Ieri parlavo della “bellezza” del linguaggio espressa nella gentilezza umana. Lo facevo con un amico francese. Gli spiegavo che in Italia, ma forse un poco in tutto il mondo, l’essere gentili, di una gentilezza priva di accessori ruffianici, è ormai una forma di espressione singolare molto lontana dall’essere comportamento comune, disposizione dell’uno verso l’altro naturalmente espressa.
Oggi, la gentilezza fa parte di quelle virtù rare etichettate come “debolezze” dell’individuo: ed è per questo che la società in cui ci troviamo a vivere essendo sempre meno rispettosa dell’altro rispetto a noi, è una società abbruttita dall’individualismo esasperato, dalla concentrazione dei diritti in noi stessi che li interpretiamo come prerogativa non universale ma strettamente particolare.
Succede quando le crisi economiche aprono voragini di disperazione e in questa si innestano malepiante di razzismo, xenofobia, di avvitamento su sé stessi e di dimenticanza, di oblio vero e proprio di ciò che ci circonda.
Una sorta di istinto di autoconservazione distorto, malato di protagonismo e di evidenza personale all’ennesima potenza, prende il sopravvento supportato dalla necessità di primeggiare sugli altri per sopravvivere: vivere è tutt’altro, non si avvicina nemmeno lontanamente alla disperazione con cui oggi milioni di persone fanno il paio ogni giorno. Se la tengono accanto, la coccolano e la scambiano per una fedele amica, pronta a suggerire loro di chi diffidare per proteggere ciò che non abbiamo o che rischiamo di perdere.
La presentazione di una società della disperazione è fatta tanto dai populisti moderni che governano il Paese quanto dalle opposizioni: in due momenti distinti della giornata, in una domenica solitaria, ho ascoltato le parole provenienti dalla Leopolda e dal Circo Massimo.
La gentilezza, questa grande assente: perché anche nei toni colloquiali e pseudo-dialoganti dell’ex presidente del Consiglio – ovviamente toni da comizio – mancava quella sincerità che è bellezza, che quindi è gentilezza.
Se il comizio ha una sua rispettabilità, contenuti a prescindere, lo spettacolo del comico diventa irrispettoso quando è infarcito non solo di parolacce ma di tanti, troppi luoghi comuni e la comunicazione indiretta (ma diretta) del proprio dire come della discoverta delle Americhe nuove, di chissà quali verità rivelate e occultate fino ad ora dal complotto mondialista della multinazionali.
Le parolacce, sante parolacce, le diceva anche Carmelo Bene ma rientravano in uno stile teatrale quando andava da Costanzo che trascendeva il teatro perché era in un teatro ma non “recitava” perché non citava nulla: esprimeva solo tutta l’inadeguatezza umana nella grande impresa, titanica e pantagruelica, divoratrice di un sapere infinito, della risoluzione della problematica “vita”.
Non essendoci soluzione, rimanendo tutti i dubbi che restano dall’origine dell’essere umano sulla terra, ciò che possiamo fare per vivere meglio è appunto essere felici.
A questo dovrebbe puntare l’arte della politica attraverso proposte, idee e concretizzazione delle medesime con una volontà di realizzazione del benessere comune.
Invece, chi ha attaccato la Costituzione nel dicembre del 2016 con un referendum che la stravolgeva è diventato ora il difensore della Carta. Chi l’ha difesa (insieme a noi comunisti, a Forza Italia e altre formazioni, con una eterogenesi tremenda) ne diviene un accusatore: vuole modificare l’insieme dei poteri del Presidente della Repubblica, ridimensionarne il ruolo senza far seguire a queste affermazioni i nomi degli enti istituzionali su cui dovrebbero ricadere quelle che sono oggi le prerogative del Capo dello Stato.
