Preceduta dalla show atomico del premier israeliano Netanyahu, avversario dell’Iran e della Mezzaluna sciita insieme ai sauditi, è arrivata la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran firmato da Obama con il Cinque più Uno nel luglio 2015.
La premessa è questa: i primi a non rispettare l’intesa sono stati proprio gli Stati Uniti, che hanno continuato a imporre sanzioni secondarie alle banche europee e occidentali che erogavano crediti all’Iran. Gli Usa hanno impedito che in Iran affluissero i capitali attesi dal governo del moderato Hassan Rohani.
Già nel mirino dei falchi del regime, il presidente Rohani sentirà ancora di più le pressioni dell’ala più radicale. Inoltre, come scrive il Financial Times, con nuove e probabili sanzioni Usa, verrà colpita ulteriormente l’industria energetica iraniana, quarto Paese al mondo per produzione di petrolio, al secondo posto per le riserve di gas.
A regime i giacimenti iraniani di South Pars avrebbero una produzione sufficiente a garantire i consumi annuali europei. Questo gas, nei piani Usa e dei loro alleati, non deve arrivare sulle coste del Mediterraneo.
Chi decide le nostri sorti strategiche nel medio-lungo periodo sta a Washington e Tel Aviv, non a Bruxelles e a Mosca e non ancora a Pechino dove, come a Pyongyang e Seul, soppeseranno con attenzione gli effetti di questa decisione Usa sul prossimo vertice tra Trump e Kim Jong-un. A prima vista non è un messaggio incoraggiante.
Come previsto è fallita la missione in Usa di Macron e Merkel di convincere Trump a mantenere l’intesa con Teheran. Potrebbe essere un risvolto positivo. L’Unione europea resterà così insieme a Russia e Cina nella posizione di poter negoziare con il regime degli ayatollah. La stessa mossa americana di annullare l’accordo lascia ancora una volta gli Usa in posizione di difficoltà: Washington soddisfa gli alleati israeliani e sauditi ma rischia di regalare a Mosca un’altra carta diplomatica. Il presidente russo Putin è in fondo l’unico leader che nella regione parla con tutti, dai siriani agli israeliani, ai sauditi, dai turchi agli iraniani.
Tutto questo ragionamento, un po’ consolatorio, è valido se non se non si allarga il conflitto siriano. Siamo al nocciolo della questione. La guerra all’Iran, sarà un mix di azioni militari e diplomazia punitiva, cioè di accerchiamento economico. Ma l’Europa, con Francia e Gran Bretagna, è già entrata, sia pure indirettamente, in guerra con l’Iran attuando con gli Usa i raid dimostrativi che hanno colpito le basi siriane – evitando accuratamente quelle russe – per punire Assad dell’uso presunto di armi chimiche (di cui per altro non parla più nessuno). In caso di escalation è difficile immaginare che Paesi come la Germania e l’Italia, soprattutto, non sarebbero coinvolte.
Questo è stato il vero successo di Trump: creare un asse atlantico-israeliano, cui noi abbiamo dato una bella mano propagandistica con il Giro d’Italia in Israele. Il naso di Bartali, canta Paolo Conte, “è triste come una salita”.
In sintesi, si è combattuto per sette anni sulla pelle dei siriani una guerra per procura contro Teheran iniziata nel 1979 con l’ascesa di Khomeini, la presa degli ostaggi nell’ambasciata Usa il 4 novembre dello stesso anno, poi sfociata nel più sanguinoso conflitto del Medio Oriente quando Saddam Hussein, sostenuto dall’Occidente e dalle della monarchie arabe sunnite, attaccò la repubblica islamica sciita il 22 settembre del 1980.
L’era della destabilizzazione, cominciata allora, è tornata oggi al punto di partenza mentre venivano disgregati gli stati arabi in competizione con Israele, come l’Iraq nel 2003 e la Siria nel 2011. E adesso tocca all’Iran che non ha mai voluto rinunciare a proclamare la propria sovranità e indipendenza.
Nella partita entrano anche il Libano, la Palestina e lo Yemen, altra guerra per procura tra sauditi, americani e iraniani. In Libano, dove si è appena votato dopo nove anni per le parlamentari, Hezbollah, alleato di Teheran, ha rafforzato le sue posizioni e si prepara ad affrontare un nuovo scontro con Israele dopo quello del 2006: qui l’Italia ha il comando del settore ovest dell’Unifil con la presenza di oltre 1.100 alpini della Julia.
La maggior parte di un elettorato disorientato da una labile classe dirigente ignora probabilmente la presenza dei soldati italiani. E ancora di più ignora che in Iran le imprese italiane, minacciate da nuove sanzioni, hanno in essere commesse per circa 25-30 miliardi di euro: posti di lavoro decisi dagli americani e da Israele, non da Roma.
Così vanno le cose in Medio Oriente. Tra guerre in atto e anniversari in corso (il 70° dalla nascita di Israele e della Nakba palestinese), accordi stracciati e provocazioni militari, si prepara a grandinare. Aprite l’ombrello se ne avete uno.
ALBERTO NEGRI
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