“Le bonheur est une idée neuve en Europe” (Saint Just)
Si dice che viviamo nel tempo del “rancore”, ossia in una fase storica nella quale la rabbia e l’indignazione, invece di prendere la strada della rivolta collettiva, implodono nel risentimento individuale, nella rabbia repressa e nei mille problemi interiori da essi derivati.
Se nella seconda metà del Novecento era possibile, grazie ai grandi corpi intermedi, partiti e sindacati, ma anche associazionismo e circoli culturali, dare una dimensione collettiva a tali problematiche interiori, peraltro determinate, allora come ora, da situazioni esterne,fossero esse la divisione internazionale del lavoro, l’accesso alle professioni, il ruolo politico, economico e sociale del singolo, oggi il “cittadino globale”, sempre più globale e sempre meno cittadino, si trova da solo su una piccola zattera a navigare circondato da tante altre zattere, alcune più grandi, altre semplici legni a cui sta aggrappata un’umanità ancora più dolente della sua, senza riuscire a tendere la mano, col grido d’aiuto e d’esistenza soffocato dentro ancor prima che nasca.
Ed è su tale solitudine che si sviluppano le intolleranze, dapprima piccole, magari contro il vicino rumoroso o contro l’automobilista che ti ha sorpassato in malo modo, poi sempre più grandi, contro la politica, contro la società, contro il capro espiatorio di turno, sino a trasformare antropologicamente quello che era un animale desiderante e sociale in un essere disperato ed asociale, quando non antisociale.
Di fronte a ciò, la politica tradizionale, anche quella mossa dalle migliori intenzioni, è come minimo un’arma spuntata, sia perché essa, in quanto fatta da donne e uomini in carne ed ossa, non è esente dalle contraddizioni del presente, esistenti anche in seno alle menti più illuminate, sia perché oggi i rapporti di forza economici ed ideologici alla base del modello sociale che crea infelicità – perché di modello socialmente e storicamente determinabile si tratta- sono talmente sbilanciati dalla parte del capitale e del suo dominio onnicomprensivo, che persino i linguaggi delle grandi masse di individui (apparente ossimoro) sono stati deprivati della capacità di progettare la propria esistenza, sostituita da un eterno presente- assente (altro ossimoro apparente) in cui, come anime in pena, miliardi di individui che non si pongono domande vagano per il Pianeta a “movimento mistero”, come si diceva di quei giocattoli degli anni Ottanta che si muovevano a caso, andando a sbattere contro tutti i muri che incontravano.
Prendere atto di tale desolante situazione, ed affrontarla non avendone paura, pur sapendo che si tratta di un quadro a dir poco spaventoso, costituisce dunque un avanzamento:l’ammissione di una realtà che non ci piace, in quanto prima vittoria contro la rimozione dei traumi, è già un grande passo, seppure infinitamente piccolo rispetto all’immensità del nodo storico che abbiamo da sciogliere, ossia la retrocessione dell’umanità alla premodernità ed alla prepolitica, dopo due secoli di costruzione di una dimensione collettiva e di diritti, a partire da quel vicino e lontano 1789, quando si scopriva che la felicità è un’idea nuova in Europa, come diceva Saint Just, constatazione che sembra ricordare tanto anche il Maggio parigino del 1968, e che mostra come tutt’ora ci troviamo all’interno di un lunghissimo ciclo storico, seppure in una fase di pericolosissimo tramonto dello stesso.
Ultimi degli ultimi due secoli e primi del secolo nuovo: da questa scomoda posizione assistiamo alla fine di un mondo e cerchiamo, impauriti e soli nella personale caverna platonica in cui ci ha gettato la postmodernità, di scorgere le forme che indistinte si muovono come tante mute ombre oltre la soglia. Che si muovono… eppur si muovono.
ENNIO CIRNIGLIARO
16 febbraio 2018
foto tratta da Wikimedia Commons