Leggerezza e candore del settecentesco moralismo inglese

La morale, il moralismo, i moralisti. Oggi intendiamo per lo più gli ultimi due in chiave prettamente negativa, associando pedanteria e vaniloquio a chiunque tenti di attraversare le lande...

La morale, il moralismo, i moralisti. Oggi intendiamo per lo più gli ultimi due in chiave prettamente negativa, associando pedanteria e vaniloquio a chiunque tenti di attraversare le lande desolate dell’indagine sui comportamenti umani entro questa esistenza che è un prodotto nostro fino ad un certo punto.

Ma c’è stato un tempo, per la precisione due secoli e qualche decennio fa in cui il moralismo, almeno in Inghilterra, era una corrente culturale e filosofica venuta fuori da un processo di evoluzione illuministica in cui ai dettami della Chiesa cattolica si sostituivano quelli di una gnoseologia che prescindesse dal teleologismo.

Benché i moralisti inglesi non fossero tutti avversari del deismo e, anzi, in larga parte disprezzassero agnosticismo ed ateismo, ciò che li accomunava con sufficiente coerenza era la critica nei confronti di ciò che gli uomini (e le donne) avevano detto e professato fino ad allora su Dio e sul concetto di “religione rivelata“.

Obbedienti ad un evangelismo marcatamente anglicano e, per certi versi, estremamente puritano, i moralisti puntarono il dito quasi esclusivamente contro il papato, contro l’assolutismo dogmatico, contro un potere che si reggeva su una idea quasi ridicola della fede.

Torneremo sul concetto di “ridicolo” che, possiamo anticipare, è equiparabile a quello di “humour“. Per il momento, per comprendere il tipo di critica che viene esposta da importanti esponenti di questo filone di pensiero, come lord Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury, bisogna riferirsi più che altro ad un confronto tra etica ed estetica.

Potrà apparire molto curioso, ma l’eccellenza di questi pensatori risiede essenzialmente in un accostamento che parrebbe strano e persino troppo astratto nel richiedere – assurdamente – un piano ontologico per poter sussistere. Tuttavia qui sta la particolarità.

Influenzato da Locke ma molto presto attratto da un neoplatonismo cambridgeano detestato dal grande suo maestro, Shaftesbury non trasforma la morale in una idea iperuranica a cui corrisponde nella realtà microcosmica terrestre una concretezza imperfetta cui l’uomo e tutti gli altri esseri viventi si accostano.

Il concetto è, qui, il solo primo passo per sviluppare una intersezione di logicità che il moralismo attribuisce all’armonia dell’esistente. In questo senso, il deismo del conte Anthony è qualcosa di molto, molto diverso dalla credenza religiosa in sé (e verrebbe da dire “per sé“, visti gli interessi che regge e che alimenta allo scopo di perpetuarsi).

Per i filosofi inglesi che anno apologizzato la morale, così come per quelli che non hanno seguito questo cammino, del pensiero, non c’è alcun dubbio sul fatto che ciò che è etico è ascrivibile al contesto del buono e, quindi, ciò che è buono si identifica anche con la traduzione estetica nel bello e del bello.

La bontà è pregevole, è apprezzabile, ci arricchisce e ci permette di aiutare gli altri. L’aiuto in quanto tale è, nella sua propensione altruistica, un moto a luogo di armonia, un protendersi verso i nostri simili (animali compresi, ma questo lo aggiungiamo noi) che, quasi intuitivamente per la mente ed istintivamente per le mani che lo compiono, è percepito come positivo. Dunque bello.

Ciò che è morale è giusto, ciò che è giusto contribuisce a rinsaldare una armonia universale in cui noi ci troviamo immanentemente. Così, infatti – sostiene Shaftesbury – come l’ordine della natura appartiene all’universo, così quello morale appartiene all’essere vivente, all’essere umano.

Sicché, se così fosse sempre, dovremmo concluderne che siamo naturalmente capaci di esprimerci medianti azioni che non portano nocumento né a noi stessi né tanto meno agli altri. Ma così non è. Dunque la filosofia del conte sembra venirsi a scontrare con una oggettività cruda dei fatti.

