L’età sempre più selvaggia del “capitalismo dei disastri”

Titoli azionari che tracollano, indici di borsa mai così instabili dal periodo pandemico e mercati che subbugliano senza soluzione di continuità da giorni e giorni. Un marasma finanziario che...

Titoli azionari che tracollano, indici di borsa mai così instabili dal periodo pandemico e mercati che subbugliano senza soluzione di continuità da giorni e giorni. Un marasma finanziario che investe il mondo intero e che risponde al nome di “guerra commerciale“. Certo che sì: l’ha scatenata l’amministrazione Trump nel giro di pochissime ore, dopo aver preso la decisione di affibbiare dazi doganali a qualcosa di più, di metà del mondo. Per la Cina il salasso più duro: la conta in percentuale dei dazi sembra sorpassare addirittura il cento percento.

Le ricadute – fanno sapere i più addentro in dette questioni – saranno enormi: la radio della Confindustria per una volta non trasmette rassicurazioni sull’immediato futuro, abile tecnica comunicativa che dovrebbe far sembrare che tutto va bene cari lavoratori anche quando i salari, oltre che rimanere al palo come di solito accade, retrocedono e non si vede la fine della retrocessione. Dai microfoni delle trasmissioni economiche ci si domanda il perché Trump abbia voluto generare questo scompiglio pressoché globale. La domanda è legittima.

Le risposte non che lo siano di meno, ma di sicuro sono discutibili perché opinabilissime: ognuno vede soluzioni diverse a seconda degli interessi da difendere. Così, per chi come noi è abituato a considerare una soluzione ai problemi della cosiddetta “civiltà” la riqualificazione appieno dei beni comuni, non è un mistero il fatto che il governo americano di matrice MAGA punti ad un tentativo forzato di rimessa in discussione del multipolarismo, provando a far riemergere gli Stati Uniti come unica, sola potenza globale capace di condizionare le scelte dei propri concorrenti.

Concorrenti, si intende, tanto politici quanto militari e, quindi ci si muove su un piano imperialista che non è per niente nuovo nella discussione e nel confronto tra le idee conservatrici e quelle progressiste. Noi puntiamo ad una decrescita, a meno sprechi nei consumi, ad una decelerazione produttiva che non sia sinonimo di recessione o impoverimento generalizzato. Fino ad ora, chi accusava i comunisti moderni di essere delle sorte di fattucchiere di un pauperismo di nuova generazione, sono stati proprio i teorici di un neoliberismo che ha prodotto i peggiori strati di aumento della povertà su vasta scala.

Per questo non è così facile stabilire quali effetti avranno i dazi di Trump: a seconda delle risposte che a questa politica dell’aggressione doganale saranno date dalla Cina nonché dall’Unione Europea (la Russia, per ora, è stata graziata da Trump nel nome della sacra amicizia che uniforma i destini conservatori ed ipernazionalisti dei due ex giganti della vecchia Guerra fredda…) si avranno ulteriori sconquassi, contraccolpi e modificazioni quindi su scala planetaria dei rapporti tra economia e finanza, tra capitale e lavoro, tra nord e sud del mondo. Uno dei problemi del conservatorismo MAGA, che tende ad essere costantemente protezionistico ed autarchico, è la considerazione dei rapporti di forza.

Non dobbiamo sottovalutare, quando si tentano delle interpretazioni quasi antropologiche di questi fenomeni molto materiali, legati agli scambi commerciali che determinano i destini di interi popoli, che esistono pur sempre delle variabili afferenti anche al modello di sviluppo determinato da questioni che riguardano ambiti prettamente ideologici. I sovranisti trumpiani credono fermamente nella predestinazione divina, nell’assegnazione agli Stati Uniti di un ruolo di guida del e nel mondo. Troppe volte siamo indotti a ritenere che dietro ogni mossa vi sia l’interesse economico e soltanto quello.

Ovvio che è così, altrimenti non prenderemmo in prestito ancora da Marx le categorie per interpretare l’oggi, dividendo la realtà in struttura e sovrastruttura, ma non possiamo non tralasciare il fatto che questi governanti sono pur sempre degli esseri umani soggetti a tutte le contraddizioni che viviamo giorno dopo giorno: insomma, una quota importante di scelleratezze attribuibili solamente alle mosse dello scacchiere finanziario, sono anche di origine ideologica. Trump ha una grande considerazione di sé stesso e si lascia ogni giorno magnificare dai suoi fedelissimi che pregano per lui, che mettono la sua immagine ovunque.

