Titolo V, Legge Costituzionale n. 3/2001, la tutela della salute divenne materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); Le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie.
In questo ambito il successivo succedersi di interventi di finanza pubblica hanno posto in evidenza il dato che la larghissima parte dei bilanci delle Regioni è finito con l’essere destinato a finanziare la crescente aspettativa di prestazioni da parte dei cittadini attraverso i singoli servizi sanitari approntati appunto proprio dalle Regioni. La prima riflessione da compiere, in questo senso, riguarda quindi il quadro generale dei rapporti tra lo Stato e le regioni nel settore del governo della sanità: rapporto in perenne fibrillazione, ben in precedenza alla situazione di questi mesi, soprattutto allo scopo di mettere sotto controllo la spesa pubblica.
Così si è sviluppato il modello di ingresso del privato in Sanità rappresentato dal cosiddetto “modello lombardo” poi imitato da altre regioni.
Nel 1997 la Lombardia ha dato una sterzata decisa verso un modello pensato per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel Servizio Sanitario Regionale (SSR), prendendo a misura la riforma sanitaria britannica dei primi anni ’90. Il primo effetto di questa riforma è stato la creazione del “quasi-mercato” della sanità, dove la Regione presidia e regola il SSR affidando l’erogazione dei servizi ad aziende pubbliche e private, poste in concorrenza tra loro.
Il ruolo della Regione si è quindi trasformato in quello del “committente, che compra servizi dai soggetti erogatori pubblici e privati, considerati in teoria su un piano di parità”. Così, le strutture pubbliche del sistema sanitario “diventano nella pratica delle ‘aziende’, gestite via via in modo sempre più manageriale”, mentre “i soggetti privati entrano nel quasi-mercato della sanità con orientamenti profit”.
L’ingresso del privato nel ‘quasi-mercato’ della sanità ha ridisegnato radicalmente il modello di erogazione dei servizi. I gruppi privati, infatti, sono costituiti prevalentemente da ospedali e così “l’ospedale diventa il fulcro intorno al quale si immagina di costruire il nuovo sistema. In questo modo si è perso il bilanciamento tra ospedale e territorio presente nel modello precedente. Una svolta che ha rappresentato “una scelta obbligata, data la strategia di privatizzazione del sistema”.
Il nuovo modello “ospedalo-centrico” ha comportato anche un radicale cambiamento del sistema delle Asl che “non erogano più direttamente servizi ai cittadini e ridimensionano le attività di prevenzione”.
Mentre il territorio restava sguarnito, la sanità privata cresceva e i risultati in questi giorni drammatici sono sotto gli occhi di tutti.
E’ ovvio che, con le privatizzazioni e rinunciando ad erogare servizi, lo Stato italiano ha smantellato lo Stato Sociale.
Nel quadro dell’aumento complessivo della povertà la risposta dello Stato, tolto di mezzo appunto lo stato sociale, è stata quella dell’assistenzialismo.
La quasi totalità delle risposte di tutti i governi sono state finora esclusivamente monetarie attraverso i cosiddetti “bonus” o basate su una riduzione del carico fiscale. Soluzioni standardizzate per tutti, al posto di interventi di sostegno mirati in termini di servizi, educazione o prevenzione. Un esempio su tutti il reddito di cittadinanza, ovvero un aiuto economico che tampona il problema, ma non lo estirpa alla radice; vista la distribuzione territoriale della povertà e considerato che i livelli economici per essere considerati poveri sono differenti a seconda che si viva al Nord, Centro e Sud e che si abiti in città o in campagna, prevedere l’erogazione di somme standard sull’intero territorio nazionale non risolve il problema a chi vive in una città del Nord, mentre chi vive in un paesino del Sud, otterrebbe un valore maggiore del livello oltre il quale si è poveri.
Dare soldi e non servizi e “presa in carico” dei soggetti deboli, non aiuta a uscire dalla povertà: la alimenta.
Così il costo dell’assistenza è passato dai 73 miliardi di euro del 2008 ai circa 116 miliardi del 2018, con un aumento strutturale del deficit pubblico finanziato dalla fiscalità generale (il che significa non copertura da contributi) e al netto delle imposte (essendo tutte prestazioni esentasse).
Dal 2008 al 2018 l’incremento della spesa assistenziale è costato ben 232 miliardi alle finanze pubbliche, per gran parte fatti in deficit.
Senza affrontare, in questa sede, il nodo totalmente irrisolto della fuoriuscita dalla condizione di assistenza alla povertà attraverso il raccordo con il mondo del lavoro.
Naturalmente l’inasprirsi della crisi economica dovuto alle vicende dell’epidemia ha portato una intensificazione del fenomeno di tipo assistenziale che al tirar dello somme si rivelerà sicuramente disastroso sia sul piano del deficit sia di quello della struttura produttiva del Paese, già estremamente fragile e priva di forza nei settori strategici.
L’esito del processo di privatizzazione e di chiusura dello Stato Sociale non avrebbe potuto essere più negativo.
FRANCO ASTENGO
14 novembre 2020
Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay