Quasi 1700 licenziamenti sono stati spiccati da Almaviva, che si prepara a delocalizzare le attività in Romania. Il solo intervento del governo nella vertenza è stato quello di proporre un rinvio di tre mesi dei licenziamenti in cambio della disponibilità dei lavoratori ad accettare paghe rumene sul posto. La rappresentanza sindacale di Napoli aveva accettato, quella di Roma inizialmente no, poi i lavoratori si sono spaccati, ma troppo tardi per l’azienda. Che ha accolto l’invito a licenziare del ministro Calenda, quello a favore del TTIP, che aveva dichiarato inevitabile la riduzione di personale. Il tutto nella passività complice delle belle statuine Cgil, Cisl, Uil.
Il 2016 consegna così al nuovo anno la legalizzazione e l’incentivazione per i licenziamenti di massa, come risultato voluto delle leggi e della politica dei governi Monti, Letta, Renzi.
Oltre 60000 persone sono già state licenziate a seguito della cancellazione dell’articolo 18 iniziata da Fornero e completata dal Jobs act. Siamo tornati al regime del licenziamento “ad nutum”, ad un solo cenno del padrone, come veniva definito dal linguaggio giuridico prima dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori. Ora si torna a prima del 1970, con le ragioni del profitto aziendale che travolgono i diritti del lavoro. Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione ha dato sanzione giuridica alla regressione, confermando il licenziamento di un impiegato di un’azienda di Firenze, effettuato con la semplice e brutale motivazione di voler guadagnare di più. Ebbene il 7 dicembre la Corte ha dichiarato ammissibile questo licenziamento: è giusto migliorare così la redditività aziendale. È il via libera della magistratura al massacro sociale.
La liberalizzazione dei licenziamenti di massa è il sogno che si realizza della Confindustria, sogno che nel passato veniva però rivendicato promettendo ammortizzatori sociali adeguati. Il giuslavorista Pietro Ichino e la sua compagnia liberista, sostenevano infatti il diritto delle imprese a licenziare liberamente, però aggiungevano che si sarebbe dovuto garantire un reddito adeguato agli espulsi dal lavoro. Imbrogliavano e dal 1 gennaio 2017 la loro truffa la sperimenteranno centinaia di migliaia di persone.
Col nuovo anno infatti andrà a regime la “riforma” avviata da Monti e Fornero e completata ancora una volta dal Jobs act di Renzi. Sarà così abolita l’indennità di mobilità che per alcuni anni accompagnava le lavoratrici e i lavoratori licenziati per crisi o ristrutturazioni aziendali. Dalle liste di mobilità le imprese potevano assumere ricevendone incentivi, mentre i più fortunati tra i licenziati potevano sperare di far durare l’indennità fino alla pensione.
Tutto questo ora viene abolito, e ai licenziati per crisi o maggior profitto aziendale spetterà solo la nuova indennità di disoccupazione universale, la NASPI. Per un massimo di 12 mesi e poi arrangiarsi.
Ichino e gli altri liberisti hanno per anni urlato contro l’apartheid del mondo del lavoro. Per costoro i lavoratori con diritti stavano verso precari e disoccupati come i bianchi nel Sudafrica, quando i neri erano privi di diritti politici. Con Nelson Mandela quel paese ha infine distrutto l’apartheid e lo ha fatto nel solo modo civile, cioè estendendo ai neri i diritti dei bianchi. Per i mascalzoni liberisti nostrani invece la fine dell’apartheid è consistita nel togliere diritti a tutti. Tutti allo stesso modo schiavi, questa l’idea di eguaglianza di Ichino, Renzi, della Confindustria e dello loro riforme. Riforme che Gentiloni ha dichiarato di voler continuare, alla faccia del voto referendario che ha affermato l’esatto contrario.
I licenziamenti di massa sono il primo rischio sociale del 2017 e per fermarli dovremo darci da fare in tutti modi e con tutti gli strumenti, dalle lotte ai possibili referendum. Ma nulla cambierà davvero se non metteremo sotto accusa e non combatteremo a fondo le riforme liberiste, i loro governi, i loro complici sindacali e i loro mandanti, dalla UE alla finanza internazionale.
GIORGIO CREMASCHI
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