Chi vive nei paesi sviluppati, del resto, non ha solamente la sensazione, ma sa di trovarsi in quel dieci, venti percento di pianeta in cui il reddito è preservato come una sorta di privilegio delle classi ovviamente più abbienti; sei al sicuro se ti trovi appunto nella Repubblica stellata, se vivi in Cina e fai affari con mezzo mondo. Ma non sei al sicuro se vivi in Africa, in particolar modo dove i conflitti locali e regionali sono alimentati proprio dagli affari delle grandi potenze che giocano alla partita della competitività sulla pelle di milioni e milioni di individui ritenuti, oltretutto, inferiori per origine, per colore della pelle, per cultura…

Il liberismo trumpiano, spinto all’ennesima esasperata potenza per isolare splendidamente gli Stati Uniti dal punto di vista della tenuta economica sul piano globale, propone uno stile di vita insostenibile dal punto di vista di un principio di equità proprio globale. Se consideriamo questo principio un punto di riconsiderazione dei rapporti anche umani, per evitare delle vere e proprie catastrofi in seno a quella ambientale già ampiamente avanti, scivolata in un irrefrenabile discesa annichilitrice, allora dobbiamo convenire sul fatto che Trump e la sua amministrazione portano avanti politiche che finiranno coll’imporre sacrifici tali a tanti paesi che dovranno, a loro, volta, rovesciarli sulle masse più indigenti.

Questo perché le élite al potere non metteranno mai in discussione i loro posti, le loro capacità e potenzialità date dal ruolo che ricoprono grazie alle prebende delle classi dominanti. L’unica – diciamo così… – speranza è che i cambiamenti climatici continuino a peggiorare a tal punto da diventare una leva di costrizione che scuota un po’ gli animi anche più duri e rovesci i menefreghisimi egoistici di chi punta ad andare dritti verso la cieca distruzione delle risorse naturali e, quindi, aumenti a dismisura la forbice delle diseguaglianze: una volta divenuta insostenibile su un fronte tanto ampio, la rivolta dovrebbe essere all’ordine del giorno.

Ma non si può attendere l’anticapitalismo di massa con un atteggiamento quasi fideistico o, molto più banalmente, confidando in previsioni che hanno un retrogusto di autolesionismo: tanto peggio, tanto meglio non è proprio una filosofia che si può ascrivere al progressismo e neppure ad un luddismo di nuova interpretazione. Se ipotizziamo, tuttavia, uno scontro fra l’uno percento delle classi più privilegiate e benestanti e il novantanove percento del pianeta ridotto in miseria (o quasi), è evidente che il capitalismo, affidato alla difesa di questa esigua parte di dominatori, almeno sul piano percentualistico avrà una disfatta certa.

Ma quale sarà il punto di rottura? L’imperialismo sta lì, come fenomeno politico-militare, proprio per fare da cane da guardia ad un finto equilibrio planetario oltre che nazione per nazione. Le guerre si tengono perché, ogni tanto, c’è bisogno di ristabilire i confini dei prelevamenti forzosi delle risorse di interi paesi che finiscono, nel nome della libertà, dell’esportazione della democrazia e dei valori occidentali (o anche orientali…), ad ingrossare i profitti dei grandi gruppi di gestione delle materie prime da trasformare in costi energetici esorbitanti. Soprattutto, si intende, per coloro che sono la grande massa degli sfruttati di ogni giorno.

Esiste quindi una sorta di “età selvaggia” dello Stato che si ripropone oggi nella assoluta, piena, conclamata modernità di democrazie date per acquisite sul lungo periodo storico e proiettate in un futuro tutt’altro che certo? Se per civiltà intendiamo il consolidamento dei valori e dei princìpi propriamente liberali e democratici, non c’è ombra di dubbio sul poter affermare che ci troviamo in una fase di recessione da questo punto di vista. L’opposizione all’affermazione dei governi di destra estrema, tanto in Europa quanto in America, tanto in Africa quanto in Asia, non trova al momento una internazionalizzazione capace di federare le lotte.

