L’equilibrio rovesciato: debolezza internazionale e arroganza israeliana

Perché Netanyahu non si ferma? Perché il gabinetto di guerra israeliano non accetta la tregua che ha proposto ad Hamas e quest’ultima ha accettato? Perché il Presidente americano Joe...

Perché Netanyahu non si ferma? Perché il gabinetto di guerra israeliano non accetta la tregua che ha proposto ad Hamas e quest’ultima ha accettato? Perché il Presidente americano Joe Biden non riesce in nessun modo a frenare la guerra scatenata da Israele contro Gaza, contro l’intero popolo palestinese che la abita (o sarebbe meglio dire… che la abitava…)?

Perché l’ONU deve supplicare gli Stati Uniti e gli amici dello Stato ebraico affinché le risoluzioni siano anche soltanto timidamente prese in considerazione da quest’ultimo?

All’ultima domanda è un po’ più facile rispondere. Perché le Nazioni Unite sono state sostituite, nel corso di questi ultimi decenni, da un ruolo sempre più attivo e coinvolgente dei grandi attori sulla scena mondiale che hanno perseguito i loro scopi espansionistici, tanto in termini politico-militari quanto economici, facendo a meno della mediazione che non cercavano e non volevano subire.

L’ONU non la ascolta quasi più nessuno. Tutti vi partecipano, con un livello di ipocrisia davvero planetario, ma nessuno rispetta, soprattutto se è attore di un conflitto in corso, le direttive e le risoluzioni che via via il Consiglio di Sicurezza o l’Assemblea plenaria licenziano e mandano agli stessi Stati affinché siano applicate.

Le Nazioni Unite somigliano molto alla Società delle Nazioni della prima metà del Novecento e al rapporto che aveva con le dittature totalitarie. Mussolini proclamò l’autarchia, fece uscire l’Italia dal consesso nel 1937 e dichiarò che l’impero era necessario.

Roma se ne andò per via della guerra criminale contro l’Etiopia. Invece Tokyo decise di abbandonare la Società perché non erano gradite le interferenze sul conflitto che in quel momento agitava la Manciuria, di cui l’impero del Sol levante si era appropriato con un intervento aggressivo, con una vera e propria invasione.

Che cosa se ne deduce? Che le crisi internazionali che hanno alla loro radice la guerra sono i passaggi storici in cui il diritto internazionale, allora nascente, oggi piuttosto scafato, subisce dei contraccolpi quasi mortali.

La Russia da un lato, Israele dall’altro, pur essendo membri dell’ONU, e l’una anche membro permanente del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto sulle risoluzioni proposte, non rispondono alle decisioni prese dalla comunità internazionale in quel consesso.

Dunque, se esiste un diritto che si possa ancora definire tale, lo è soltanto sulla carta, perché, non essendo le Nazioni Unite un organismo statale, non ha la forza per poter far applicare la risoluzioni. Gli manca il potere politico sostenuto da quello militare.

Ed infatti, la funzione dell’ONU tutto avrebbe dovuto essere tranne quella di sovraordinarsi agli Stati. Semmai di riunirli, farli parlare, dialogare e convivere pacificamente o di risolvere le controversie mediante delle forze di interposizione stabilite di volta in volta con una composizione multilaterale, intergovernativa, capace, mediante il coinvolgimento comune, di fare in modo che le terze parti riuscissero a mettere un freno all’esasperazione dei conflitti.

Nel giro di pochissimi anni si sono capovolte le prospettive: mentre Macron riteneva – e lo dichiarava a gran voce – che la NATO fosse corpo morto che cade, in pratica una alleanza destinata alla cadavericità imminente, pareva aver ripreso spirito di iniziativa e di gestione delle questioni transnazionali proprio il Palazzo di Vetro a New York.

Nonostante le tante guerra prodotte artatamente con il presupposto della lotta delle democrazia occidentali contro il terrorismo jihadista, l’ONU aveva conosciuto una rivalutazione della sua necessità.

