Sgomberiamo il campo da un equivoco di fondo: il pacifismo non è rassegnazione, non è apatia, non è passività, non è cedevolezza, non è stare a guardare come andrà a finire una guerra standosene ai margini inoperosi e contemplanti il susseguirsi degli eventi. Il pacifismo è una disposizione critica nei confronti di tutto ciò che induce e produce conflitti fini a sé stessi. Siccome le guerre sono il prodotto dello scontro di interessi uguali e contrari (come quella in Ucraina in cui si confrontano e si fronteggiano due pulsioni imperialiste), ogni azione che le disincentiva o ne mina alla radice le irragionevoli ragioni, è un’azione pacifista.
Possiamo definire tutto ciò anche “disobbedienza civile“, reinterpretando modernamente Henry David Thoreau, perché lo spirito dell’obbedienza alle leggi non dovrebbe mai essere una sorta di fondamento etico-sociale su cui far crescere la negazione dei diritti di altri popoli o del proprio. Un governo non dovrebbe avere mai una autorizzazione parlamentare o costituzionale all’impiego di denaro pubblico per finanziare azioni di guerra che servono a risolvere (così almeno sostiene la vulgata propagandistica comune) le controversie internazionali.
Qui siamo esattamente nel punto di caduta di una contraddizioni persino elementare che riguarda il testo della Carta del 1948: l’articolo 11 non è, come del resto ampia parte del resto della Costituzione repubblicana, interpretabile al punto da distorcerlo come è invece stato fatto tanto da governi di centrosinistra quanto di centrodestra nel corso degli ultimi trent’anni. A cominciare dalle guerre balcaniche e da quelle del Golfo persico. Eppure gli interessi in ballo sono così forti da consentire che l’azzeccagarbuglismo della politica nazionale metta un po’ tutti (o quasi) d’accordo e ci si armi di altrettanto tutto punto.
La parola che va per la maggiore è: riarmo. Nel nome di un ipocrisia conclamata che risponde ovviamente allo specchietto per le allodole rappresentato dall’invocazione della “difesa” come deterrenza prima, come prevenzione della pace. E così sarebbe se per difesa si intendesse un atteggiamento di cooperazione anzitutto internazionale che puntasse alla collaborazione su un piano di dialogo, di aperto ricorso alla diplomazia per cercare di mettere fine agli scontri in atto. Ma ciò presuppone una onestà, una buona fede e una sincerità di intenti che nessun governo dei Ventisette realmente può esibire come dote virtuosa.
Particolarmente desolante è il panorama politico italiano. Non che sia una novità il fatto che la sinistra moderata (un tempo si sarebbe detta “socialdemocratica“) voti crediti di guerra o si destreggi tra labirinti parolai per giustificare l’appoggio al riarmo per vie traverse e non direttamente così evidenti. Succedeva ai primi del Novecento, succede oggi. Perché le condizioni date dal capitalismo sono sempre quelle del richiamo alle compatibilità del sistema entro i parametri di una politica pragmatica che, alla fine, guardi all’interesse trasversale tra pubblico e privato, considerando quest’ultimo l’attore del riarmo e, nel dopoguerra, della ricostruzione.
Una delle obiezioni che viene fatta ai pacifisti in questo frangente è: ma se non avessimo sostenuto l’Ucraina, cosa sarebbe accaduto? In realtà la domanda è capziosa, pur senza non volerlo magari esserlo direttamente: perché bisogna anteporre a questo quesito tutta una serie di altri interrogativi che aprono lo squarcio sulle vere ragioni per cui tre anni fa si è aperta la fase dell’invasione russa in territorio ucraino. I pregressi non possono essere ignorati, perché determinano il contesto e situano l’attualità del conflitto non nella semplicistica divisione etico-politica tra le forze del bene ad occidente e quelle del male ad oriente, bensì in una serie di causa e concause che sono le premesse della guerra.
Se la NATO avesse rispettato i termini dei trattati internazionali e le parole date all’ex URSS dopo la caduta del socialismo reale, cioè di non avanzare di un centimetro in direzione russa, probabilmente oggi non sarebbe qui a discutere di un conflitto che si trascina non da soltanto tre anni, ma da oltre un decennio. Le prime avvisaglie dello scontro tra Kiev e russofoni del Donbass sono ascrivibili cronologicamente ad almeno undici, dodici anni fa. Le tensioni che hanno fatto degli oblast contesi un teatro di guerra, più o meno altrettanto.
La domanda più corretta da porsi, e meno ipocrita, è: saremmo in questa situazione di destabilizzazione europea e globale se la NATO fosse stata buona buona entro i suoi storici confini da “guerra fredda“? Ovviamente non abbiamo sfere di cristallo e nessuno può pretendere oggi, col senno di poi, di essere stato preveggente ieri. Ma non c’è alcun dubbio sul fatto che la pace europea non resiste all’urto dell’espansionismo imperialistico nordatlantico e, quindi, la reazione russa, pur non essendo giustificabile, è storicamente comprensibile. Ossia è parte di un rapporto tra causa ed effetto che non può essere espunto dal calendario della Storia più che contemporanea.
Quando si punta il dito contro i pacifisti e li si accusa di una sorta di irresponsabilità dettata da un ideologismo solcato da striature di utopismo a buonissimo mercato, ci si emenda la coscienza di uomini e donne di sinistra che hanno accettato i più squallidi compromessi per mantenere una postazione di accesso al potere di governo, se non nell’oggi, forse nel domani. In nome dell’ammissibilità nel cerchio delle forze valutate come pragmatiche nella società e nell’economia dominante, la sinistra moderata ha, fin dalla composizione dell’anomalo bicefalo rappresentato dal PD, tentato di convivere con il contrario di sé stessa.
