Il creazionismo, a differenza dell’approccio razionalista, sottende nemmeno poi tanto velatamente – ad esempio nelle questioni che riguardano il diritto, la Legge con la elle maiuscola, le norme e i comportamenti regolamentati – il fatto che qualunque aspetto della nostra esistenza, oltre che l’essenza medesima di noi e del “Creato“, sia una emanazione del Dio rivelato. Questo almeno per quanto concerne le religioni più attuali rispetto ai vecchi culti politeisti.
Ma, in realtà, non si tratta tanto di una differenza quantitativa di dei immaginati e proposti alle masse.
Politeismo e monoteismo finiscono con l’essere una caratteristica marginale, visto che la funzione primaria dei culti e della loro propalazione da parte delle chiese e delle organizzazioni teocratiche che se ne fanno esclusive interpreti, è quella di amalgamare credulità e cultura in un indistinguibile preparato lenitivo per le sofferenze psicologiche e fisiche.
Uno studioso non certo di secondo piano come Michel Onfray, notava, a margine delle critiche sui suoi libri che denunciavano filosoficamente il dispendio di energie mentali e corporali nel propendere per l’ipotesi-Dio da parte di miliardi di persone, come all’origine di ogni credenza vi sia sempre e soltanto il timore umano per la finitudine, per la morte, per la non-esistenza.
Questo limite, ben conservato nel subcosciente, è ancora più eclatante se si immagina il concetto di “infinito“.
Infinito temporale e quindi spaziale. L’Universo che pare a noi infinito perché le stesse distanze calcolabili dalla mente umana attraverso le scienze astronomiche sono così enormi da creare un vero e proprio cortocircuito cerebrale in chiunque. Pensare e pensarsi in una vita senza fine è – confessiamocelo – a tratti anche un po’ inquietante.
La “vita eterna” che i cattolici ci promettono dovrebbe essere un dogma, così da non dover essere nemmeno tentato nella spiegazione dello stesso. Cantavano “I Nomadi”: «Ma che film la vita, tutta una tirata, storia infinita a ritmo serrato, da stare senza fiato». Storia infinita perché l’eterno ritorno nietzschiano fa capolino nella quotidianità della ripetizione delle nostre esistenze: uguali e dissimili nello stesso instante.
Ognuno di noi è singolare, eppure somiglia nei comportamenti e nelle azioni a tutti gli altri. Dalle emozioni ai tratti somatici; dalle sensazioni interiori a quelle esteriori. Dal rapporto col proprio ancestralismo, che emerge notturnamente mediante le metafore figurative dei sogni, a quello dell’incontro con la realtà oggettiva, tangibile e, per questo, sensibile nel più lato significato del termine.
Quando un filosofo tenta di esporre un pensiero critico sulle religioni va – scriveva Onfray – senza alcun dubbio a toccare quelle corde sensibili che sono presenti in ognuno di noi «scatenando furie insospettate, tanto più astiose e deliranti quanto più è forte la nevrosi». Il pensiero della morte è una violenza che la natura ci fa o, per meglio dire, è un dettame che ci accompagna naturalmente.
Per cui è anche, forse, ingiusto attribuire alla maternità della natura una condanna che solamente noi esseri senzienti ed autocoscienti proviamo: questa capacità di sapere che non vivremo per sempre è all’origine di quelle che Onfray chiama “nevrosi” e che sono, quindi, il punto di appoggio su cui si solleva il mondo delle inquietudini esistenziali. Le domande sull’esistenza di dio fanno parte di questa ansia di rassicurazione.
Per come ci è stato raccontato fino ad oggi, dalle tante credenze inventate dagli animali umani (cioè noi “esseri umani“), dio è l’esatto opposto nostro: mentre noi siamo parziali e finiti in tutto e per tutto, lui è prima di ogni altra caratteristica ingenerato, non creato da niente e nessuno. È qualcosa che prescinde persino dal concetto di “origine“. Dio non proviene dal nulla. Esiste.
Questa esistenza va al di fuori delle categorie temporali razionalmente concepibili: prima, durante e dopo. Eppure il tempo esiste, come dimensione. Nel filone creazionistico vi è una spiegazione teleologica anche per questo: il tempo è una invenzione della divinità. Quindi noi siamo nel tempo, nel finito, perché siamo – come avrebbe suggerito Carmelo Bene – nel “possibile“, in ciò che è determinabile e prevedibile.
