Dall’ormai lontano 1987, quando uscì per gli Editori Laterza, “L’Europa del Vecchio Ordine. 1660 – 1800” scritto da William Doyle, professore emerito di storia della Bristol University, membro della British Academy, non ha più avuto alcuna ristampa ed è ormai rimasto confinato tra i fondi di magazzino e i titoli che vengono venduti dai grandi siti che smerciano un po’ di tutto come una “rarità“, un libro “vintage“, ma non uno dei testi importanti per comprendere oltre un secolo di storia europea.
Appena aperto questo volume, regalatomi preziosamente da un caro amico, non ho potuto non notare la citazione di Kant: «Le cose umane… in cui quasi tutto è paradossale» (1784). Le circostanze della vita fanno sì, tra disgrazie e felicitazioni, dolori e gioie, che ci si possa imbattere anche in un testo mai letto e che, probabilmente, se quell’amico non te l’avesse regalato, non saresti andato a cercare, visto che oggi le librerie principali vendono soprattutto testi nuovissimi oltre ad una serie di classici che hanno – e giustamente – qualche interesse scolastico.
La ricerca di Doyle somiglia tanto ad una pregevole opera di divulgazione che, sebbene non accessibile a tutte e tutti di primo acchito, se almeno non si ha una conoscenza liceale (per non dire universitaria) della materia storica trattata, fornisce tutta una serie di spunti per approfondire ulteriormente i tanti aspetti della vita dei popoli europei in quel quasi secolo e mezzo che viene posto sotto la lente di ingrandimento del metodo storico.
Particolarmente interessante è il corredo finale del libro dello storico inglese, consueto nelle pubblicazioni che rivendicano un valore non solo di cronaca ma di testimonianza dei fatti, fondata su una ricerca davvero particolareggiata, con innumerevoli fonti e riscontri incrociati che permettono di evidenziare con una certa precisione stili di vita comune, comportamenti politico-sociali e rapporti economici e culturali di un passaggio della storia europea tormentato prima e dopo da sconvolgimenti di grande importanza.
Siamo nel bel mezzo di un periodo che ha appena assistito alla Rivoluzione inglese di Cromwell e delle “teste rotonde“, alle rivolte contadine in mezza Europa, da quelle in Germania a quelle in Francia contro un assolutismo monarchico che non intende cedere. Così pure un Russia, dove la subalternità dei proprietari terrieri allo zarismo si redime per qualche tempo unendosi a quella che, almeno per qualche mese, sembra il peggiore incubo per l’impero di Caterina: la rivolta di Emel’jan Ivanovič Pugačëv.
Sgomberando il campo da qualunque tipo di tentativo semplificazionista, pur inserendola nelle molte ribellioni delle “classi subalterne” rurali, Doyle pone la quasi-rivoluzione di Pugačëv nel novero di tutta una serie di moti contadini che non avevano come obiettivo il rovesciamento della monarchia; semmai quello di dare vita ad un nuovo impero con a capo colui che aveva osato sfidare Caterina proclamandosi, forse un po’ leggendariamente, il Pietro III redivivo o, se vogliamo, resuscitato dopo la morte cui lo aveva destinato la consorte.
L’opera di Doyle va, proprio perché di notevole interesse, comunque inserita nel filone di quel revisionismo storico delle rivoluzioni che ha caratterizzato la sua vita di studioso. Una convinzione, quella di rivedere il contesto in cui i grandi eventi di rottura si sono prodotti nel continente europeo, che si è compiutamente espressa in quella che è valutata la sua opera più eclatante, pure un po’ scandalosa per la storiografia classica: “The Oxford History of the French Revolution“.
Diversamente dalle interpretazioni marxiste, che hanno collocato la Rivoluzione per antonomasia in una origine esclusivamente sociale, Doyle pone accanto a questa oggettiva constatazione dei rapporti di classe (di cui parla ampiamente anche nel volume che qui presentiamo) anche l’elemento ideologico-politico come importante leva della Storia, come principio non ultimo di evoluzione e di mutamento. La strutturazione de “L’Europa del Vecchio Ordine” in capitoli che ne trattano anzitutto l’economia, la società, gli affari pubblici e le crisi istituzionali, conferma la poliedricità analitica dell’autore.