Giustizia sociale e compatibilità del mercato non possono essere simbiotizzabili perché sono oggettivamente assi portanti di interessi opposti. Ma il liberalsocialismo dell’oggi o, se vogliamo, quella che viene enfaticamente propugnata come una “sinistra moderna“, aperta al dialogo con le forze del centro e con quelle anche di destra su temi che riguardano il cosiddetto “interesse nazionale” (tanto caro al governo corale di Mario Draghi), è pronto a trattare anche su pietre angolari storiche del movimento internazionalista: lavoro, pane e pace. Quest’ultima è la protagonista del sacrificio non ultimo di una lotta intestina che spacca a metà il PD.
Su una questione così dirimente non si dovrebbe assistere, in quella che è, soprattutto dopo la nascita della segreteria Schlein, la forza maggiore della sinistra in Italia, ad una lacerazione tanto dura e insopportabile. Dato il fatto che oltre il sessanta per cento degli italiani è contrario all’invio di sempre nuovi armamenti in Ucraina, è evidente che ciò che divide il PD a metà nell’Europarlamento sul voto riguardante il “ReArm” vonderleyano non è un presupposto anzitutto ideologico. Si tratta della rappresentanza, nel campo cosiddetto “progressista“, non delle ragioni della maggioranza della popolazione (qui molto trasversale politicamente parlando), ma degli interessi di una ristretta cerchia di produttori.
Chi è oggi il vero aggressore delle libere democrazie dell’Occidente eticamente superiore ad ogni altra civiltà presente sul pianeta? Vladimir Putin perché continua una guerra contro un libero Stato indipendente oppure anche un Donald Trump che dovrebbe, almeno in termini di geopolitica un po’ storica, stare dalla nostra stessa parte? Siccome la divisione draconiana tra bene da una parte e male dall’altro smette di essere tutelata dall’ipocrisia dei democratici a stelle e strisce, che più di tutti hanno sostenuto l’espansionismo della NATO verso est e la corsa al riarmo, le irragionevoli ragioni della guerra ora vengono a galla e imbarazzano (forse) i governi che le hanno sostenute.
Ma ricordiamo che i pacifisti sono coloro che, dicendo di NO all’invio di armi e all’economia di guerra in senso più lato, si rendono responsabili dell’avanzata delle tirannie nei confronti dei virtuosi regimi liberali e democratici dell’ovest, dell’Europa e dell’America. Di quell’America che è cambiata così repentinamente da sovvertire la narrazione costruita a tavolino dai liberisti di casa nostra per giustificare la ricerca di un ruolo nella contesa mondiale degli imperialismi attualmente in lotta fra loro. Una volta messa da parte la ragione fondante di una sinistra anticapitalista, quindi la critica al sistema delle merci e dei profitti senza se e senza ma, tutto diviene ideologicamente e praticamente possibile.
Non si tratta più soltanto (si fa per dire…) di sostituire le politiche pubbliche di intervento nell’ampliamento delle reti sociali con quelle di privatizzazione dei più importanti settori strategici della produzione della ricchezza nazionale. Non si tratta più di mettere avanti a tutto l’interesse dell’impresa rispetto a quello del mondo del lavoro e del diffuso disagio sociale. Nel momento in cui accetti di considerare modificabile questo sistema mediante le sue regole, finisci col convincerti che sia realmente vero. Sappiamo tutti che non possiamo prescindere dalle regole date; ma dovremmo poter conservare anche un certo grado di criticità che ci consenta di non tradire le ragioni fondanti dell’essere di sinistra.
Se essere di sinistra vuol dire un po’ tutto, anche permettere che una guerra tra imperialismi continui nel finto nome della difesa del popolo ucraino, allora poi si perde qualunque possibilità di essere davvero riconoscibili come differenti rispetto al resto della politica italiana (ed europea), rispetto tanto al centro quanto, ed è il dato forse più preoccupante, alle destre. Il Partito democratico nel momento in cui si divide verticalmente sulla guerra e, nel farlo, non sà dire nemmeno un NO all’invio della armi, ma solo esprimere un voto di astensione nel “migliore” dei casi, tradisce le ragioni sociali, civili e morali di un impegno per un rinnovamento della sinistra in Italia. Anche se su basi moderate.
Viviamo nella contraddizione per cui il PD che dovrebbe essere una sinistra moderata moderna somiglia ad altro da sé stesso, mentre il Movimento 5 Stelle, che nasce come forza di destra populista, oggi è sempre più simile ad una forza progressista che, tuttavia, esita – e con qualche autocritica ragione – ad assimilarsi al perimetro della sinistra, preferendo un ruolo in tal senso da “indipendente“. Viviamo in una fase altamente complessa che, nonostante tutto, dovrebbe essere foriera di scelte di campo nette. Ed invece i trasversalismi giocano una parte perversa nelle spinte opposte interne ad un ibridazione partitica figlia di un retroterra anticulturale e populista assassino seriale delle ideologie.
Con la forzata archiviazione dei grandi ideali e delle grandi prospettive politiche di un tempo, una vasta cultura di massa è stata messa nell’angolo e sostituita col pressapochismo della concretezza a tutti i costi, del pragmatismo di governo e, quindi, dell’unica ideologia consentita dal liberismo: il governismo. Il peggiore dei tradimenti che la sinistra moderata ha permesso a sé stessa nel nome delle magnifiche sorti della modernità. Ed eccole qui, tutte, ma proprio tutte quante…
MARCO SFERINI
14 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria