Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana

Ci avviciniamo al 25 aprile e, volendo invitare alla lettura di un libro che non può mancare accanto ai testi fondamentali che descrivono il carattere della nostra Repubblica, ho...

Ci avviciniamo al 25 aprile e, volendo invitare alla lettura di un libro che non può mancare accanto ai testi fondamentali che descrivono il carattere della nostra Repubblica, ho pensato di non saltare la prefazione che ricordavo ma per cui sentivo la necessità di una maggiore attenzione.

Uno psicologo chiamerebbe tutto questo con qualche nome particolare, adatto all’analisi introspettiva. E magari ci azzeccherebbe pure, visto che, rileggendo le poche pagine di Enzo Enriques Agnoletti mi sono ricordato cosa mi faceva frullare nella mente che vi fosse qualche collegamento tra l’oggi e l’ieri.

E non era tanto qualche astruso, improprio e revisionistico paragone tra le resistenze che si invocano oggi e quella italiana al nazisfascismo. Ma c’era qualche parolina, qualche frase che mi risuonava in testa come la nenia di un carillon. Un richiamo, una sorta di déjà vu assolutamente inconscio, del tutto inconsapevole e chissà da dove riemerso nel momento in cui le “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” mi sono sembrate il libro migliore per accogliere questo 25 aprile diviso tra pace e guerra, tra guerra e mancanza di diplomazia.

Vi riporto di seguito il brano che da qualche parte aveva trovato posto negli scaffali dei passaggi preziosi da non dimenticare mai:

«La Resistenza italiana agisce in situazione diversa da quella di tutti gli altri Stati d’Europa. Dappertutto il motivo dominante è stato la volontà di resistere contro l’invasore straniero, fisicamente distinto e riconosciuto ufficialmente come nemico fin dall’inizio.
Così in Russia, in Polonia, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Norvegia, in Danimarca, in Jugoslavia e anche in Cecoslovacchia. In Italia non c’è stato un nemico entrato a forza nel nostro Paese; l’unico nemico, l’unico esercito entrato a forza sono gli Alleati occidentali. Perciò è mancato quel fatto elementare, l’odio per lo straniero invasore che nasce dallo choc profondo causato dall’irruzione di truppe straniere nel territorio della patria.
I motivi patriottici, che pur ci sono e profondi, devono essere associati a una idea della patria meno elementare, meno fisica di quel che è accaduto fuori d’Italia, un’idea della patria che vede in essa non solo la comune origine, ma un tipo di società contrapposto a un altro tipo di società
».

Le considerazione di Agnoletti, che fu un partigiano, allievo di Calamandrei, socialista liberale prima e di corrente lombardiana nel PSI poi, è fondamentale per capire tanto la Resistenza al nazifascismo quanto la sua proiezione in una odiernità dove la guerra torna a separare le coscienze, a dividere i campi, a imporre lo schieramento prima di tutto di precostituzione mentale, impedendo alla critica di fare il suo lavoro: osservare con distacco fin dove è possibile e lasciare alla parte politica di ognuno di noi, al ruolo del “cittadino” che eredita ovviamente anche quello dell’uomo, di formarsi una opinione compiuta su quell’insieme di dati, dichiarazioni e informazioni contraddittorie che le parti di un conflitto mettono in campo per vincere ovunque. Anche sul terreno del convincimento singolare e collettivo.

Le lettere che i condannati a morte della Resistenza italiana ci hanno lasciato, così come quelle dei soldati tedeschi della Sesta armata di Paulus, insperatamente arrivate a destinazione (di cui abbiamo parlato qualche tempo fa: qui il collegamento all’articolo) e salvatesi dalla censura del Terzo Reich, sono molto di più di una testimonianza storica.

Ognuna di quelle pagine conservate, di quei brandelli di carta fatti uscire fortunosamente dalle prigioni, magari per mano di un pietoso cappellano o di una guardia, esprimono tutta quanta la condanna prima di tutto della guerra, voluta dai regimi di Hitler e Mussolini, come causa di ogni rovina. Della singola persona, del proprio piccolo mondo in cui si viveva prima del giugno 1940 e di una Italia intera dentro ad un mondo devastato, ridotto ad un mattatoio.

Chi cerca nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana dei proclami di eroismo, può smettere di leggere se il suo intento è quello di raggranellare il maggior numero di frasi enfatiche possibili sulla patria e sul destino alto che le sarebbe spettato dopo la caduta dei totalitarismi. Le espressioni di coraggio non mancano: sono per lo più rivolte ai familiari, per infondere loro un po’ di consolazione in mezzo a tanta morte, a tanto orrore. E, quasi sempre, all’invito a farsi forza si accompagnano tante raccomandazioni: per i figli piccoli, per le spose o le giovani amanti che non si rivedranno più, per le madri e anche per le sorelle e i fratelli più piccoli.

