Il voto era anzitutto europeo, quindi partiamo dal contesto continentale. Contrariamente a quanto sostiene tronfiamente Ursula von der Leyen, il Partito popolare da lei guidano non ottiene alcuna vittoria. Resta l’ago della bilancia per la formazione della maggioranza in seno al Parlamento di Strasburgo. Se questa è una celebrazione di successo, viene da domandarsi come mai i suoi più fedeli alleati, escluso chi l’appoggia esternamente come Giorgia Meloni in Italia, regna il panico e il caos.
Il caso francese
Andiamo con ordine. Un ordine di eclatante importanza negativa: Emmanuel Macron in Francia, visto il risultato dell’estrema destra di Marine Le Pen e, in particolare, di contro quello del suo partito che è meno della metà del Rassemblement national, scioglie l’Assemblea nazionale e indice nuove elezioni per il 30 giugno. Una mossa alla Pedro Sanchez che, però, potrebbe non avere lo stesso effetto che ebbe in Spagna. Differenti, infatti, sono i punti di partenza: il PSOE, Sumar e i partiti autonomisti che sostenevano il leader socialista avevano un buon margine sulle destre del PP e di Vox e, tuttavia, dopo il voto dovettero ricorrere all’indipendentismo catalano per poter governare.
Macron invece parte da una situazione di netto svantaggio e paga tutta l’arroganza antisociale con cui ha portato avanti politiche veramente selvagge contro i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati, gli studenti e i migranti. Se esiste una quintessenza della peggiore Europa della ex (e forse ritrovata e rinnovata) “maggioranza Ursula“, ebbene questa ha come apparizione iconica la “Macronie“, odiata e combattuta dai più fragili e deboli proprio per il suo portato di finto solidarismo equosolidale, così come ipocritamente ecosostenibile.
Queste sono elezioni in cui ci si dovrebbe stupire di poco e lasciarsi attraversare dal gelo nelle ossa che rimangono esposte ad un vento di destra che attraversa tutto il Vecchio continente e, nel farlo, si manifesta nei diversi ambiti nazionali con caratteristiche che non sono fra loro divergenti ma che, oltre tutto, permettono una sintesi delle posizioni dei partiti che andranno a rimpinguare i gruppi più estremi di destra che si nascondono nella non adesione a nessun soggetto politico europeo.
La mossa di Macron, effettivamente, spiazza. Marine Le Pen indubbiamente se la sarà aspettata, l’avrà messa nel novero delle prime possibilità post-voto. Forse proprio come prima possibilità di una rivalsa nei confronti tanto dell’inquilino dell’Eliseo quanto del suo delfino Attal. Non deve essere stato nemmeno poi così difficile, vista la furia bellicista del presidente, il suo farsi paladino della NATO e degli Stati Uniti d’America nella guerra d’Ucraina, il suo richiamare più e più volte l’invio di armi e truppe di terra europee per attaccare direttamente i russi sul terreno.
La risposta dell’elettorato, oltre che dal punto di vista sociale, la si può naturalmente interpretare anche così: un rifiuto della guerra o, per lo meno, un rifiuto del coinvolgimento direttissimo della Francia nel conflitto che dilania l’Europa e che oppone l’imperialismo russo a quello occidentale. Una carneficina in cui muoiono russi ed ucraini, mentre la spartizione delle zone di influenza nel neo-multipolarismo prosegue cinicamente e si estende al Medio ed Estremo Oriente: da Gaza ai paesi arabi fino al problema di Taiwan.
Il caso francese, pertanto, diventa il vero emblema di una giornata e di una notte elettorale scioccante per la Francia ma pure per tutte e tutti noi. Il fallimento dei governi che sostengono le politiche di austerità è palese. Verrà spacciato, ancora una volta, proprio da questi esecutivi diroccati e tribolanti come l’unica opzione possibile davanti all’avanzata delle destre, in un cortocircuitante gioco al massacro per le masse popolari. Macron dirà che solo lui ed Attal, eri europeisti, possono salvare la Francia dal pericolo (oggettivo) della destra post-fascista; Le Pen dirà di essere lei la salvezza della povera gente e della Nazione.