Rischia di entrare in crisi tutto l’impianto moralistico che coincide col bello e con la giustezza e la verità. Il pericolo della banalizzazione sillogistica, date le premesse maggiori sbagliate, è pronto a farsi avanti e a demolire un impianto elucubrativo che aveva una sua logica: soprattutto se riferita ad una istintualità del pensiero, ad una percezione immediata di un innatismo concettuale tanto del bene quanto del bello, così pure del giusto e del vero.

A sostenere la teoricità di un substantiam accipere, quindi di una sempre più effettiva condivisione su vasta scala di una oggettiva (ergo ontologica) compresenza e compenetrazione tra bene e bello e tra questi due concetti atavici e quello di giustizia che ci è altrettanto insito nel nostro profondo cosciente e coscienzioso, arriva quello humour tipico inglese che serve a sdrammatizzare tanto i casi nefasti dell’esistenza quanto, come se ne potrà evincere, supportare un costrutto filosofico.

Lord Schaftesbury non si dà per vinto quando gli obiettano, per l’appunto, che gli esseri umani non sono volti soltanto al bene ma in gran parte anche al male.

Così, pure, l’oggettività ontologica del bello, che corrisponderebbe a quella del bene e del giusto, può essere dialetticamente messa in crisi da un banalissimo excursus critico-accademico tra dotti che ipotizzino, ad esempio, come l’armonia di un arco a sesto acuto e di una guglia nello stile delle chiese gotiche non è più tale se la si rapporta nell’ambito dell’arte e dell’ingegneria classica.

L’oggettività reale dell’equilibrio dal sapore cosmo-panteistico sembra così essere presa per il naso da un semplice confronto con l’oggettività reale delle differenze tanto degli stili quanto delle relazioni che intercorrono tra gli esseri umani. Il bene esiste e può ispirarci certamente gli accostamenti col bello e col giusto, ma esiste il male, di contro, che effettivamente ci ispira, al contempo, una similitudine col brutto e con l’ingiusto.

Schaftesbury non vede quindi contraddetta la sua filosofia, perché nell’ordine armonico dell’universo – che in qualche modo viene fatto coincidere con la presenza di Dio, con Dio stesso (ed è, francamente, il miglior modo di pensare l’ultraterrenità, la trascendenza, aliena da qualunque racconto umano su miracoli, profeti, santoni, ecc…) – si esprimono quelle leggi della proporzione che includono l’alternanza tra bene e male, per cui una intrinseca armonia rimane e non viene affatto messa in discussione.

Lo humour si diceva. Proprio per sorreggere l’equipollenza effettiva, la complicità non solo concettuale ma “oggettiva” tra bellezza e verità, il conte si fa aiutare da quel “ridicolo” che prende il sopravvento sulle emozioni nostre nel momento in cui ci troviamo davanti a qualcosa che fuoriesce dai canoni della semplicità, dell’ammirevole, del bello, del vero, del giusto.

In noi si fa strada il riso come espressione effettiva di una causalità determinata da una situazione comica, sgraziata, irriverente o stonante con l’armonia: ridiamo e ci facciamo gioco della baldanza altrui, del buffonesco, del banale, del grottesco, delle differenze così eclatanti o delle condizioni di disagio di qualcuno quando pronuncia un discorso senza capo né coda, quando dice una sciocchezza (ossia qualcosa che contrasta manifestamente contro la realtà dei fatti) oppure se un suo difetto fisico, morale, psichico lo rendono particolarmente singolare.

Comunque sia, anche nel “ridicolo” si rende del tutto evidente una ambivalenza tra la presa in giro per reazione alla contrarietà al bello, al vero e al giusto, così come quella nei confronti di una stranezza che, invece di suscitarci empatia ci induce alla canzonaggine, talvolta anche molesta. Oggi parliamo di tutto ciò definendolo “bullismo” e stigmatizzandolo come un comportamento orribile.

All’epoca, i termini della questione ricadevano più che altro su un piano meramente speculativo e filosofico, sebbene non mancassero i motivi per rendersi conto che la prevaricazione era presente in ogni ambito sociale: dal contadino vessato dal suo signore alla serva costretta a rapporti sessuali con l’aristocratico per un diritto di proprietà che ricorda, seppure in modi e forme differenti, il retaggio patriarcale dei giorni nostri.

