Definire in che cosa consistano i «saperi non economici» de Il capitale di Marx, è questione strettamente legata all’oggetto dell’Opera, al modo in cui vi si articola l’analisi del capitalismo, un termine che non appare nel testo e la cui determinazione trascende la componente dell’«economia capitalistica». Nell’Opera l’«economia capitalistica» non definisce la «società capitalistica», o più precisamente la «società borghese» secondo l’espressione usata più frequentemente da Marx. I diversi livelli dell’analisi ci forniscono la chiave per pensare quella che è stata chiamata una «concezione espansa del capitalismo», «un ordine sociale istituzionalizzato».
Con l’uso di questa formulazione come elemento di concettualizzazione caratterizzante il «capitalismo», Nancy Fraser, docente di filosofia e politica alla New School di New York, intende rifiutare il rapporto unilineare che molto marxismo ha stabilito tra l’«economia capitalistica» e il campo delle produzioni politiche e culturali. La formulazione di Fraser ci rimanda alla nozione di formazione sociale e politica, a un contesto, quindi, compiutamente storico.
L’«ordine sociale istituzionalizzato» non è solo un’economia, ma è, inoltre, «una forma di vita» (altra espressione di Fraser), un insieme di rapporti tra un livello economico e un livello politico. Dove il livello politico è tanto il susseguirsi dei meccanismi istituzionali, quanto il susseguirsi delle forme discorsive che li accompagnano. E ciò nella pluralità delle stratificazioni costituenti la formazione economico-sociale. Il livello fondamentale riguarda, certo, la logica di sistema che percorre tutte le fasi dell’accumulazione, la logica profonda, cioè il momento analitico più astratto dell’Opera.
Ma l’«ordine sociale istituzionalizzato» trova la sua concretezza solo nello svolgimento storico della logica di sistema. E lo svolgimento storico del livello più astratto comporta l’uso di altri livelli che non sono legati per forza a logiche direttamente economiche. Possiamo ragionevolmente chiederci se la molteplicità di sfere di cui è composto l’«ordine sociale istituzionalizzato» debba necessariamente rispondere a una medesima dinamica di fondo.
Non si può prescindere, però, dal fatto che il reticolo di relazioni tra «economia capitalistica» e «società borghese» si esprime attraverso un reticolo di saperi incrociati, di rimandi continui tra «saperi economici» e «saperi non economici».
L’ambiente economico non è «disincarnato», non vive al di fuori di un quadro normativo, è sicuramente il primo piano del capitalismo, ma via via che si sale agli altri piani la comprensione dell’insieme necessita di strumenti che derivano da saperi che, solo nella prospettiva ideologica della separazione tra «produzione e riproduzione, economia e politica, natura umana e non umana, sfruttamento ed espropriazione», possono essere considerati esterni. Se questo si può verificare agevolmente perfino seguendo l’itinerario «ortodosso», cioè a partire dalla dinamica dell’economia capitalistica, a maggior ragione lo si può cogliere seguendo l’itinerario opposto, cioè a partire dalla sfera politico-culturale.
Paradossalmente è stato proprio un economista, Thomas Piketty, a proporre la prospettiva limite dell’inversione dell’itinerario: «La storia di ogni società è stata fino ad oggi solo la storia della lotta di classe», scrivevano nel 1848 Friedrich Engels e Karl Marx nel Manifesto del Partito Comunista. La dichiarazione rimane attuale, ma alla fine di questo studio sarei tentato di riformularla in questo modo: la storia di ogni società è stata fino ad oggi solo la storia della lotta delle ideologie e della ricerca di giustizia.
Sebbene ritenga che tale riformulazione pecchi di unilateralità, che non sia adeguata alla ricchezza di quel «reticolo di saperi incrociati» tipico dell’analisi marxiana, ritengo altresì importante che Piketty rifiuti l’impostazione euristica secondo la quale «lo studio delle questioni economiche [debba essere delegato] solo agli economisti».
Nel «capitalismo storico», il luogo vero di svolgimento delle categorie de Il capitale, anche delle più astratte, l’«economia capitalistica» ha continua necessità, in maniera diversa a seconda delle diverse fasi di accumulazione, del cordone ombelicale che la lega alla sfera non economica. La politica, tutto il vasto ambito delle produzioni culturali ne sono aspetti essenziali. Persino quelle parti che, a prima vista, possono apparire più lontane dalle «cose» economiche, persino quelle dei cosiddetti «saperi non economici».
A proposito dei concetti-chiave che costellano questo passaggio proviamo a porre l’attenzione sul termine «riproduzione», approfondendolo e usandolo come elemento essenziale alla comprensione del capitalismo espanso.
Si legge ne Il capitale: «Il processo di produzione capitalistico, considerato nella sua connessione complessiva – cioè considerato come processo di riproduzione – non produce solo merce, non produce solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso» . Questo significa che nel movimento storico del capitale le fasi della produzione (direttamente economica) e quelle della riproduzione (indirettamente economica), non sono separabili.
Significa altresì che la riproduzione di rapporti sociali, rapporti tra uomini, è comprensibile solo tramite l’indagine delle specifiche relazioni tra i membri della «società borghese», gli «uomini in carne ed ossa», e la catena delle mediazioni che li collega ai processi di accumulazione.
Una riproduzione di rapporti sociali nei quali gioca un ruolo decisivo proprio la riproduzione delle forme ideologiche e di coscienza necessarie alla continuità dell’accumulazione. Tale prospettiva ha prodotto, soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, contributi molto importanti che hanno permesso di ampliare gli spazi del reticolo di nessi tra le relazioni di produzione e quelle considerate «esterne», quelle familiari, culturali e di comunità ecc. e di sviluppare le categorie e i concetti necessari per rappresentarle. Chi avesse studiato il complesso teorico marxiano sulla riproduzione senza veli economicistici, avrebbe potuto cogliervi, molto prima, le radici di questo itinerario di ricerca.
Già nel 1902 c’era chi aveva individuato nel lavoro domestico, ad esempio, una zona oscura dell’economia politica, una zona esclusa per definizione dalle analisi economiche: «Dal punto di vista degli economisti “la ballerina del music hall, le cui gambe portano i profitti nelle tasche del suo datore di lavoro, è una lavoratrice produttiva, mentre tutte le donne e le madri impegnate tra le mura domestiche sono considerate improduttive. Suona brutale, ma corrisponde esattamente alla brutalità della nostra attuale economia capitalistica”». Così Rosa Luxemburg. Ma si trattava, appunto, di Rosa Luxemburg, la teorica e rivoluzionaria forse più eminente nell’universo della prima generazione di politici e teorici marxisti, quasi tutti uomini.
PAOLO FAVILLI
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