La sinistra, come fenomeno politico e partitico del progressismo sociale e la voglia di eguaglianza, si situa così nel punto più basso della sua sconfitta storica postnovecentesca. Siamo ben lontani dal rimettere anche soltanto in discussione le diseguaglianze come un qualcosa di profondamente ingiusto sul piano etico; questo perché ci allontaniamo sempre di più dalla condivisione globale dei problemi e le soluzioni tentate sono affidate al “si salvi chi può” di questo o quel polo di attrazione dei capitali e dell’alta finanza.

Lo Stato forte non è oggi sinonimo di preservazione dei diritti sociali, di tutela dei beni comuni, di ampliamento dei diritti civili ed umani. Semmai è il contrario. Dove più forte è il potere governativo, lì si annidano grovigli di interessi che giocano su più tavoli la partita di una globalizzazione spietata in cui le grandi potenze del multipolarismo, rinnovato e rinvigorito dai tanti conflitti regionali, aprono la scena ad una fase completamente nuova: la forbice del reddito, tra nord e sud del mondo, si è ampliata a dismisura e queste diseguaglianze si tengono a bada con teorizzazioni razziste, esaltazioni nazionalistiche e mettendo i poveri gli uni contro gli altri.

Stando a quanto ci è dato vedere sino ad ora, la teorizzazione della decrescita è destinata a rimanere tale se la si tenta di applicare nel sistema capitalistico moderno. La politica dei dazi imposta da Trump non è fatta per limitare i danni di altre economie nei confronti di quella americana: semmai per attrarle nella sfera di influenza a stelle e strisce. Che cosa va affermando il presidente-magnate da giorni e giorni? Il fatto che, se le grandi industrie vogliono scrollarsi d’addosso i dazi doganali, allora dovranno trasferire le loro produzioni nella grande Repubblica MAGA. La decrescita – ci insegna Saitō Kōhei – è un provare a frenare un capitalismo «che si è spinto troppo avanti».

La decrescita mette al primo posto il rapporto tra animalità (quindi tra tutti gli esseri viventi, umani e non) e natura. Il capitalismo fa l’esatto opposto. Il trumpismo, poi, è l’esasperazione di questo opposto e pur di continuare a negare le contraddizioni “naturali“, oggettive, che si concretizzano nei tanti disastri che piombano sulle città in forma di precipitazioni atmosferiche, tsunami marini e temperature completamente fuori controllo rispetto anche soltanto a qualche decennio fa, è disposto ad affermarsi come riscoperta dei valori di un libero mercato che, in realtà, così nega sé stesso perché propone l’unipolarismo che, oggi, del tutto obiettivamente, è un capitolo superato.

La questione dei dazi, quindi, è sì una guerra economica, ma è difficile poter davvero anche solo pensare che, come è nella natura del capitalismo – storicamente inteso e dato – , sia una sorta di processo propulsore per la creazione di nuovi mercati. Di sicuro c’è che aumenteranno le sottrazioni delle risorse naturali al pianeta, che coloro che vivevano già in regimi di povertà non potranno che constatare l’aumento dei questi indici di diseguaglianza. Ci sarà una parte del mondo che tenterà, proprio sostenuta dalla filosofia MAGA, di ottenere molto di più di quel che le spetta e per farlo sarà capace di andare ben oltre la guerra commerciale.

A cosa servirebbe mai il riarmo a tutto spiano di piccole, medie e grandi potenze se non per testare il successivo passo del posizionamento nel nuovo scacchiere internazionale e prepararsi alle guerre vere e proprie? Quello che davvero deve spaventare è l’impossibilità per tutti questi criminali contro l’umanità di avere un briciolo di considerazione etica di sé stessi, degli Stati che amministrano e degli interessi che proteggono. Non ci si può appellare a nessuna creanza umana, a nessuna buona volontà di Trump o Vance, così come a nessuna intelligenza e buon senso di von der Leyen o Rutte. Tanto vale anche per Putin e Xi Jinping, nonché per Milei o Orbán.

Come lo ha molto bene definito Saitō, questo è il «capitalismo dei disastri» che è, quindi, un salto ulteriormente negativo rispetto al capitalismo storicamente conosciuto, quello delle diseguaglianze che doveva vedersela con un movimento internazionale degli sfruttati oggi atomizzato e privo della sua, davvero importante, missione globale e locale al tempo stesso. Se la domanda è: saremo tutti più poveri?, la risposta diviene questa: sì, ma non coloro che oggi realizzano le premesse perché il novantanove percento dell’umanità lo diventa nell’immediato domani.

MARCO SFERINI

8 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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