Due strade sbagliate non conducono da nessuna parte. Non funziona come nelle armoniose regole grammaticali della nostra lingua laddove due negazioni portano alla costruzione di una affermazione. Nella politique politicienne ed anche in quella più propensa ad unire palazzo e piazza (e viceversa, ovviamente), quando si provano a far stare sullo stesso piano politico dell’interpretazione sociale pseudo-soggetti simili per natura ma differenti per cultura, altro non si fa se non ricorrere alla disperazione dell’improvvisazione.
Poco conta che vi sia entusiasmo istituzionale da un lato e popolare dall’altro: il rischio di essere dei millantatori senza saperlo, di ritrovarsi nella condizione di una generale illusione di rappresentare un punto avanzato di ricostruzione della sinistra di alternativa, oppure anche soltanto socialdemocratica, in Italia diventa oggettivo e riscontrabile con la prova del voto.
Ad oltre un mese dalle elezioni politiche, sia Liberi e Uguali sia Potere al Popolo! non hanno ancora risolto un diverso giro di consultazioni, tutte interne, ma molto più complicate di quelle che si tengono al Quirinale: sono consultazioni inesistenti, che dovrebbero essere invece messe in essere, avviate come indagine non procrastinabile per sapere che strada intraprendere.
Si sono invece entrambi messi in uno stallo attendista per guardare cosa accade, chi fa la prima mossa, chi riesce ad avere una qualche intuizione salvifica per portare fuori dalla grande crisi della sinistra in Italia proprio la sinistra stessa e ricollegarla in qualche modo con una sensibilità popolare che non esiste, che da tempo manca in quanto a tematiche riconducibili al desiderio di egualitarismo sociale, di rivendicazione dei diritti per tutte e per tutti gli sfruttati.
Se, da un lato, Liberi e Uguali accusa un colpo più istituzionale che le deriva dalla propensione ad essere sinistra di governo, in qualche modo alla ricerca di una influenza su forze politiche maggiori del fu centrosinistra d’un tempo, Potere al Popolo! si è autocelebrata dopo il voto con un vuoto di autocritica e proponendo slogan, entusiasmo fondato sugli slogan, uno slancio politico fondato su un entusiasmo che, a catena, è un pericoloso domino di tavolette prive di forza per spingere in avanti la cascata di rivolta sociale o di avanzamento della coscienza critica che si vorrebbe far intravedere nel progetto stesso.
“Potere al Popolo! va avanti“, “Indietro non si torna!“. Tutto molto bello, entusiasmante, ma la crisi della sinistra la si evince anche da questa incapacità (quanto sia cosciente o incosciente è davvero difficile poterlo stabilire) di analizzare i rapporti di forza esistenti e di farne, qui sì, la base per una analisi concreta, priva di voli pindarici e fuori da una banalizzazione della politica che diventa altro dalla missione che si dà un partito comunista o una forza che si richiama, in qualche strano modo, al comunismo come movimento reale che qui ed ora vuole provare a cambiare lo stato di cose esistente.
Il punto di tutta questa querelle che molte compagne e molti compagni sentono e vivono, che non va ridicolizzato con accuse di “essere quelli di destra” (ma gli insulti arrivano sempre a portata di chi non riesce a spiegare le proprie insufficienze), è fondamentalmente uno soltanto: non esiste un punto di partenza ma un punto di arrivo se guardiamo a Potere al Popolo!.
E’ Potere al Popolo! rappresenta quel punto di arrivo di una sinistra di alternativa che non ha mai raggiunto livelli così bassi di rappresentanza delle istanze egualitarie proposte dai comunisti nel corso della storia repubblicana d’Italia.
Badate, parlare di “punto di arrivo” non significa parlare di “fine”, di decostruzione del progetto. Semmai si tratta di prendere consapevolezza del contrario: si tratta, quindi, di avere ben chiaro che va rimessa in discussione la pratica dell’associazione delle forze a sinistra e il concetto vago di sinistra stessa che non vuol dire praticamente nulla se espresso senza una aggettivazione che la qualifichi come tale.
Così come non significa granché, se non si rappresenta praticamente nessuno, dare come nome ad un movimento uno slogan altisonante come “potere al popolo!” (con tanto di incoraggiante punto esclamativo) se la concezione del potere che si ha si fonda esclusivamente su un mutualismo che è qualcosa di profondamente differente dalla costruzione di un nuovo potere popolare, di una nuova sintesi di classe tanto nella vita sociale quanto in quella culturale e politica che deve esserne espressione di esempio morale, civile.