Pur scostandosi da una interpretazione quasi ideologica ed ideologizzata della Storia europea, Doyle non viene meno al compito di mettere insieme tutti i tasselli di un Vecchio continente in cui le tensioni sociali fermentano in contesti in cui i poteri monarchici si spartiscono territori che sono essenziali per il controllo delle vie di navigazione, per i commerci verso l’Asia, per i rapporti con i grandi Stati dell’epoca la cui composizione è davvero particolare e molto difficile da assimilare alle categorie odierne.
Particolare interesse è l’analisi dedicata alle forme di governo, agli eserciti, ai poteri finanziari e all’amministrazione della giustizia e della polizia. Se prendiamo una carta storica della fine del Seicento e, nello specifico, andiamo ad osservare la Germania non unificata omogeneamente nel Sacro Romano Impero che dura, con alterne vicende, da circa otto secoli, sarà lapalissiana la miniaturizzazione delle comunità in cui è divisa una entità statale che oggi sarebbe di difficile comprensione.
L’Impero è guidato da un sovrano elettivo, ed include territori che appartengono a Stati invece molto accentratori sul piano amministrativo e politico. Per fare alcuni esempi: la Prussia di Federico il Grande e l’Austria di Maria Teresa. In questi regni ed imperi che divengono uno degli assi futuri della nuova Europa moderna, la cultura illuministica si affaccia sulla vita pubblica, ma rimane un dibattito di élite, in cui giocano le parti i sapienti filosofi del tempo, gli aristocratici che si dilettano di dialettica e un ceto medio di avvocati e intellettuali che appartiene a quella borghesia che sarà uno dei perni della Rivoluzione francese.
Per quanto possa apparire paradossale, proprio come accennato nella frase kantiana a dedica del libro, le masse popolari sono le più restie ai cambiamenti. Soprattutto quelle delle campagne, quelle che vivono in regimi di schiavismo e servaggio che solo i fatti dalla Bastiglia in poi, progressivamente, consentiranno di superare. Il “vecchio ordine” è un insieme di rigidità burocratiche che fanno leva sulla grande ignoranza popolare per reggersi formalmente (e praticamente) in quanto poteri derivanti dalla consacrazione divina.
Quando Pugačëv da Kazan scende verso i territori dei cosacchi e, soprattutto, dei contadini più oberati dalle tasse e dal lavoro regalato ai loro nobili signori, incontra il loro favore solamente dopo aver messo a ferro e fuoco le città, aver impiccato gli aristocratici e riservato un uguale trattamento ai funzionari di Caterina. Il timore della repressione zarista fa il paio con una rassegnazione pressoché invincibile. I fittavoli si accontentano di qualche miglioria, ma non sognano – come gli inglesi prima e i francesi poi – la democratizzazione della società.
Nessuno ha mai sentito parlare di popolo, di potere popolare, di democrazia, di libertà. La diminuzione delle gabelle sarebbe già una grande conquista per questi derelitti che sopravvivono permettendo al parassitismo delle classi aristocratiche di fare il bello e il cattivo tempo e godere dei privilegi che si sono assegnati nel corso dei secoli. Il potere regio e imperiale è illimitato nel Seicento – Settecento. Gli esempi sono ovviamente la Russia, la Prussia, la monarchi asburgica, quella francese di Luigi XIV e, non di meno, anche la Spagna.
In tutti questi Stati europei non esiste prima della metà dei Seicento un parlamento propriamente inteso come assemblea che legifera senza soluzione di continuità e, quindi, gode di un suo potere autonomo. In Inghilterra Carlo I lo convoca a suo piacere quando deve imporre le tasse. Gli Stati Generali fanno pause quasi secolari tra una riunione e l’altra. In Spagna le Cortes sono più che altro rappresentanze regionali e non esiste un coordinamento nazionale che le unifichi.