Il caso tedesco
Se la Francia, si fa per dire…, è una tragedia che assume i toni della farsa, in Germania la condizione di Scholz è una farsa che diventa per lui tragedia. La CDU reclama, dall’alto del suo 30% nazionale, un cambio di passo al governo del paese, mentre i Verdi crollano verticalmente (le loro posizioni sull’armare a tutto spiano la guerra hanno ottenuto il riscontro dovuto presso l’elettorato…) e il partito del cancelliere si fa superare dall’inquietante avanzata di Alternative für Deutschland (l’SPD è al 14,1%, AfD al 15,6% ed elegge un europarlamentare in più rispetto ai socialdemocratici).
La Linke perde a sinistra verso la lista della scissionista Sahra Wagenknecht e, tuttavia, nonostante le basse percentuali di entrambe le formazioni, visto che in Germania non è presente lo sbarramento al 4%, tutte e due eleggono europarlamentari a Strasburgo. Il fatto che non esista una legislazione elettorale europea comune per eleggere un parlamento comune è un altro degli artifici per poter maneggiare maggioranze a piacere componendo e scomponendo come i mattoncini dei Lego le dirimenti e tal volta imprudenti afferenze tra partiti simili per comporre eterogeneità funzionali al mantenimento del ballerino status quo deciso dalla BCE.
Scholz, insieme a Macron, è tra i leader europei quello che si è più battuto per fare dell’Europa una irrilevanza al servizio dell’asse nord-atlantista. Dalle strette relazioni con la Russia prebellica è passato a quelle di un asse franco-renano in cui è presente la maggior parte della produzione di ricchezza continentale (se escludiamo l’ex-triangolo economico norditaliano) e dove, oltre alla partita della guida dell’Unione per i prossimi anni, si gioca in particolare una contesa con la Francia in quanto a rappresentanza degli interessi polari dell’Occidente in seno alla Commissione.
Una cosa è certa: anche l’Europa del 2024, tanto di Macron quanto di Scholz, per quanto l’essere potere monetario e federazione dell’Euro, non intende spostarsi da questa fisiognomica finanziario-übercapitalista (come la definirebbe Bernie Sanders, senza ombra di dubbio) che ha impoverito e impoverisce tutt’ora le regioni più fragili delle nazioni europee. Per rimanere al caso tedesco, la maggioranza delle circoscrizioni elettorali in cui i neonazisti dell’AfD ottengono la maggioranza è, precisa precisa, nei confini della ex Repubblica Democratica Tedesca.
La parte, quindi, meno sviluppata della Germania post caduta del Muro di Berlino. Il settore ampissimo in cui il capitalismo occidentale è penetrato depredando e non costruendo quasi nulla per, quanto meno, adeguare l’Est allo standard dell’Ovest. La CDU di von der Leyen si prende il resto dei lander insieme alla CSU bavarese. Dove un trent’anni fa predominava il voto post-comunista oggi la fa da padrone il voto sottoproletario e proletario anche di protesta ma rivolto quasi completamente a destra. Nell’estrema punta neonazista della destra.
Il caso italiano tra percentuali e voti assoluti
A prima vista sono le percentuali che colpiscono. Da sempre. Queste ci dicono, scorrendo l’elenco dei partiti, che in Italia la destra va elettoralmente bene, il PD fa un balzo in avanti, i Cinquestelle retrocedono emorragicamente, il centro diviso di Calenda e Renzi fa un tonfo, Alleanza Verdi Sinistra ottiene un clamoroso e pregevole successo, Pace Terra Dignità di Santoro conferma le aspettative sondaggistiche e, oggettivamente, delude qualche aspettativa di troppo che, più che naturalmente, si era andata formando nelle ultime due settimane prima del voto.
Ma le percentuali sono infingarde: a volte dicono la verità ed altre volte mentono spudoratamente. Non è colpa loro, si tratta di rapporti numerici, di calcoli, di interazione di cifre che, pur essendo nude e crude, prendono pieghe diverse a seconda delle condizioni in cui il voto prende forma e poi si estrinseca nella partecipazione o non partecipazione alle urne.
