I tempi lunghi della politica italiana e quelli brucianti della crisi Ilva non coincidono. Gli spiragli ci sono ma il percorso per convincere il Movimento 5 Stelle ad accettare lo scudo penale senza scontare troppi voti in dissenso è accidentato, va percorso a passo di formica, mentre l’agenda che Arcelor Mittal ha comunicato ieri ai sindacati è una marcia a tappe forzate. Oggi pomeriggio alle 15 ci sarà l’incontro tra i dirigenti dei tre sindacati metalmeccanici, Fiom, Fim e Uilm, e l’ad di Mittal Lucia Morselli, convocati al ministero dello Sviluppo da Stefano Patuanelli. Qualcosa si capirà, ma il consiglio dei ministri che potrebbe varare lo scudo non sarà convocato prima della settimana prossima, entro mercoledì. Poi inizierà la discussione nei gruppi parlamentari pentastellati, che non hanno preso impegni vincolanti e dovranno votare. Sempre che nel frattempo si sia chiusa la trattativa, al momento ufficialmente inesistente, sul numero di tagli, i cinquemila esuberi che pretende la multinazionale, le duemila casse integrazione con possibilità di reintegro a cui mira il governo.
Dall’altra parte invece la tabella di marcia è già pronta. Da ieri le aziende dell’indotto a Taranto hanno interrotto i pagamenti. Non c’è più liquido. Il 26 novembre si fermerà il Treno nastri 2, il Treno 1 è già bloccato. Il 13 dicembre verrà spento, in ottemperanza all’ordine della Procura, l’altoforno 2. Il 30 dicembre sarà il turno dell’altoforno 4 e 15 giorni dopo dell’altoforno 1. Ci sono altri due altoforni, il 3 e il 5, ma il primo è in fase di demolizione e il secondo è fermo da 5 anni. Sono in programma, ovviamente, anche le chiusure delle cockerie e degli impianti elettrici. «Se non fosse chiaro, la situazione sta precipitando in un quadro drammatico che non consente ulteriori tatticismi della politica», dichiara il segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli.
Se gli altiforni saranno chiusi, si dovrà però parlare di situazione già precipitata e in modo irreversibile: riaccenderli è impossibile. Sarebbe la chiusura e il disastro si estenderebbe a domino all’intera industria nazionale. L’ipotesi che aveva fatto circolare ieri il governatore pugliese Michele Emiliano, dopo un colloquio con l’ad Morselli, di un rinvio della dipartita dalla fine di gennaio a maggio, con gli impianti chiusi sarebbe stata una beffa. Del resto Mittal si è premurata di smentire ed Emiliano ha chiarito che la notizia era frutto solo di una sua «impressione». «Nell’incontro di oggi il governo deve togliere ogni alibi a Mittal», dichiara la segretaria della Fiom Francesca Re David. Il segretario della Cgil Maurizio Landini però chiarisce che i tagli sono fuori discussione: «Taranto è la più grande acciaieria d’Europa. E’ inaccettabile che ci siano esuberi».
La gravità della situazione è evidente nelle dichiarazioni ormai palesemente molto tese dei leader. «Il governo deve comunque andare in tribunale a chiedere i danni. Ma la chiusura degli altoforni va impedita», dichiara Matteo Renzi, convinto comunque che il governo non cadrà sull’Ilva. «Questo è un attacco al Paese», twitta il vicesegretario del Pd Andrea Orlando: «Il governo deve impedire lo spegnimento degli impianti». Solo che non è un’impresa facile e il disastro di Venezia la ha resa anche più difficile perché ieri ha messo fuori gioco il premier Giuseppe Conte, che con Patuanelli gestisce la vicenda.
Luigi Di Maio però è stato battagliero, prendendo apparentemente di mira gli ex proprietari dell’acciaieria: «I Riva hanno ottenuto decreti a pioggia finanziando le campagne elettorali di tutti. E’ il momento di riconoscere le lezioni della storia a questo modo di fare politica. Avevamo ottenuto un Piano ambientale rigoroso che ora rischia di saltare. Non lo permetteremo». L’accenno ai «decreti come se piovesse» suona come un segnale di chiusura, dal momento che proprio di un nuovo decreto si sta in realtà parlando. Tanto più dopo il definitivo verdetto di inammissibilità di Fico agli emendamento sull’immunità per Mittal.
ANDREA COLOMBO
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