Per poterci avvicinare ad una timida idea di parlamentarismo quale oggi noi abbiamo, dobbiamo attendere Cromwell in Gran Bretagna, la Convenzione nazionale francese oltre un secolo dopo e le prime aperture liberali del 1848 a monarchie e regimi costituzionali. Persino la distinzione montesquieuiana tra le forme di Stato è qualcosa di estremamente incomprensibile oggi: monarchie, repubbliche, dispotismi. Il barone di La Brède naturalmente preferisce l’organizzazione repubblicana agli altri regimi, ma ammette che può funzionare, vista la sua complessità istituzionale, soltanto nelle piccole città-stato germaniche, nei cantoni elvetici o nelle oligarchie italiane marinare.
Doyle, con grande cura tratta centocinquant’anni di storia europea passando attraverso la quotidianità di eventi che riguardano tanto la vita della gente più comune quanto quella dei gabinetti e delle corti imperiali. La premessa essenziale a quello che sarà il periodo dell’Europa “in rivoluzione” prima e “in guerra” poi, è la valutazione complessiva di contesti in cui all’elemento strutturale economico e sociale si affianca (e non si sovrappone) quello politico, culturale, morale e religioso.
Per Doyle è del tutto evidente che «…la Rivoluzione francese non ci sarebbe stata senza l’intervento, in momenti decisivi, dei ceti popolari nella vita politica». Questo non significa che l’impulso primo al moto rivoluzionario si stato dato proprio dal popolo. Da giuramento della Pallacorda in avanti è il ceto medio borghese a dirigere la musica. Ma, dovrebbe essere sufficientemente ovvio, senza l’appoggio popolare nessuna rivolta anti-aristocratica sarebbe mai potuta essere possibile, anche se nel contesto di una rivendicazione ancora statale di tipo monarchico ma costituzionale.
Piuttosto accattivante è il capitolo finale del libro che, con un pizzico di civetteria storicista pretende di fare un bilancio del periodo rivoluzionario. Ed è una pretesa ben meritata, perché schiettamente mette sul piatto della bilancia tanto i ricavi quanto le perdite per le classi popolari. L’esistenza di una rivoluzione, di per sé, è il segnale di un profondo stravolgimento sociale, ma non è detto che la fine del processo di rottura col precedente regime dia seguito ad un miglioramento complessivo della vita di chi aveva sostenuto in massa quell’esperienza davvero epocale.
Scrive a questo proposito Doyle: «Oltre alla fine delle esazioni signorili, i contadini francesi speravano che la Rivoluzione avrebbe dato loro la terra. Molti erano già proprietari, ma per lo più senza terra sufficiente anche solo al sostentamento. I grandi lotti in cui vennero vendute le “terre nazionali”, tuttavia, avevano un costo proibitivo per la maggior parte dei contadini; e alle comunità rurali fu vietato di formare consorzi per comprarle…».
Le speranze più alte si hanno, in questo senso, con il periodo di amministrazione governativa del Comitato di Salute Pubblica giacobino. Le disillusioni più sonore arriveranno con la restaurazione monarchica, seppure l’Ancien Régime sia tramontato definitivamente nella forma e nella sostanza conosciute sino ad allora, del 1815, dopo il periodo napoleonico, dopo tutta una serie di rivoluzioni europee e di guerre che impediranno la riorganizzazione statale e sociale analizzata da Doyle tra il 1660 e il 1800.
L’Europa del vecchio ordine tramonta nella speranza che i popoli diventino protagonisti delle loro esistenze, delle loro vite sociali e civili. Non sarà così se si pensa ad una idea un po’ romantica di rivoluzione salvatrice da tutti i mali endemici nell’umanità. Ma Ottocento e Novecento hanno riservato sorprese altrettanto (se non più) fantastiche di quelle che i secoli presi in considerazione da Doyle ci hanno regalato.
Ecco che la lettura della ricerca dello storico inglese ci apre le porte ad una più calibrata e consapevole comprensione di tutto quello che è venuto dopo il secolo e mezzo della transizione dalla senescente Europa erede del medievalismo a quella della nuova vita moderna.
L’EUROPA DEL VECCHIO ORDINE. 1660-1800
WILLIAM DOYLE
EDITORI LATERZA, 1987
€ 25,00
MARCO SFERINI
5 giugno 2024
foto: particolare della copertina del libro, “Gli eserciti alleati sul Prater a Vienna nel 1814“, Biblioteca nazionale austriaca
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