Per Schaftesbury il “ridicolo” è prima di ogni altra cosa uno strumento che l’essere umano ha dalla sua per allontanarsi dalle false credenze, dai preconcetti, dalle superstizioni (principalmente quelle religiose).

Ciò che riesce a resistere alla potenza del ridicolo si ritrova in uno stato di verità che gli proviene da un equilibrio armonico entro il perimetro tanto della bellezza quanto della giustezza. Le passioni umane (che il Nostro divide in tre categorie: quelle che sollecitano al bene comune, quelle che favoriscono il nostro bene, quelle che inducono al male) sono realmente tali per i moralisti se, e soltanto se, contribuiscono alla solidità del regime armonico.

Il male è una “affezione innaturale“, quindi non appartiene né al vero né al bello, né ovviamente al buono. Quindi è come se venisse espulso da un consesso di realtà e posto fuori dalla concezione dell’esistente. Quasi come se non esistesse. Ma esiste. Tutto questo impianto filosofico risponde, come ormai è ovvio, all’equiparazione tra etica e arte, quindi tra etica ed estetica.

È una correlazione piuttosto fragile, perché non tiene conto delle relazioni sociali, ma si limita ad una visione contemplativa di una straordinarietà dell’essere e dell’esserci che risponde a canoni meramente figurativi e rischia così di rendere molto evanescente lo stesso concetto di “bene” e di “bene comune” se osiamo un riferimento ad una immanenza che ci riguarda un po’ tutte e tutti.

Basterà leggere gli scritti di Bernard Mandeville, confrontarli con quelli di lord Shaftesbury, per capire quante contraddizioni vi siano nella trasformazione temporale dei concetti e dei problemi religiosi e morali anche nell’Inghilterra del Settecento, ma non di meno nel resto del continente europeo.

Il tentativo di ontologizzare l’armonia morale è un desiderio più che un portarsi sempre più vicini ad una verità critica che si perfeziona proprio nell’essere antidogmatica. Non basta biasimare i bigotti del tempo, scagliarsi contro il cattolicesimo se non si va alla radice dei problemi sociali partendo da quelli esistenziali.

Il virtuosismo umano, contrariamente a quello che credevano Shaftesbury e Butler, non induce inevitabilmente al bene. Si può essere d’accordo sul fatto che un principio di coscienza che sta in tutti noi sia, al pari del panteismo, quanto più concettualmente si avvicina ad una idea di Dio che sta in tutte le cose e che ci segue, ci ispira, ci induce a comportarci in un modo piuttosto che in un altro.

E, nel farlo, ci suggerisce di compiere il bene ma, poi, ci lascia anche una libertà di arbitrio, una capacità di scelta. L’innatismo della coscienza fa il paio con una provvidenzialità del mondo che risponde ad un disegno divino che si discosta dalla costruzione da parte dell’essere umano della propria esistenza. Fino ad un certo punto siamo quindi liberi di agire, perché alla fine – secondo i moralisti inglesi – saremmo comunque parte di un costrutto impenetrabile e ultraterreno.

Ciò che hanno rimproverato al cattolicesimo come dogma, biasimando il ridicolo in cui pongono le narrazioni delle religioni “rivelate“, i moralisti lo rivivono nella contraddizione irrisolvibile tra bene e male. Tentando delle spiegazioni, ma non riuscendo ad arrivare ad una risolvibilità dell’enigma.

Molto semplice attribuire a Dio una creazione del mondo ispirata alla felicità ed al bene, al giusto ed al vero, separando così un’etica sociale da una personale, deresponsabilizzando gli individui e, in un certo qual mondo, operando una involontaria minimizzazione della colpa di colui che fa il male, che nuoce, che diventa la quintessenza dell'”affezione innaturale“.

Più onestamente concreta la posizione di Hartley: l’uomo in fondo non è completamente libero. Veramente tale è solo Dio. E da qui può ripartire una discussione così profonda e ampia da rimettere in forse tanto il moralismo inglese a lui coevo, quanto quella necessità di accettare l’imprigionamento dentro le contraddizioni morali. Tutte umane? A questa domanda magari proveremo a rispondere una prossima volta…

MARCO SFERINI

23 giugno 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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