L'”esportazione della democrazia” israeliana: obiettivo Iran

La guerra mossa da Israele contro Hezbollah e il Libano (la distinzione vale fino ad un certo punto, ma è comunque necessaria per comprendere meglio la situazione mediorientale attuale)...

La guerra mossa da Israele contro Hezbollah e il Libano (la distinzione vale fino ad un certo punto, ma è comunque necessaria per comprendere meglio la situazione mediorientale attuale) inevitabilmente rimanda al parallelismo di quella portata contro la Striscia di Gaza. Nessuno credo voglia, e tanto meno possa, negare il fatto che questo ulteriore fronte aperto da Netanyahu e dal suo gabinetto bellico sia un obiettivo da lungo agognato e preso oggi in prestito dall’avvicendarsi dei punti e contrappunti missilistici susseguitisi in questi mesi.

Dopo aver spianato le città della Striscia, dopo aver fatto oltre cinquatamila morti e aver ferito gravemente oltre duecentomila palestinesi, Israele, nel mentre fronteggia gli Houthi yemeniti con attacchi mirati, mentre dà ancora più mano libera ai coloni in Cisgiordania, si dispone sul campo ad affrontare un nuovo capitolo di una guerra asimmetrica, senza che vi sia dietro a tutto questo un benché minimo piano di interlocuzione diplomatica e di pace.

Gli unici attori arabi della regione con cui esiste un dialogo rimangono Giordania ed Egitto. Dopo il 7 ottobre 2023, i patti di Abramo sono crollato sotto il peso dell’attacco criminale di Hamas ai kibbutz. Quei milleduecento e più morti, frutto di una mentalità omicidiaria e terroristica, fanno il paio con una mentalità altrettanto criminale e altrettanto terroristica: quella del governo israeliano. L’invasione del Libano è, se si osserva in contesto internazionale, pari pari a all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

Soltanto che il metro di valutazione etico-politico-militare qui cambia, se si tratta di vedere il tutto sotto la lente dell’occidentalissimo asse che unisce Tel Aviv, NATO e Stati Uniti d’America: perché, a differenza di tutte le contromosse adottate contro la Russia, Israele pare di godere di uno status privilegiato di democrazia da difendere, di presidio del mondo libero in un contesto arabo in cui i nemici sono pronti a farla finita con lo Stato ebraico. Due pesi, due misure. Perché la morale è doppia e conveniente da un lato, sconveniente dall’altro.

La guerra contro Hamas, ugualmente a quella mossa ora contro Hezbollah, è un conflitto letteralmente non simmetrico: qui non siamo in presenza di due Stati che si affrontano seguendo – si fa per dire… – le regole del diritto internazionale. Qui siamo innanzi a due formazioni politiche e militari autorganizzate, che ricevono finanziamenti dall’Iran, da altri paesi del Golfo Persico e da monarchie ricchissime che fanno affari con Washington quando si tratta di gas e petrolio, e poi dirottano parte dei loro interessi sulla causa palestinese.

Meno su quella dello sciitismo. Le differenze religione hanno il loro peso e lo si vede marcatamente se si osserva la lista dei sostenitori di Hamas rispetto a quella di Hezbollah. Ma la similitudine rimane ed è ancora più rafforzata dal conflitto esploso dopo il 7 ottobre. Dopo un anno di azioni genocidiarie, Netanyahu parla apertamente al mondo: l’obiettivo è liberare il “popolo persiano” dal regime degli aytollah e, quindi, dare anche al popolo israeliano quella pace che merita.

Peccato che ne siano esclusi i palestinesi che, da oltre cinquant’anni, sopravvivono in prigioni a cielo aperto, sotto un regime di vero e proprio segregazionismo razziale, visto che la terra contesa sembra destinata ad avere due nomi e due popoli ma un solo conquistatore di tutto e di tutti. La colonizzazione della Cisgiordania è, così, la migliore cartina di tornasole per avere chiara la situazione in merito: i più radicali ebrei ortodossi, i sionisti più intransigenti hanno provocato centinaia di morti, cacciato i palestinesi dalle loro abitazioni, espanso le loro colonie.

Israele muove guerra a Gaza, nella West Bank, contro gli Houthi e contro Hezbollah perché tutti questi attori di una scena insanguinata giorno dopo giorno sono, in qualche modo, punti di riferimento della Repubblica islamica iraniana. L’obiettivo è la vecchia Persia: farla tornare al tempo in cui Khomeini era in esilio a Parigi, laicizzarla o, comunque, renderla inoffensiva nella sfera di influenza occidentale e, dunque, americana.

Non è una impresa facile. Nemmeno per gli Stati Uniti che si considerano tutt’ora – e sono – una potenza mondiale che, però, dopo aver seguito i piani di espansione imperialista di Bernard Lewis nel corso degli ultimi decenni, hanno potuto constatare sul campo tutti i fallimenti seguiti alle guerre fatte nel nome dell'”esportazione della democrazia“: dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Somalia, fin dentro quel rivolgimento pseudo-rivoluzionario delle primavere arabe che hanno regalato ai loro paesi nuovi autocratici regimi.

In ognuna di queste occasioni, create ad arte col presupposto della lotta ad un terrorismo che, poi, si è rivoltato contro i suoi creatori e padroni (quindi contro la Casa Bianca), il problema iraniano è sempre stato al centro o, comunque, attenzionato da amministrazioni a stelle e strisce che volevano mettere le mani su una vasta area di interscambio commerciale, finanziario e di grande importanza strategica per il dominio imperialista globale quel è il Medio Oriente, crocevia tra Europa, Africa ed Asia.

Lo scontro in Palestina, però, con l’avvitarsi su sé stesso nel corso dei decenni, è divenuto un conflitto senza una prospettiva, senza una chiara definizione stessa degli obiettivi dei contendenti. Per venire alle soglie del tragico 7 ottobre 2023, la politica isralieliana, in prossimità della conferma e dell’ampliamento dei patti di Abramo, ha provato a mantenere un equilibrio in un mondo arabo diviso che, prima o poi, avrebbe reclamato per sé stesso un ruolo nello scenario internazionale.

La questione palestinese, oggettivamente, in parte prescinde da questi presupposti perché è sia una questione nazionale sia un tema di importanza regionale che rimane collocato entro piccoli confini, in un lembo di terra tra il Giordano e il Mediterraneo e che, tuttavia riguarda e informa la complessità dei rapporti tra le tantissime fazioni esistenti ancora oggi entro i singoli paesi dell’area e dell’ex Arabia felix. A questo proposito basta osservare il ginepraio di forze che si contendono la sovranità sullo Yemen e il controllo delle vie marittime dall’Oceano Indiano al Mare Nostrum.

Gli stessi interessi comuni tra Hezbollah e Iran non sono poi del tutto semplificabili in una perfetta condivisione di intenti e di obiettivi. Le divergenze esistono ma, senza ombra di dubbio, sono nettamente inferiori a quelle che possono intercorrere tra i gruppi sciiti e la monarchia saudita o, peggio ancora, con quegli Emirati Arabi Uniti che, sempre più, sono il diretto interlocutore danaroso, la base più prossima prospicente le coste iraniane su cui si possa mettere le mani.

Hezbollah, che l’Iran finanzia, sostiene in ogni modo, ha da sempre rivendicato un ruolo autonomo nella sua crescita come “Stato nello Stato“, come presenza che va oltre il paramilitarismo in un Libano sovrano e indipendente. Se si leggono le dichiarazioni del governo e degli stati maggiori dell’esercito, della marina e dell’aviazione israeliani, si può facilmente avere la prova che lo Stato ebraico l’attacco lo muove ad Hezbollah e non al governo di Beirut.

Riprendendo la differenziazione scritta all’inizio di queste righe tra il Partito di Dio e il Libano medesimo, non vi è più dubbio alcuno che, maggiore diviene l’aggressività israeliana nei confronti del paese dei cedri, più esasperata si fa la condizione di milioni di persone che, per paradosso, erano fuggite dalla Siria ed avevano trovato rifugio oltreconfine, spinti dalla minaccia dell’ISIS, e che, oggi, sono costretti a ripassarlo quel confine. Uno degli altri grandi capolavori statunitensi…

La memoria corta del nostro mondo occidentale è un comodo alibi per dimenticare i fatti di questi ultimi decenni. Quando le truppe del califfato nero minacciavano quello che avrebbe dovuto essere il “democratico” Iraq, furono proprio gli iraniani, unitamente agli sciiti iracheni e anche ad Hezbollah, a fermare l’avanzata dell’ISIS verso Baghdad. Ma oggi, purtroppo, tutto questo non conta, così come non conta per la Turchia il fatto che i curdi delle milizie YPG abbiano contenuto la medesima minaccia nel nord della Siria, nella regione di Kobane.

