Ho l’impressione, ma proprio la “vaga” impressione che i cosiddetti “social” e, in generale, i mezzi di comunicazione di massa gestibili da ciascuno di noi singolarmente ma con un riflesso sul collettivo pressoché indeterminabile (vista la planetarietà di Internet), siano la causa di una regressione mentale enorme, quanto meno grande, dovuta alla moltiplicazione di tentativi di creazione di nuova satira.
“La rete si scatena”, dicono i giornalisti in televisione quando qualche ministro, come Di Maio o Salvini, ne combina una eclatante e parte la corsa al dileggiamento che non è satira, ma presa in giro, articolazione di battute che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono ripetizioni di altre, aggiustamenti, scopiazzature e che, comunque, non sono ascrivibili alla sottigliezza della satira, bensì al semplificazionismo delle azioni che si vogliono prendere in giro.
Il che non vuol dire che il ministro tale l’abbia sparata grossa e, quindi, non meriti un qual certo pubblico ludibrio, ma sovente sui “social network” ci si accanisce, si esagera e si creano dei “tam tam” pericolosi che sfociano sempre in un – si spera involontario – rifugio del cervello nella facilità della battuta piuttosto che nella “seriosità” del ragionamento.
Ecco che allora chi prova a formulare un pensiero e a descrivere con più parole un avvenimento, viene tacciato d’essere “noioso”, “vecchio”, “antico”, di usare dei “paroloni” per mostrare una cultura che altro non sarebbe se non una forma di manifesto egocentrismo tutto proteso ad un fine inutile: la gloria per la gloria, l’attribuzione della corona d’alloro sulla propria testa.
Il cretinismo prodotto dai “social network” è abbastanza evidente: già lo aveva denunciato Umberto Eco affermando che questo protagonismo scavalcava qualunque immaginabile capacità degli “imbecilli” di potersi esprimere su fatti di una certa importanza che non possono essere liquidati con una battuta o una vignetta costruita con qualche programma scoperto per caso su Internet.
Scriveva Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel.“.
Parole forti, ma vere e dimostrabili quotidianamente dalle caterve di messaggi che si susseguono e che sono una conseguenza naturale di una impostazione del dialogo che non è più dialogo ma parodia del medesimo, mediata attraverso protesi come una tastiera e uno schermo. “Leoni da tastiera”, “trolls”: i termini sono tanti per definire chi passa la giornata – o gran parte d’essa – a ficcanasare sulle pagine di migliaia di persone “amiche”, mai conosciute dal vivo, per controbattere a questo o quel “post” infinite volte, come ad una partita di tennis o di più proletario ping-pong.
Non esiste rispetto o stile di sorta, ma solo la frenesia dell’arrivare per primi a rilanciare una notizia, a dire anche semplicemente che sta arrivando un temporale, a diventare meteorologi se arriva una bufera, archeologi se emerge dagli scavi un nuovo uomo delle caverne ben conservato, politici se Di Maio e Salvini litigano sulle “manine”, astrologi se arriva una cometa e non è Natale.
“La tuttologia è cazzata“, diceva Carmelo Bene. L’ho scritto molte volte: è un concetto icasticamente bene espresso. E’ cazzata perché anche le parole che sto scrivendo io lo sono in quanto pongono falsi problemi per il semplice fatto che non risolvono e non possono risolvere il grande mistero dei misteri: la vita.
Ma qui siamo su piani di elevazioni che trascendono la miseria intellettuale e morale di chi si precipita sui “social” e pensa di essere (esistere) in quanto si trova lì.
A volte è difficile esistere persino esistendo nella realtà, provando ad essere una parte che modifica un’altra parte della vita di qualcuno in meglio. Figuriamoci quanto si può agire per “esistere” realmente dentro la realtà virtuale di una “socialità” delle informazioni che è tutta un ginepraio di scambi e rilanci di concetti succinti, brevissimi, fatti di insulti, di macchiettismi inverosimili e di presunte invenzioni satireggianti che nemmeno Menandro avrebbe preso in considerazione. E giustamente.
Dunque chi parla sui “social” esiste e chi sta sui “social” e nella realtà rischia di esistere meno, di essere parziale perché non è sempre “sul pezzo”, perché dimentica di aggiornare la sua pagina, di “ritwittare”, di mettere un “hashtag” e di entrare così a far parte del milione di persone che segue un avvenimento non nella realtà concreta della vita incomprensibile (dove, ricordiamolo, “la tuttologia è cazzata!”. Evviva Carmelo Bene!) ma nella virtualità.
L’esistenza virtuale di ciascuno di noi è qualcosa che oltre persino l’ologramma: almeno è visibile. Ma un post non è visibile, è inesistente perché rimane dentro una grande banca dati studiata per conoscere tutto di noi.
Lo dice uno che ha ricevuto ieri da Fecebook i festeggiamenti per 10 anni di convivenza non con una persona con cui ha fatto l’amore o ha corso, riso, guardato dei film… no, con un “social network”.
La tristezza dei nostri tempi sta nella disumanizzazione non solo neofascista proposta da chi fa politiche razziste e xenofobe, ma sta anche nel supporto massmediatico che a tutto ciò viene dato dal tambureggiamento incessante delle reti (anti)sociali: vere e proprie discariche per le menti che già pensavano poco e che ora si accontentano, per dire “penso, dunque esisto”, di scrivere 150 caratteri al massimo o di polemizzare con amici sconosciuti.
Buonanotte…
MARCO SFERINI
20 ottobre 2018
foto tratta da Pixabay