“Indietro non si torna!” è uno slogan che già parla di una sconfitta. Ma non sarebbe negativo in sé stesso se fosse la manifestazione di una presa d’atto politica di una sconfitta epocale che deve portare ad un azzeramento complessivo delle strade qui percorse tanto dal moderatismo istituzionalista di Liberi e Uguali quanto dalla voglia di rivoluzione di Potere al Popolo!.
I primi non hanno la forza di costituire nemmeno un gruppo parlamentare nei due rami del Parlamento e il secondo è un generoso insieme di donne e uomini che vorrebbero essere una avanguardia per una massa di proletari moderni che non c’è, che non si percepisce come tale e che, pertanto, continuerà anche in un eventuale nuovo ricorso alle urne ad essere fonte di consenso per forze di destra moderata o estrema che strumentalizzano l’uguaglianza sotto forma di ricorso all’onestà come programma politico o di livellamento dei bisogni in base ad un diritto di nascita su questo su altro suolo nazionale.
Fingere che esista un punto di partenza è chiudere gli occhi su una palingenesi che è già in atto e che si esclude come improbabile passaggio per la sinistra in Italia attraverso il quale transitare obbligatoriamente. Nessuno la vorrebbe come soluzione del dramma politico che viviamo, ma ci si sta arrivando attraverso un percorso quasi “naturale”, imposto dalla consunzione di un consenso che non può nemmeno più definirsi tale.
Il consenso si raggiunge quando vi è un numero così ottimale di singolarità che si uniscono e formano una forza. Oggi noi possiamo solo dire che la sinistra di alternativa raccoglie un dissenso ristretto in termini di critica sociale e riunisce tante disperazioni politiche e non ha una proposta concreta da offrire proprio al cosiddetto “popolo” che non è tale, che si disprezza ed è diviso non su basi classiste ma su temi di tutt’altra natura.
Al conflitto di classe, dunque, si è sostituito un conflitto della classe con sé stessa, che è stata divisa, frammentata e separata da decenni di interventi liberisti nell’economia e, quindi, nel residuo stato sociale costruito con le lotte ormai diventate parte della storia di una Repubblica irriconoscibile anche se solo paragonata a venti anni fa.
Per questo la sinistra di alternativa, i comunisti e le comuniste, i socialisti di sinistra e tutti coloro che si ritengono in qualche modo libertari, devono aprire una fase di critica senza flagellamenti di alcuna sorta: devono, dobbiamo essere in grado di allontanare le illusioni di partenze inconsistenti e di nuovi assemblaggi fatti per superare soglie elettorali. Anche senza volerlo, anche senza saperlo, ci siamo ricascati in una situazione ben più drammatica rispetto alle precedenti tornate elettorali.
La mutazione antropologica della società si è espressa con tutta la sua forza nel disprezzo per l’uguaglianza, nell’esaltazione della differenza come elemento negativo su cui far poggiare nuove politiche liberiste ammantate di un nuovismo tipico di chi inneggia alle riforme di struttura compiendo vere e proprie incursioni neobarbariche contro gli strati più poveri della popolazione.
Ricostruire il progressismo politico e la critica sociale in Italia, quindi una sinistra anticapitalista, comunista senza troppi fronzoli, non passa per l’esclusione di chi viene considerato estremista da un lato, moderato dall’altro: passa dal dialogo. Passa attraverso la riproposizione di un grande coinvolgimento culturale della nostra gente non su sterili provocazioni o slogan altisonanti, nemmeno attraverso quel mutualismo che rischia di trasformare la sinistra in una succursale della Caritas, ma può ritrovare una sua nascita ridefinendoci anzitutto ciò che siamo e ciò che vogliamo.
Perché per troppo tempo siamo andati avanti seguendo inconsapevolmente i versi del poeta, molto belli ma infruttuosi:
“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo“.
Va invertita la marcia: “Domandaci la formula che mondi possa aprirti… Ciò che siamo, ciò che vogliamo”. Torniamo ad essere quella domanda aperta sul mondo che viene domandata ostinatamente.
MARCO SFERINI
8 aprile 2018
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