Ed è proprio dal dato dell’astensionismo altissimo che tocca partire guardando al “caso italiano“. Tocca letteralmente dare un po’ di numeri per poter comprendere meglio il tutto. Ad avere diritto di voto erano l’8 e il 9 giugno 49.552.399 cittadine e cittadini. Coloro che si sono recati ai seggi per assolvere questo diritto-dovere sono stati 23.244.590, pari al 49% del corpo elettorale. Questo significa un aumento in termini assoluti e in percentuale rispetto tanto alle europee del 2019 quando ad esprimersi erano stati 27.652.929 su una popolazione pressoché numericamente eguale a quella odierna.
Ciò significa che il balzo indietro della partecipazione corrisponde percentualmente a quasi sette punti in meno: dal 56% al 49%. Se per Francia e Germania abbiamo scritto alternativamente di farsa e tragedia, in Italia possiamo parlare di dramma democratico, di separazione sempre meno consensuale tra politica e cittadinanza, tra elettorato attivo e passivo, tra popolo ed istituzioni. Indubbiamente incide anche il tipo di votazione, per cui si potrà affermare – non senza ragione – che trattandosi di elezioni europee, queste sono meno sentite rispetto alle politiche.
Ed è pure vero che si votava in migliaia di comuni per il rinnovo dei consigli, così come in tutto il Piemonte per la nuova legislatura regionale. Quindi, di contro, si potrebbe asserire che una sorta di bilanciamento tra percezione negativa, spinta astensionista e più alta partecipazione là dove vi era da eleggere o rieleggere i sindaci esiste. Ma siamo nel campo del metafisico-politico-elettoralistico. Se stiamo ai dati, senza leggerli asetticamente, ma tenendo bene a mente il contesto in cui sono determinati in quanto tali, riusciremo a capire le dinamiche e i flussi.
In realtà il voto europeo ci consegna una Italia in cui l’effetto destra pare determinato nella sua avanzata grazie, quasi esclusivamente, all’aumento davvero importante del fattore astensionismo. E questo elemento ci dice di più del malessere sociale e delle mancate risposte politiche di quanto non ci dica il mezzo milione di preferenze date al generale Vannacci in una Lega che non riesce a fare il sorpasso su una Forza Italia che va oltre il suo fondatore e che recupera consensi. Il miracolo, da attribuire forse a futuro processo di beatificazione prima e santificazione, in realtà è piuttosto illusorio.
Il partito sempre berlusconianissimo retrocede in numeri assoluti di quarantatrémila voti, quindi sostanzialmente tiene rispetto alle politiche del 2022 ma, facendo la Lega di Salvini un risultato peggiore (quattrocentomila voti in meno), la deformazione ingannevole tra percentuali e voti si prende la scena e troneggia nell’immaginario collettivo. Giorgia Meloni passa dal 26% delle politiche settembrine che l’hanno promossa a Palazzo Chigi al 28,8 odierno. Sembra un grande balzo in avanti e, infatti, percentualmente lo è, ma in numeri assoluti pure lei perde: da 7.301.303 passa a 6.704.423.
Il PD di Elly Schlein consolida certamente la scelta più socialisteggiante della segretaria, rispetto al passato tecnocratico-renziano, e rincorre Fratelli d’Italia: dal 19% modesto del 2022 passa al 22,7 di oggi. Il salto in avanti è di circa duecentocinquatamila voti. Il secondo caso di corrispondenza tra aumento doppio, in percentuale e in assoluto, è quello di Alleanza Verdi Sinistra: qui riscontriamo ben mezzo milione di voti in più rispetto alle politiche ultime e l’exploit è innegabile. Paga la candidatura tanto di Ilaria Salis quanto quella di Mimmo Lucano e, certamente, la scelta di presentarsi sempre con il simbolo consolidato.
I Cinquestelle collassano. Dai 4.335.494 di voti (pari al 15,4%) delle politiche (per non parlare del 17,7% delle precedenti europee) si scende verticalmente a 2.323.021, senza riuscire neppure ad arrivare alla doppia cifra, fermandosi beffardamente al 9,99%. Come per i prezzi al supermercato, l’effetto psicologico è notevole ma, invece di indurre ad una sensazione positiva, lascia a Conte l’amaro in bocca di una cocente sconfitta.