Il potere non ha riconoscenza per niente e per nessuno, ma solo condiscendenza nei confronti di chi gli garantisce la sua perpetuazione. E questo vale per tutte le sfere di influenza locali nel nuovo multipolarismo globale. Dunque, ritornando al conflitto tra Israele ed Hezbollah, la programmazione degli omicidi mirati di quasi tutta la catena di comando del Partito di Dio, approdata all’esecuzione più eclatante, quella di Nasrallah seppellito sotto le macerie di un intero quartiere di Beirut, ha lasciato presagire la fase nuova di una politica imperialista israeliana.

Oggi, come non mai, lo Stato ebraico è circondato da una coalizione di avversari e nemici che si è creato con la pretesa di una supremazia nell’area mediorientale, evidente nel nome dato all’operazione in Libano: “Nuovo Ordine“. Però, quello che un po’ tutti gli osservatori internazionali e gli studiosi del mondo arabo condividono è l’affermazione secondo cui ad Israele manca una strategia di lungo corso. L’impreparazione in cui Tel Aviv si è trovata il 7 ottobre 2023 ha manifestato abbastanza chiaramente questa approssimazione.

La politica dell’annietamento dei propri nemici, di una riqualificazione delle forze armate, di una tensione permanente nell’area, quindi la politica di Netanyahu, Gantz e Smotrich, può pagare sul lungo termine? Quale prospettiva di sicurezza può dare al popolo israeliano l’apertura di sempre nuovi (vecchi) fronti? Il governo declama l’eliminazione di tutti i suoi storici e mortali avversari come la premessa della rinascita non solo di Israele ma dell’intero contesto mediorientale.

Ma di Gaza rimangono solo delle macerie. Mentre Netanyahu promette libertà al popolo iraniano, tiene i palestinesi in un regime di prigionia e di devastazione genocidiaria e non permette loro la costruzione di un nuovo percorso di ricomposizione dell’Autorità Nazionale in contrapposizione proprio ad Hamas. La funzionalità che questi gruppi paramilitari e jihadisti hanno avuto nei confronti degli obiettivi israeliani diviene, guerra dopo guerra, crimine umanitario dopo altro crimine, sempre più oggettivamente evidente.

La questione libanese, quindi, fa parte di questo mosaico politico-militare di espansione territoriale, statale e di egemonizzazione di una politica di rapporti bi-trilaterali che, magari ripartendo dalle precedenti relazioni con gli amici giordani, egizioni, emiratini, trovi nuovi interlocutori. L’Iran rimane, pertanto, la principale minaccia a questa pianificazione piuttosto affidata al caso che ad una strategia che, per quanto emergenziale possa essere, necessita all’avventurismo omicidiario delle destre israeliane.

Mentre muove guerra contro Hezbollah, facendo per qualche momento dimenticare che a Gaza ogni giorno si continua a morire sotto le bombe, il governo di Netanyahu mostra a tutto il mondo i suoi fallimenti: non ha sconfitto Hamas, non ha liberato gli ostaggi, non ha recuperato credito nei confronti di un asse arabo che si è frantumanto dopo l’ottobre dello scorso anno.

Se i risulati in Libano saranno uguali a quelli della campagna genocidiaria di Gaza, si può stare tragicamente sicuri che le ripercussioni in quanto ad insicurezza per lo Stato ebraico saranno ancora più esponenziali. Solo gli Stati Uniti d’America possono fermare Netanyahu e la sua guerra multilivello ed asimmetrica. Ma, siccome ogni settimana mandano enormi quantitativi di armi e di rifornimenti a Tel Aviv, tutto ci dice che la guerra continuerà e che, dietro ogni dichiarazione di ricerca del compromesso e del dialogo, c’è solo tanta, ma tanta non nuova ipocrisia.

MARCO SFERINI

3 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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