Con la comparsa del livello multipolare moderno, negli ultimi dieci anni almeno, questa ricalibratura tra alleanze militari e organizzazioni internazionali si è completamente ribaltata. La guerra in Ucraina avvampa perché sono state create le premesse per suscitare la reazione brutale dell’Orso russo.

È proprio l’Occidente ad avvicinarsi militarmente ed economicamente alla sfera di influenza di Mosca, a mostrarsi in tutta la sua pretesa di espansione imperiale. Il tempo delle promesse di non avanzare di un centimetro verso Est con i confini dell’Alleanza atlantica sono ormai lontani.

L’Alleanza avanza e arriva proprio ai confini con la Russia. Così come passano i tempi delle promesse di Israele di lasciare che i palestinesi di Gaza si governino da soli. Netanyahu, dopo aver sostenuto con i suoi governi il nascente protagonismo del nazionalismo islamista di Hamas, abbandona la Striscia al suo destino di radicalizzazione antisociale.

E nonostante questo, il movimento di Haniyeh mantiene nel piccolo lembo di territorio palestinese un livello di sopravvivenza che, viste le condizioni miserande date, pare quasi incredibile.

L’ONU, nel frattempo, in questi ultimi quindici anni, approva risoluzioni che condannano la potenza occupante israeliana: dalla colonizzazione brutale e forzata in Cisgiordania fino all’isolamento della Striscia di Gaza che diviene un recinto in cui vivono milioni di persone impossibilitate ad uscire, prigioniere dentro un piccolo mondo che riceve aiuti dai paesi arabi, che non conosce altro se non la propria infelicità, la propria frustrazione, la propria impossibilità a vivere una vita degna di questo nome.

Fanno sorridere i commentatori che elogiano Sharon per il ritiro delle truppe israeliane e lo smantellamento delle colonie da Gaza. Certo, fu una decisione politica coraggiosa, controcorrente, che suscitò malumori non da poco in tutto lo Stato ebraico.

Ma quello che ne seguì, anche complice la sorte che male incolse il capo del governo entrato in un lungo stato di coma dovuto ad una grave emorragia cerebrale, non fu la prosecuzione di questo presunto cambio di strategia, di rientro di Israele nei suoi confini precedenti il 1967.

Quello che ne seguì fu l’esatto contrario. All’asfissiante controllo che Israele mantenne ai bordi di Gaza, si aggiunse la complessità che, ironia della sorta o nemesi della storia, venne determinata dalla vittoria elettorale di Hamas alle politiche e presidenziali palestinesi del 2006.

Le uniche elezioni democratiche svolte nel Territorio occupato di Cisgiordania e Gaza. L’ONU in quel frangente ha un ruolo insieme all’Unione Europea. E lo ha unitamente a Stati Uniti e Russia. A questo quartetto di decisori dietro le quinte si rivolge la nuova leadership palestinese che pare avere una speranza di ascolto internazionale.

Ma Israele precipita nelle grinfie della destra estrema e, come lo vediamo oggi, è il prodotto di un lunghissimo periodo di una radicalizzazione uguale e contraria rispetto a quella di Hamas nella Striscia di Gaza. Dall’inizio dell’era Netanyahu, quindi dal 2009 in avanti, per lo Stato ebraico è la stagione del disconoscimento ancora più risoluto delle decisioni internazionali.

Ma non di quell’isolamento che, almeno oggi, pare essere uno dei nuovi protagonisti del condizionamento delle sue politiche imperialiste. La differenza tra la guerra contro Gaza, divampata dopo la tragedia del 7 ottobre 2023, e i tatticismi passati con Hamas e con l’ANP, sta proprio nella mutazione globale dei rapporti di forza tra le grandi potenze.

La Russia è impegnata nella guerra in Ucraina, l’Unione Europea è priva di una guida politica estera davvero unitaria e comune, l’ONU è divenuto la quintessenza dell’irrilevanza e, ultimi ma non ultimi, gli Stati Uniti fronteggiano tutte queste crisi con un tasso di incertezza politica interna che è devastante.

Biden sta su una graticola incandescente. Ed è proprio il mutamento multipolare, l’ingresso dei BRICS sulla scena mondiale, il cangiamento dei rapporti bi e trilaterali tra le varie sfere di influenza globali, a fare sì che Washington non possa dirsi più sicura di essere l’unico punto di riferimento della politica internazionale su scala planetaria.

Israele può fare spallucce agli Stati Uniti perché il potere di condizionamento della Repubblica stellata si è sfarinato, sfibrato da una concorrenzialità sfibrante, in una rincorsa con Cina e Russia a non abbandonare le caselle del risiko già occupate.

Troppi conflitti aperti, troppi miliardi di dollari investiti in armamenti, sempre meno per uno stato sociale (per così dire…) che non era sufficiente già da molti anni a mettere al riparo dall’estremissima povertà gli oltre quaranta milioni di indigenti che popolano i cinquanta Stati a stelle e strisce.

La debolezza internazionale, quindi, consente ad Israele di fare il gradasso nell’offensiva totale contro i palestinesi e di non ascoltare nessun richiamo da parte di una amministrazione americana che, prontamente, difende il suo alleato nel momento del bisogno.

La politica di Biden, del resto, sostiene Israele sul piano difensivo provando a far credere al resto del mondo di fare eguale cosa su quello offensivo. Una falsità, visto che, proprio in queste ore, è la stessa Casa Bianca a solennizzare l’interruzione di invio di armi e fondi ad Israele in vista dell’ormai già iniziato attacco a Rafah.

«Abbiamo sospeso la consegna di una spedizione di armi la scorsa settimana. Si tratta di 1.800 bombe da 910 chili e 1.700 bombe da 225 chili». Ben poca cosa rispetto a tutto quello che sarà passato fino ad ora per il Mediterraneo e per vie aeree da base americana a base israeliana. Il tardivissimo decisionismo bideniano si accompagna ad una richiesta – ovviamente ignorata da Netanyahu – di disporre almeno un piano di messa in sicurezza dei civili.

Tutto ciò che è stato ordinato a Tsahal è di informare centomila palestinesi sul repentino abbandono dei loro miseri rifugi per trasferirsi in una zona definita “fascia di sicurezza umanitaria“. Suona beffardo l’aggettivo. Di umanitario a Gaza, Khan Yunis e Rafah cosa rimane? Macerie, cadaveri, feriti… Nulla è risparmiato dalla tempesta di fuoco di Israele. Le immagini mostrano i carri armati di Tel Aviv occupare la zona sud-est di Rafah.

Entrano, spianano le scritte “I love Gaza“, strappano le bandiere palestinesi dai pennoni e issano quelle israeliane. La conquista è ricominciata. Le domande iniziali forse non sono state evase, ma di certo vi è, alle fondamenta delle nuove guerre di questo primo secolo del terzo millennio sta una rimodulazione complessiva del capitalismo globale.

Non si sfugge dall’importanza strutturale di una economia in crisi che riscopre i conflitti come protesi essenziale di sé stessa, brutalmente cinica e bara, e che qualcuno a sinistra tenta di spacciare come un perfezionamento del liberalismo democratico che includerebbe chissà quale particolare attenzione alla socialità, ai diritti tutti quanti.

Invece comprende soltanto prepotenza, arroganza, prevaricazione, razzismo, suprematismo, guerra e morte. Tutto questo passa per essere difesa delle democrazie occidentali contro le dittature, preservazione delle libertà fondamentali e della “modernità” civilizzatrice di quelli che si pensano eredi dell’Illuminismo e delle grandi rivoluzioni sette-ottocentesche.

Israele si rende conto di questa tragedia incedente, ed infatti scende in piazza contro Netanyahu. Non si tratta più soltanto della protesta dei familiari degli ostaggi o delle vittime della strage di Hamas del 7 ottobre. Si tratta oramai di una diffusione tra l’opinione pubblica di una vasta contrarietà nei confronti del gabinetto di guerra. Un’avversione che è ascoltata ovunque e si traduce nell’intifada studentesca americana ed anche europea.

Un NO alla guerra, alla devastazione della Striscia di Gaza, all’annichilimento di un intero popolo.

MARCO SFERINI

9 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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