Se Renzi e Calenda, divisi non a Berlino ma a Strasburgo, hanno l’amara sorpresa di non veder confermate le previsioni sondaggistiche che li davano oltre il 4% (almeno abbondantemente per quanto riguardava Stati Uniti d’Europa), Pace Terra Dignità, la lista pacifista di Santoro e La Valle, sostenuta organizzativamente e politicamente da Rifondazione Comunista, non va oltre il 2,2% e, al consueto spicchio di elettorato di sinistra di alternativa (che viaggia ormai da tempo delle trecento-quattrocentomila unità) si arricchisce di centomila consensi, in parte strappati al M5S, forse qualcuno all’astensionismo, ma perdendone certamente altrettanti verso il PD e, soprattutto, Alleanza Verdi Sinistra.
Il caso italiano, parte seconda. Alcune considerazioni
Premesso che il “partito dell’astensionismo” è di gran lunga il primo partito di tutti i paesi che fanno parte dell’Unione Europea e che sono andati al voto tra il 6 e il 9 giugno, non possiamo nasconderci dietro ad alibi continentali per non vedere lo stato di crisi in cui versa la nostra società. L’aumento del disagio sociale, della povertà e della mancanza dei servizi elementari (scuola, sanità, infrastrutture, assistenze di prossimità) ha spinto quella parte di elettorato costretto alla sopravvivenza da parecchi anni di crisi multilivello (dalla Covid-19 fino all’economia di guerra) a scegliere l’opzione di destra come risposta alla disperazione.
Una risposta interclassista che, per l’appunto, salda il neo-sottoproletariato ad un ceto medio che si lega mani e piedi ad una neo-borghesia imprenditoriale che necessita di una stabilità che cerca nella legislazione veloce e nel presunto efficientismo statale il punto di svolta di una politica parlamentare vista come una palla al piede. La risposta premieristica meloniana va in questa esatta direzione: al mantenimento del proprio potere politico corrisponde la garanzia della tutela dei privilegi della classe padronale e finanziaria che nell’instabilità generale del continente in guerra scorge la possibilità di limitare le richieste sociali.
Lavoratrici e lavoratori, precari, disoccupati e pensionati, studenti e casalinghe, qualunque fragilità viene trattata alla stregua dell’esercito di riserva cui attingere per evitare richieste di avanzamento dei diritti del mondo del lavoro, del mondo salariato, dei più deboli e indifesi. Le politiche liberiste della Commissione europea, della “maggioranza Ursula“, sono la conseguenza di un appoggio tutt’altro che critico da parte dei Socialisti e Democratici di cui, per l’Italia, fa parte anche il PD.
Il PPE, che, come abbiamo fatto cenno all’inizio, non ha vinto le elezioni europee ma ha mantenuto una posizione di trincea rispetto all’assalto dei sovranisti, dei neofascisti e nazisti dall’Ungheria alla Germania, dall’Italia alla Francia, dalla Spagna alla Grecia, è l’azionista di maggioranza di una nuova maggioranza che riproporrà von der Leyen a capo del governo dell’Unione. Tutte le promesse di decostruzione dei miti monetaristici della UE, prigioniera dell’alzamento o dell’abbassamento dei tassi di interesse da parte della BCE, sono esercizi retorici alla fine.
Se a questo si aggiunge l’acquiescenza nei confronti dell’atlantismo dell’asse americano-franco-tedesco, è piuttosto evidente l’impossibilità di una conciliazione delle posizioni tra chi mette la pace, il disarmo e il passaggio ad una economia sociale come elementi primari per una fine della crisi continentale e globale e chi, invece, vede nella mitigazione di quelli che prova a far considerare solo degli “eccessi“, lo scopo della sua politica pseudo-riformista.