Dio non è prevedibile perché, sostengono i credenti, la sua volontà ci è ignota. Secondo i cristiani ci parla mediante la Bibbia. Secondo gli islamici attraverso il Corano. Secondo gli ebrei dal Talmud. Secondo altre religioni non si è magari rivelato direttamente all’umanità, ma è quello spirito che regola l’Universo e che è riscontrabile in una sacralità della natura che, obiettivamente, è molto più affascinante e credibile delle narrazioni millenarie dei monoteismi “moderni“.
Quando i filosofi si occupano di religione, tentando di decostruire le tante immaginazioni sugli dei o su un dio che sono state – queste sì – create nel corso dei secoli, li si accusa di fare della filosofia stessa un cattivo uso.
Secondo una certa branca della scuola creazionistica, compito dell’amore per la conoscenza non dovrebbe essere quello di mettere in dubbio l’esistenza di dio, tanto meno di criticarne la parola (quindi, leggasi: la funzione socio-politica delle religioni), ma di accettare il fatto compiuto.
Il fatto sarebbe l’esistenza di Dio. Una esistenza che, se tocca seguire ciò che gli esseri umani dicono di Dio, appare davvero difficile da concepire. Non tanto usando il metro della ragione, quando quello delle probabilità che ha una verità di essere assoluta rispetto alle altre che pretendono la medesima cosa.
Tre ipotesi sulla veridicità delle confessioni religiose: 1) una afferma il vero e le altre no; 2) nessuna in realtà corrisponde al vero (quindi ha una benché minima correlazione con l’esistenza di un essere supremo, superiore, divino che dir si voglia); 3) una si avvicina al vero ed altre anche, ma nessuna in realtà traduce pienamente nel reale quella che è l’essenza dell’ultraterreno, del metafisico, dell’inconoscibile.
Non solo quello che gli esseri umani dicono di Dio, ma anche queste stesse ipotesi, visto che stanno nel campo del possibile e non in quello iperuranico del tertulliano “absurdum” (che in quanto tale va quindi creduto), prescindono dal fatto – sottolineiamolo molto accuratamente – che Dio esista oppure che non esiste. Nella prima ipotesi viene, ovviamente, chiamato dai suoi stessi fedeli ad un processo per il male che sussiste e persiste nel mondo, in cui entra in campo la celeberrima “teodicea” come un Perry Mason dell’Altissimo.
Nella seconda ipotesi, ossia nel caso in cui non esista nessun dio creatore di niente e nessuno, rimane, in tutta la sua maestosità, l’immenso e infinito mistero dell’esistenza del tutto, dell’Universo e di quelle trasformazioni che lo regolano con una ripetitività che, quanto meno sul piano chimico-biologico, se si astrae il ragionamento dal contesto meramente umano, riportano all’eterno-ritorno di Nietzsche.
Noi siamo, per quanto ne possiamo sapere, gli unici esseri nei dintorni del sistema solare (spingersi oltre porterebbe al campo delle mere ipotesi e non più all’affermazione di un dato concreto e riscontrabile scientificamente) capaci di una autocoscienza, di una consapevolezza di ciò che c’è, dell'”essere” e di ciò che siamo qui ed ora: dell'”esserci“.
Se esiste, Dio ci scampi dall’ontologia heideggeriana che, tuttavia, per quanto inconcludente sia, non per questo risulta meno affascinante nella sua proposta novecentesca di concretezza esistenziale, già criticata dagli allievi medesimi di her professor: Günther Anders e Hannah Arendt anzitutto.
Circa la terza ipotesi, ossia entrando nel contesto di una verità plurireligiosa, che quindi ad esempio si avvicini alla verità su Dio ma non ne esprima pienamente e assolutamente tutti i crismi, si potrebbe parafrasare un pensiero di Wittgenstein che riguardava le scienze matematiche: per cui, se qualcuno arriva a risultati diversi dai nostri, non è detto che abbia sbagliato lui o che si sbagli noi. Magari la differenza riguarda il mezzo, l’approccio: l’utilizzo, quindi, di due matematiche diverse.
Quando analizziamo criticamente il fenomeno religioso e, pertanto, anche l’ipotesi-Dio, dovremmo sempre farlo partendo da una angolatura critica che si fermi sulla soglia del rispetto delle altrui convinzioni. Agnosticismo e ateismo non possono essere puntelli di presunzione tanto quanto lo sono le religioni o le organizzazioni ecclesiastiche che le sostengono.
L’elemento critico va preservato nella sua autonomia non di giudizio ma del tentativo di comprendere sempre meglio lo sviluppo stesso del fenomeno in questione; senza condanne, senza richieste di abiure magari dettate da una sorta di irrisione che non è utile al discernimento e all’esame comune di quello che noi esseri animali-umani proviamo, seppure in forme, modi e tempi differenti.
