L’estremismo, malattia infantile del comunismo

Tutto attorno a “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” (edizioni varie) di Lenin sta l’aura opprimente del postbellicismo della Grande guerra, di un mondo in completa trasformazione, in cui l’opera...
Lenin

Tutto attorno a “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” (edizioni varie) di Lenin sta l’aura opprimente del postbellicismo della Grande guerra, di un mondo in completa trasformazione, in cui l’opera della II Internazionale si inserisce per dare un ordine alle variegate posizioni dei partiti comunisti di ogni singolo paese.

Più ancora, il centro della polemica riemergente sul terreno prettamente tattico, di una politica che voleva avere la strategia di lungo corso del superamento del sistema di produzione capitalistico, è quello dell’opportunità delle alleanze a sinistra, del compromesso che Lenin legge sulla falsariga della compromissione, intendendo l’esempio del bolscevismo russo non tanto come unica, rivelata verità rivoluzionaria, ma certamente come punta di diamante di un processo in divenire e che – su questo non merita alcun biasimo – sarebbe dovuto essere sostenuto da tutte le forze comuniste sparse per il mondo.

Nell’affrontare, ad esempio, la situazione tedesca, estremamente singolare, in un dopoguerra in cui la democrazia di Weimar fatica a farsi largo tra il capestro di Versailles e la esponenziale crisi economica che devasta in particolare i ceti meno abbienti e il proletariato, Lenin polemizza in merito al retaggio luxemburghiano di un programma politico spartachista che, giustamente, ritiene non coniugabile un partito leaderista con un partito, invece, di massa.

La contrapposizione non è oziosa, nonostante Lenin tenti di farla passare come una sorta, appunto, di “infantilismo” estremista.

Si tratta di capire proprio il “che fare” prima, durante e dopo l’eventualità della rivoluzione socialista. Secondo i comunisti tedeschi necessario è un partito che non miri alla “dittatura dei leader del proletariato“, ma alla presa del potere da parte di quest’ultimo e alla gestione di una fase di transizione dove si renda incontrovertibile il ritorno ad una politica di compromessi tra lavoro e capitale, ad un nuovo interclassismo socialdemocratico.

Tra l’altro, qui stava la grande inconciliabilità tra il partito d’avanguardia leninista e quello invece diffuso e anticipatore della nuova società già tra i lavoratori e tutti gli sfruttati nel suo divenire quotidiano, nell’essere partito-massa, descritto da Rosa Luxemburg come una precostituzione sociale, civile e morale di una nuova era dell’umanità e, in questo contesto, del popolo tedesco.

Contrariamente a quanto obietta Lenin, Luxemburg e Liebcknecht non sono ciecamente rivolti ad un esclusivismo narcisistico, ad una tensione politica che riguardi soltanto i comunisti “di sinistra” ed escluda qualunque dialogo con le altre formazioni del progressismo tedesco.

Ma la linea invalicabile è quella della decisiva formazione di una consapevolezza critica del proletariato affinché, senza votarsi ad un messianico e laicamente religioso devozionismo verso i capi partito, abbia la coscienza necessaria per tracciare da sé stesso la via della liberazione dalla schiavitù del profitto e dello sfruttamento.

Lenin ricorda la condizione inglese dei lavoratori, proprio parlando del rapporto tra “masse” e “capi“: cita gli scritti di Marx ed Engels a proposito, sulla nascita della cosiddetta “aristocrazia operaia“, fulgido esempio di divisione della classe operaia ad opera della borghesia, ripetutosi in tutti i paesi europei soprattutto dopo la fine del primo conflitto mondiale. Ma, alla fine del ragionamento, si perde in un liquidazionismo spicciolo, bollando il tema posto dai comunisti tedeschi come assurdo e confuso.

In realtà, proprio dall’esigenza di capire se si possa gestire una grande massa critica, dirigendola verso una alternativa di società dentro la società stessa in cui essa stessa vive e con cui deve fare i conti, nasceranno le contraddizioni tra riformismo e rivoluzione, tra moderatismo ed estremismo. Senza voler semplificare troppo, va comunque sottolineato che la vittoria dei bolscevichi in Russia è il combinato non disposto tra una organizzazione crescente del partito e una assoluta impreparazione delle masse.

Attraverso la deflagrazione bellica il partito leninista riuscirà ad intercettare il malcontento del proletariato al fronte e di quello poi delle grandi città, lasciando fuori dal coinvolgimento rivoluzionario troppa parte del lavoro agricolo, del mondo rurale (di certo di non secondo ordine nella Russia di allora).

L’estremismo” di Lenin mette sotto la lente acuta della sua critica le posizioni altrui, non esalta quelle dei bolscevichi, forse per un autolimitazione convenevole al programma della II Internazionale, di riunire quindi il maggior numero possibile di partiti comunisti attorno all’esempio bolscevico e alla vittoria dello Stato dei lavoratori in Russia, ma è ostracistico nei confronti della critica al verticismo, alla dirigenza che sovrasta il proletariato e che se ne separa burocraticamente, facendosi regime, trasformando il partito in un corpo dominante e di potere.

Rosa Luxemburg osserva con grande acutezza i rischi di una involuzione autoritaria in tutto questo, ben prima della fine della Grande guerra, ben prima dell’opuscolo scritto da Lenin. Nel suo “esame critico” della Rivoluzione russa, scrive: «E’ compito storico del proletariato, una volta giunto al potere, creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non abolire ogni democrazia».

Significa rispondere all’esigenza rivoluzionaria programmata dal partito, con una necessità storica delle masse di operare una trasformazione che noi sia semplicemente diretta da un pugno di capi che istituiscono il ristretto consiglio deliberativo dei Soviet, ma affidare questo compito ad una ben più vasta partecipazione popolare. La critica può sembrare ingenerosa rispetto all’enormità rappresentata, nella storia umana, dalla Rivoluzione leninista: non lo è. Perché Rosa Luxemburg è consapevole dell’emergenzialità dettata dai tempi.

In pratica, quell’estremismo che Lenin vede nel rifuggire il compromesso con una società inalienabile completamente da noi stessi, a partire dai rapporti parlamentari tra le varie forze politiche e dai rapporti tra i partiti comunisti e socialisti del momento da parte dei “comunisti di sinistra“, è contrario e speculare al tempo stesso ad un estremismo che Luxemburg scorge nell’irregimentamento del processo di rivoluzione, di superamento del capitalismo quasi esclusivamente asservito al potere statale.

L’acutezza critica della polemica fa sì che abbiano ragione entrambi, ed anche parzialmente torto. Lenin non è in errore quando assegna all’organizzazione rigidamente burocratica un ruolo di direzione politica. Luxemburg non sbaglia quando evidenzia il pericolo che tutto questo, invece di creare i presupposti di un superamento del potere stesso (borghesemente inteso, quindi rappresentativo di una classe pur nell’apparente liberalismo democratico moderno), non sortisca altro effetto se non quello di evitare la vera espressione popolare della rivoluzione.

Il che vuol dire pensare ed agire capovolgendo il passato e non ereditandone anche solo un granello di perniciosa sapienza in tema di gestione dello Stato e del pubblico.

La critica che qui rivolgiamo a Lenin non intacca il merito politico e storico di aver contribuito enormemente a mettere fine ad una medievalità di una parte dell’umanità che era propriamente sinonimo di servitù della gleba, di divisione asperrima in classi sociali che hanno mirato comunque al potere e ad un suo ammodernamento. Il socialismo, come risposta alla crisi dello zarismo, era probabilmente la meno quotata in quel tempo: il tentativo di Kerensky ne è una evidente, fallimentare, trasposizione pratica.

Il timore del successo della Rivoluzione d’Ottobre, comunque, non è, ovviamente, per i contemporanei, assimilabile ad una soddisfazione per la vittoria di forze “moderate“, contrariamente all'”estremismo” che Lenin addita e stigmatizza nel suo scritto riferendosi ai partiti comunisti di mezza Europa. Tutto è relativo, ed in particolare nella correlazione tra mondo propriamente vissuto ogni giorno e mondo politico che dovrebbe riuscire ad interpretare e modificare in meglio il primo.

L’estremismo cui fa riferimento Lenin è parte di una critica tutta interna al movimento comunista, alla II Internazionale e ai suoi sviluppi. Per cui, anche nel considerare semanticamente il riferimento politico all’estremizzazione di concetti e pratiche, va tenuto conto questo punto fondamentale: la diatriba è tra due (e più) visioni differenti (ma non per questo necessariamente diametralmente opposte) di una tattica che sta comunque in una strategia comune: il comunismo.

Quell’assalto al cielo in cui, per Lenin, Rosa Luxemburg è un’aquila che giganteggia “nonostante i suoi errori“. La Storia distribuisce torti e ragioni, ma ci mette semmai davanti a tante esperienze di cui fare tesoro per evitare di ripetere ciclicamente quegli errori già commessi in abbondanza.

Leggiamo, dunque, Lenin, approvandolo o meno nelle sue scelte tattiche, nelle sue decisioni politiche dettate, senza ombra di dubbio, da una sincera consapevolezza di ciò che allora riteneva più giusto per il proletariato russo e per la rivoluzione mondiale. Leggiamolo criticamente ma sapendo bene di avere tra le mani, oltre che un testo politico, anche un bel pezzo di Storia del Novecento. Un frammento, almeno, di quella conquista del cielo che è ancora tutta da ritentare.

L’ESTREMISMO, MALATTIA INFANTILE DEL COMUNISMO
LENIN
EDIZIONI AC
€ 6,00

MARCO SFERINI

8 febbraio 2023

foto: particolare della copertina del libro

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