La necessità di una proposta politico-sociale-culturale che guardi alla pace come ad un progetto rivoluzionario – almeno in questa particolare, storica fase di transizione dalle tragedie novecentesche a quelle del nuovo secolo (Gaza ovviamente, purtroppo, compresa) – non è stata quindi una capricciosa velleità intellettualistica o giornalistica di chi voleva tentare una avventura. Più realisticamente ha posto il tema della guerra come il cuore di un problema disumano molto più ampio.
Mettere al centro dell’agire politico l’interesse comune e pubblico per riqualificare l’importanza della socialità, della condivisione dei beni, delle esperienze, delle culture, di tutti quegli interscambi che i rapporti di forza tra le economie dei vari continenti ci sbattono in faccia, mostrandoci la tanta povertà che regna nel mondo e la microbica ricchezza dell’egoismo occidentale. In questo senso, la ricerca della pace non è la ricerca di una mera “assenza di guerra“, ma la progettazione di un futuro in cui sia naturale per gli esseri umani vivere senza più massacrarsi a vicenda.
Senza più olocausti, genocidi, etnocidi. Porre questo tema all’ordine del giorno della politica italiana ed europea ha costretto al confronto con quella che è tutt’altro che una ideologizzante utopia romantica dei moderni sognatori di un mondo saturniano. Quanto un’idea è così naturalmente facile da comprendere e appare realistica in quanto trasferibile dal particolare all’universale, viene facilmente tacciata di essere al di fuori della realtà.
Prospettive di breve termine
La delusione per il non raggiungimento del quorum da parte di Pace Terra Dignità passerà con i mesi. Ma il progetto deve poter resistere. Perché le premesse che lo hanno determinato non cessano con lo scrutinio dell’ultima urna elettorale. Anzi, proprio da lì ricominciano, perché l’Europa che non intende disarmarsi ci deve per forza di cose allarmare.
Il dialogo e il lavoro comune devono essere visti non come un tradimento ogni volta che puntano al loro ruolo di intermediazione e del tentativo di trovare punti di convergenza per far avanzare lotte progressiste, di pace e di sviluppo sociale. Dobbiamo smetterla di considerarci avversari per via delle vicende del passato. Dobbiamo semmai distinguere ciò che ci divide da ciò che ci può unire di volta in volta. Le alleanze non devono essere dei labirintici costrutti in cui non si trova più la via d’uscita. Devono essere spontaneismo e non opportunismo o ultima spiaggia della disperazione.
Mezzo milione di voti non sono pochi, anche se percentualmente possono apparire tali. Questa fiducia data alla colomba bianca con il ramoscello d’ulivo nel becco non svanisce immediatamente dopo il voto. La sua valorizzazione è il primo punto all’ordine del giorno dell’affermazione santoriana sulla costruzione di un grandissimo movimento di resistenza popolare contro la guerra, contro tutte le guerre.
Se non usciamo dall’economia di guerra, non usciamo dalla mortificazione sistemica dei diritti sociali e civili, di quelli umani, della logica liberista di una Unione Europea che sarà governata con maggiore asprezza verso i suoi cittadini più deboli. Il tracollo macroniano dovrebbe essere un campanello d’allarme per questi teorizzatori delle magnifiche sorti e progressive del liberismo a tutto tondo. Non lo sarà, perché l’interesse di classe premerà sulla pochezza delle classi dirigenti piegate agli ordini del mercato e dell’alta finanza.
Diamoci delle prospettive di breve termine. Puntiamo al disarmo europeo. Mettiamo insieme progetti realizzabili qui ed ora per costruire una affinità oltre l’elettività forzata delle tornate di voto. Se Pace Terra Dignità saprà darsi questo obiettivo, verificando continuamente la sua aderenza alla realtà e alle pericolose circonvoluzioni che sta avendo in tutti i paesi dell’Unione e in tanta parte del pianeta, allora potrà pensare di essere “riconoscibile” tanto da parte dell’elettorato quanto dai cittadini fuori dal momento elettorale stesso.
In fondo non servono molte parole per convincere chi teme la coazione a ripetere delle sconfitte a sinistra. Ne sono sufficienti tre e quelle le conosciamo già.
MARCO SFERINI
11 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria