Forse non è il tempo per essere troppo pignoli, per distinzioni di lana caprina, per esegesi moderne su schemi di un recente passato che ha visto i valori del socialismo essere interpretati in diverse situazioni e trovare più o meno applicazione ai quattro angoli del mondo, finendo per essere costantemente frainteso (nel migliore dei casi), deluso e tradito (nel peggiore dei casi).
Riconoscere il grande aiuto che ci stanno portando, qui in Italia, le istituzioni politiche e le organizzazioni sanitarie cinesi è il minimo come ringraziamento sincero per una solidarietà che va oltre quell'”internazionalismo” di stampo comunista (e libertario) che dovrebbe toccare tutti i popoli del mondo uniti nella lotta contro il capitalismo.
La Cina è un mezzo continente più che un Paese: è una nazione ultramillenaria, trasformatasi nel ‘900 prima in repubblica e poi in repubblica popolare, in uno Stato comunista simile ad altre esperienze che pretendevano di costruire il “socialismo in solo paese” e che sono precipitate al suolo dalla scalata al cielo, travolte dalla contraddizione tutta novecentesca tra coniugazione delle libertà sociali con le libertà civili: espressione collettiva degli individui e piena emancipazione della singolarità di ciascuno non sono mai state portate avanti e rese un unicum, una caratteristica dei lineamenti di una presunta alternativa all’occidente liberale e capitalistico.
Così, l’Unione Sovietica prima, nel 1989, e tutti i suoi satelliti europei poco dopo, sono venuti meno cedendo al peso di una impossibile mutazione sociale che rendesse libere le coscienze di potersi esprimere criticamente verso un modello che ha avuto il merito di costruire solide forme di stato-sociale ma le cui aspirazioni al vero socialismo, quello che rappresenta l’unica libertà possibile per tutti gli sfruttati, per l’umanità intera, si sono rivelate chimere belle e buone.
“Siete circondati!“, hanno urlato le sirene del mondo al di qua della cortina di ferro. Il mondo del profitto, delle merci, dei miliardi di salariati che ancora oggi si trovano globalmente su tutto il pianeta. Costruire una società alternativa a quella del mercato e dei padroni vuol dire prima di tutto distruggere le basi economiche su cui si regge e, insieme, annientare la concezione arrivistico-egoista che sta alla base del sistema.
Invece, molti regimi definitisi socialisti, come la Cina, hanno finito per creare degli ibridi di società anti-capitalista: impossibile chiamare socialismo quello sovietico, se un comunista si ritiene tale perché pensa al comunismo proprio come al “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” e non ad “uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi“.
Il socialismo sovietico, quello cinese, per non parlare di quello nord-coreano, tutto sono stati e sono tranne l’abolizione dello stato di cose presente. Se l’Unione Sovietica ha acquisito, dal mondo in cui si trovava a vivere, tutte le rigidità burocratiche di uno Stato totalitario, diventando praticamente quello che una felice formula ha definito “capitalismo di Stato” e non una declinazione dei valori egualitari del comunismo in un tentativo di lenta e progressiva trasformazione economica, sociale e quindi anche politica, la Cina è andata oltre e ha mantenuto formalmente simbologie e appellativi che si rifanno all’interpretazione maoista del marxismo e del movimento comunista, ma è diventata, nelle lotte tra falchi e colombe dopo la morte del Grande Timoniere, sempre più un avamposto del capitalismo in un’Asia tutta in trasformazione, protesa verso l’imminente globalizzazione degli anni ’90 del secolo scorso.
Noi possiamo e dobbiamo inchinarci allo sforzo fatto dai cinesi per combattere il Coronavirus, alla loro determinazione e alla loro forza d’animo personale e, pertanto, collettiva. Ma non dobbiamo dimenticare che, fondamentalmente, la Cina è una potenza economica e in tal senso si muove, al pari di altri poli capitalistici del Pianeta. La differenza con gli Stati Uniti d’America, partendo dal vertice, sta nel pragmatismo tipicamente orientale, frutto di una saggezza che nasce da una cultura che arriva fino al Confucianesimo, piuttosto che nella faciloneria e nel pressapochismo con cui presidenti e primi ministri da Washington a Londra hanno trattato la pandemia che tutti coinvolge in una quarantena mondiale.
Ciò non fa della Cina un paese comunista, ma soltanto un popolo che ricambia gli aiuti italiani, che mostra una umanità che, retaggio questo sì forse di una cultura socialista novecentesca, viene prima dei profitti e dell’economia, ma non si può certo arrivare a pensare che la tanto declamata amicizia tra i due paesi sia dettata esclusivamente dall’emergenza in atto.
