Secondo i sondaggi e le opinioni un po’ varie che circolano, Virginia Raggi, sindaca di Roma, non sarebbe rivotata oggi dal 40% dei suoi precedenti sostenitori e avrebbe ben sette romani su dieci sul piede di guerra o, per lo meno, fortemente critici sul suo operato.
Tralascio tutte le vicende che sono intercorse e che hanno condotto alla disistima dell’Urbe verso la sua sindaca. Sono note. Il dato interessante è quello dell’elettorato grillino: il più disilluso, quello che maggiormente è indeciso oggi se dare o non dare ancora fiducia ad un movimento che si è lanciato nell’agone della politica promettendo una imperturbabilità così inarrivabile la cui conferma è stata tentata ogni volta dalla presentazione non tanto autonoma quanto proprio isolazionista di candidati e liste in corsa sempre e solo solitaria.
Una strategia che ha pagato fino ad oggi ma che ha mostrato anche la sua durezza impattante dentro il movimento stesso. Alla base di questa dinamica strategica, quindi del piano di lungo termine, è stata posta una tattica che si è necessariamente dovuta incontrare e, quindi, scontrare con tutte le maglie del potere, le sue contraddizioni e le sue tentazioni.
Va detto che è stato usato ogni mezzo mediatico per screditare una giunta che si era messa alla prova da pochissimi mesi e che è stata accolta dal resto del mondo politico come il banco di prova per far saltare proprio il banco, usando un paragone tipico delle case da gioco.
Non stupisce tutto questo e c’è voluto anche molto poco battage da parte della vis polemica generalizzata delle altre forze politiche di governo nazionale e d’opposizione romana, per mettere sotto la lente di ingrandimento le incongruenze tra coerenza e potere, tra potere e coerenza, tra affermazioni e pratiche concrete e viceversa.
Da questa lezione romana i grillini potranno se vorranno fare tesoro per comprendere che il dialogo è necessario. Non sempre, ma è una posizione sterile quella di isolarsi, rinchiudersi dentro un protezionismo delle proprie posizioni e sperare che questo le preservi dal resto del mondo, da attacchi differenti rispetto a quelli classici che si ricevono durante una campagna elettorale.
Quando si va a governare un ente pubblico, gli attacchi sono dal potere contro altro potere. Ci si accorge allora, e solo allora, che amministrare vuol dire piombare in tutte le imperfezioni che trascendono la Costituzione e che sono la vita quotidiana della politica italiana calata dentro gli interessi di un sistema economico che la condiziona costantemente.
Governare e fare opposizione sono aspetti differenti non solo sul piano dei rapporti tra partiti, ma proprio sul terreno sociale. Quando si vuole insegnare al resto del mondo la perfezione dicendo di essere la perfezione, si finisce per spingere gli avversari (e i nemici) a dimostrare il contrario con ogni mezzo lecito e non lecito.
Diciamo che noi comunisti questo passaggio di sperimentazione lo abbiamo già affrontato molte volte e siamo riusciti a superarlo. Ed è per questo che, oggi, siamo forze di minoranza. Ma è giusto così: governare senza essere in grado di condizionare efficacemente una maggioranza di governo vorrebbe dire essere soltanto un paracadute, una stampella di appoggio per forze borghesi che, altrimenti, non avrebbero la forza per gestire la res publica.
Lavoriamo, intanto, per tornare a creare quelle condizioni che ci consentano un giorno di poter essere nuovamente condizionanti senza essere condizionabili.
MARCO SFERINI
9 marzo 2017
foto tratta da Pixabay