Chi ha difeso i valori della Costituzione oggi fa battute veramente infelici, penose, avvilenti sugli autistici: parla di malattie mentali e di autismo come se fossero categorie negative, come se si potesse attribuire al disagio psicologico e fisico un contorno di bruttura, attribuendolo ai negoziatori dei grandi capitali finanziari, alle agenzie di rating, a chi dà le pagelle economiche ad una Italia veramente povera. Povera sotto tanti aspetti: economico, politico, morale, sociale, civile, linguistico, culturale…
Chi lo sa cosa siamo! Magari anche io che sto scrivendo in questo momento sono autistico, bipolare senza saperlo… Che diavolo ne so dei miei sbalzi d’umore durante la giornata! Forse qualcuno di voi può escludere di essere autistico? Può davvero attribuire tutti i suoi comportamenti ad una grande e potente, fenomenale, naturale “normalità”?
Vista l’arroganza che è prepotenza, che è orrorifica (per questo la gentilezza continua a fare coppia con la bellezza e ad opporsi diametralmente a tutto ciò), che esprime molto bene la naturale propensione umana all’odio (“Fossimo così capaci di provare l’odio, l’unico vero sentimento umanoide“, affermava sempre CB) coltivata dalle destre sovraniste in tempi di crisi economica così felici per chi vuole costruire il consenso sull’ignoranza dei fatti, facendolo aderire alla percezione delle mere sensazioni; visto che è facile ridere e far ridere senza che ci si accorga di aver magari colpito la sensibilità di chi è un difensore della Costituzione e della figura del Capo dello Stato (ma questo può avere una “logica” almeno politica nella dialettica e nello scontro democratico); visto che che è facile ridere e far ridere senza che ci si accorga – da parte di chi ride – che ci sono esseri umani uguali a noi che soffrono per certe malattie invalidanti, allora, evitando di voler condannare il riso come i monaci de “Il nome della rosa”, forse possiamo dire che più che ridere bisogna guardare al governo del Paese, dove non c’è davvero nulla per cui vale la pena ridere.
Un tempo i comizi erano veemenza, erano tono di voce che s’alzava e si abbassava a seconda del concetto espresso e dell’importanza che doveva rappresentare nell’uditorio per provare legittimamente a coinvolgerlo in un progetto politico: fosse anche stato per quella “trascurabile” azione che è la conquista del diritto di voto espresso nelle urne.
Ma i comizi un tempo erano anche gentili: erano arte oratoria. Non erano espressione di attacchi personali, ma scontro di idee, tra quelle meravigliose forme di aggregazione sociale che erano le tanto vituperate ideologie.
Oggi le idee hanno lasciato il passo all’individuo che attacca un altro individuo; un capo che attacca un altro capo. Spazio per la proposta politica ce n’è solo se al centro della proposta stanno categorie di persone da ritenere nemiche del popolo italiano per “razza”, “etnia”, cultura, religione, costume, eccetera…
Le visioni del mondo, per il mondo, per un futuro diverso dal presente, sono escluse dalla politica che non è altro se non costruzione di artefatti luoghi di ritrovo in una unità di intenti che diverge da singolo a singolo, che tiene uniti nell’interclassismo gli interessi più differenti e contrari tra loro.
La gentilezza non può avere spazio in questo tipo di mondanità della politica, di fuga dalla civicità, dalla comprensione dello Stato politico, repubblicano e laico in cui viviamo. Ancora forse per poco.
Tutto lentamente si trasforma e gli spazi di libertà vengono ristretti: ci si abitua ad un linguaggio severo, duro, muscolare, fatto di spigoli e non di curve dialettiche che incontrino davvero le esigenze dell’altro diverso da noi ma appartenente alla medesima classe sociale.
Nemmeno si nomina più la “classe sociale”: esistono sono le persone, nemmeno i “cittadini” giacobinamente intesi.
La gentilezza, che se sincera è bellezza, è come noi comuniste e comunisti: un’estranea in patria, una immigrata del pensiero, una migrante delle sensazioni, una aliena sulla terra.
MARCO SFERINI
23 ottobre 2018
foto tratta da Pixabay