La maggior parte delle lettere sono scritte da ragazzi che ancora non sono diventati fisicamente uomini adulti: pochissimi hanno più di 35 anni e fanno parte un po’ di tutte le classi sociali. C’è il fornaretto, il meccanico, lo studente, il falegname, l’avvocato, il muratore, un proprietario di un caseificio, maestri elementari, casalinghe e impiegate.

Ma le donne sono molto poche, la stragrande maggioranza sono uomini che hanno scelto di battersi direttamente sui monti o di fare attività clandestina nelle città, dove si rischia altrettanto la pelle pur se non si imbracciano fucili e si impugnano pistole. Le donne, le madri, le sorelle e le mogli le trovi qui: nelle campagne e nei centri urbani. Fanno le staffette, portano viveri, messaggi, riforniscono le brigate partigiane in mille modi. Nascondono i fuggitivi, aiutano gli ebrei e i politici perseguitati.

Sostengono la propaganda e, non sono pochi i casi, collaborano ai sabotaggi. Per ognuna di queste attività di guerra c’è, nemmeno a dirlo, la pena di morte. E, prima di morire, le torture dei fascisti e delle SS. Nessuna, nessuno vorrebbe essere un eroe, ma vivere in pace. Per questo le lettere sono ricolme di anatemi e stigmi contro la guerra che li ha costretti a diventare, loro malgrado, dei combattenti, degli uomini che uccidono altri uomini.

Gianfranco Mattei ha appena 27 anni ed è un docente universitario. E’ un attivo antifascista fin dal 1937. E’ comunista. All’università si occupa di chimica analitica qualificativa ed è specializzato in ricerche sulla struttura dei film monomolecolari. Dall’ottobre del 1943 lascia l’insegnamento e gli studi e si unisce ai resistenti.

Lo catturano nel febbraio del 1944. Finisce a via Tasso. Se non si fosse dato lui stesso la morte impiccandosi, sarebbe arrivato alla fine a causa delle orrende torture delle SS. Il suo congedo dalla vita e dal mondo lo scrive sul retro di un assegno circolare… Sono parole di affetto per i compagni e i fratelli. Sono pochissime parole, visto lo spazio che ha a disposizione. Ma sono quasi una lirica che merita di essere letta e riletta molte volte per acquisirne tutta l’empatia.

Quelle quattro righe scritte a matita, con la mano malferma, sono l’atto di accusa contro la guerra, contro la dittatura, contro persino la sorte a cui si deve dare qualche colpa se si vuole avere ancora la certezza che l’umanità conservi un istinto di sopravvivenza e la voglia di costruire un mondo migliore.

Lo ha detto bene in questi giorni una partigiana quasi centenaria: «Io sono entrata nella Resistenza perché odiavo tutte le guerre provocate dal fascismo e volevo che finissero». La lotta antifascista ha superato il suo essere contrarietà a qualcosa ed è diventata proposizione attiva nel momento in cui ha creato attorno ad un principio, ad una idea di società nuova, di nazione e di Paese (nel più bel significato partecipativo e comunitario che si può dare a questo termine) una comunità rinata dalle ceneri della dittatura.

Se di “nuovo Risorgimento” si può parlare quando si far riferimento alla lotta di Liberazione dell’Italia, se ne può parlare soprattutto in termini di coesione e di tensione morale e, su un piano antropologico, di vera e propria presa di consapevolezza dello stato miserevole portato dalla dittatura militare che – come Gramsci aveva insegnato a tutti, ammonendo i giudici del Tribunale speciale – conduce sempre, inevitabilmente alla guerra e dalla quale viene travolta.

Molti giovani resistenti, prima di essere portati davanti ai plotoni di esecuzioni delle camicie nere e dei loro alleati nazisti, invitano i loro parenti a considerare oltre alla fisicità della lotta anche quei valori che rimangono pure dopo la morte. Che rimangono e vengono portati avanti da chi saprà leggere le pagine della storia della Resistenza, di tutte quelle vite ancora in erba che sono state spese per una idea non astratta di libertà.

Nessuna utopia nella lotta partigiana, ma tanto realismo che si nutre però di valori esattamente opposti a quelli propagandati dal fascismo, che hanno fuorviato la coscienza popolare, distrutto un Paese nel nome della supremazia e della prevaricazione di alcuni popoli su altri. La sconfitta di questo piano criminale contro l’umanità è la pietra angolare su cui si fonda oggi la Repubblica italiana. Su cui si fonda quella richiesta di pace che fa eco dalla Resistenza antifascista, da quel mai troppo lontano 25 aprile 1945.

LETTERE DI CONDANNATI A MORTE DELLA RESISTENZA ITALIANA
(a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli. Prefazione di Enzo Enriques Agnoletti)
EINAUDI – COLLANA “GLI STRUZZI”
€ 14,00

MARCO SFERINI

20 aprile 2022

foto: particolare della copertina del libro

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