Chiunque si trovi in posti di potere sta tentando di sfruttare questa tremenda prova per stabilire rapporti più che privilegiati con Paesi con cui magari precedentemente le relazioni erano difficili, complicate e criticate fortemente dagli apparati europei: la cosiddetta “via della Seta” moderna (l’articolo di “Limes” a questo proposito è una interessante lettura) può essere un motivo per cui il patto tra Italia e Cina si faccia più stretto, nel comune interesse di venire fuori quanto prima da una emergenza sanitaria che impedisce il reale svolgimento dei processi produttivi e dei relativi flussi finanziari.
Nella partita mondiale della globalizzazione degli interessi si giocano questi stessi sullo scacchiere di una pandemia dove ogni pedina che viene mossa prima dell’avversario è un probabile aggiudicarsi un futuro di espansione merceologica e profittuale che si sottrae a concorrenti temibili: dai comparti della telefonia mobile e delle tecnologie sempre più interattive fino al mercato dell’automobile o a quello dell’import-export delle merci “made in Italy” o “made in China“, le tante piazze del campo di battaglia del capitalismo negano, alla fine, quei presunti valori internazionalisti e di fratellanza universale che si vorrebbero leggere nella corsa agli aiuti per l’Italia cui, per ultima, si è aggiunta anche la Russia inviando più che altro militari che sono anche medici.
Differente il discorso che concerne la Repubblica di Cuba: la resistenza al blocco imposto dalla famigerata legge Helms-Burton, il tipo di solidarismo sociale che la rivoluzione castrista ha creato, grazie soprattutto all’ispirazione marxista di Ernesto “Che” Guevara, è indubbiamente mutato nel corso di sessant’anni, ma leggendo le cronache dall’Avana si percepisce come nei cubani, dal governo fino alle assemblee locali del potere popolare, si avverta profondo il solco tra l’aggressività del mercato capitalistico e il tentativo isolano di continuare a mantenere viva la speranza di un mondo veramente alternativo.
Cuba, in fatto di ricerca medica è all’avanguardia nel mondo e ha per prima affrontato tante ricerche sulla mortalità oncologica infantile; ha sviluppato un modello sanitario che garantisce cure a tutta la sua popolazione gratuitamente, al pari del modello scolastico; ha sconfitto l’analfabetismo e ha debellato la povertà infantile in una situazione di accerchiamento e di quarantena che gli Stati Uniti le impongono da oltre cinquant’anni; ha aperto la strada, sempre in campo medico, a nuove speranze di lotta contro l’HIV riuscendo ad interrompere la trasmissione diretta tra madre e figlio nel corso della gestazione e al momento del parto. Cuba ha fatto tutto questo dopo la fine del “socialismo reale” e il sostegno che le derivava dai paesi amici dell’Est europeo e della stessa URSS.
Cuba ha inviato in Italia decine di medici, al pari della Cina, e ci sta aiutando così come stanno facendo il Vietnam e il Venezuela, mentre l’Unione Europa, la nostra “casa” sta ancora litigando su quante e quali misure disporre per mettere in campo un piano economico di investimenti che sia di supporto ai vari Stati della UE. La sospensione del Patto di Stabilità non è volontà dell’UE, ma è una coazione imposta dalla potenza del Coronavirus che sta seriamente minacciando l’ordine capitalistico per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Purtroppo chi, proclamandosi comunista, dovrebbe sostituire questo ordine oggi pensa non alla fine dell’economia di mercato ma a come occupare nuove fette proprio di quel mercato, magari modificandolo a proprio piacere e interesse. La mutazione che i mercati temono è un “modello cinese“, dove lo Stato compartecipa agli affari dei privati sottraendo loro il monopolio dei profitti, contrapposto al modello liberista che impone allo Stato tutta la virulenza della struttura economica del profitto e dello sfruttamento della forza-lavoro e delle materie prime naturali.
Per questo, se da un lato va ringraziato lo sforzo cinese, ed in particolare quello cubano che appare più disinteressato, nel sostenere l’Italia in questo momento difficilissimo, è bene che i comunisti non si lascino andare all’esaltazione di un comunismo che non esiste, di un socialismo dimenticato, solamente sfondo di una società che è invece pienamente inserita nelle regole spietate del sistema capitalistico.
Proprio perché il ringraziamento ai medici cinesi, al popolo cinese deve essere sincero, non possiamo, noi comunisti che ci definiamo anche libertari, per cui il comunismo è antitesi al capitalismo o non è, è antitesi allo statalismo e alla burocrazia o non è, è piena espansione delle libertà sociali unite a quelle civili o non è, non essere critici e mantenere viva la critica a tutte le forme statalizzate di una grande idea di libertà che sovrasta il mondo e che ci deve sempre interrogare su quale possa essere la prospettiva del futuro sostenibile: tra esseri umani di una parte del mondo e esseri umani di un’altra parte, tra tutta l’umanità e le altre creature che abitano il mondo, tra tutti gli esseri viventi e la natura.
Il comunismo, se esisterà, come grande movimento mondiale che abolirà lo stato di cose presente, è tutto da inventare.
MARCO SFERINI
25 marzo 2020