Credere nell’ipotesi-Dio non è puerile, non è infantilismo, non è un disconoscimento della razionalità. Fede e ragione possono convivere; a patto che si rispettino vicendevolmente riconoscendo l’una all’altra la pari dignità di esistere nell’ambito della complessità esistenziale umana. In fondo, dovremmo discutere più di sistemi culturali rispetto al sinteticissimo termine “religione“.
Nemmeno l’etimologia della parola è mai stata del tutto chiarita. Sembra riferirsi al verbo latino “religare“, quindi ad uno stabilimento di legami tra il credente e la sua chiesa, tra lo stesso e i precetti del suo dio. Rimangono quindi tanti dubbi e pochissime certezze. Ciò che va evitata è l’assolutizzazione anche dei termini: la religione va declinata al plurale nel momento in cui diventa sinonimo di “culto“.
Così come l’agnosticismo va declinato al plurale se lo si intende, al pari – ma ugualmente contrario – alla fede del credente, come esperienza esclusivamente personale, intima, del singolo nei confronti della propria coscienza, della propria razionalità, del proprio rapporto con il mondo e con ciò che ci comunica interiormente questo scambio empatico a tratti metafisico.
La concettualità non è riconducibile all’unicità: è, per definizione, un insieme davvero infinito di possibilità che i pensieri si incontrino, si scambino informazioni, intuizioni e presupposti creandone altrettanti e dando così seguito ad un processo conoscitivo che attinge dalla compenetrazione delle culture le risorse per evolvere e per rispettare, nel contempo, le opinioni e le credenze di ciascuno e di tutti.
La questione della molteplicità religiosa può anche essere superata dal singolo credente in questo modo. Più complicato per i rappresentanti del culto. Per intenderci: se il singolo cattolico può pensare di essere nel giusto senza anatemizzare contro l’islamico o l’ebreo, il buddista o il teosofico, il papa dovrà comunque sempre difendere la “cattolicità” della fede che rappresenta.
Cattolico significa proprio “universale“. Nella Chiesa quindi, quella che noi riteniamo per antonomasia tale, visto che siamo nati e viviamo in un Paese in cui il cattolicesimo è la forma di culto cristiana predominante, la tolleranza nei confronti degli altri culti è certamente più difficile da riscontrare rispetto al singolo credente. Ma negli ultimi decenni passi avanti in questo senso ne sono stati fatti.
Soprattutto dalle comunità cristiane di base, che guardano all’interreligiosità come ad un modo – sempre dal punto di vista del credente – per arrivare ancora di più ad una maggiore vicinanza con la divinità, ad un livello superiore di reciproca comprensione tanto tra i fedeli quanto verso Dio.
Un grande teologo tedesco, protestante, ucciso dai nazisti per la sua ferma opposizione al regime di Adolf Hitler, il pastore Dietrich Bonhoeffer ci ha lasciato sintetizzata in una frase una delle possibili interpretazioni sul come vivere la fede e la presenza stessa di Dio nella nostra vita: «Einen Gott, den es gibt, gibt es nicht («Un Dio che c’è, non c’è»)».
L’esperienza religiosa può sganciarsi dalla pretesa metafisica di una convinzione altrettanto tale e, quindi, dal dovere missionariamente apostolico di diffondere questa convinzione. L’esistenza di Dio è più facile da immaginare riferendola alla nostra coscienza (come sosteneva molto semplicemente e popolarmente Anna Magnani): nel momento in cui decidiamo, scegliamo e facciamo qualcosa rispetto ad un altra, in quell’istante utilizziamo la ragione.
Così la pensa un laico, un non religioso, un agnostico come chi vi scrive qui. Un credente, senza smentire questa asserzione, può riferire la scelta del suo agire anche ad una ispirazione religiosa che gli proviene comunque dall’analisi della propria interiorità, del proprio riferirsi a sé stesso, “dialogandosi“: egli e sé, sé ed egli.
Si può vivere senza Dio, ma si può vivere anche con Dio senza per forza dover abbracciare in tutto e per tutto una dottrina ecclesiale. La durezza dell’esistenza induce a spostare le nostre ansie e nevrosi, le nostre paure e fobie su un piano consolatorio che guardi alla compensazione ultraterrena degli affanni.
Nonostante ciò, è possibile credere senza dover per forza essere indotti a credere. Ed è possibile essere agnostici senza dover fare dell’agnosticismo o dell’ateismo una ennesima fede. Un dogma incrollabile e inconfutabile. Questo sì sarebbe fare un torto tanto alla Ragione.
MARCO SFERINI
5 maggio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria