Legge di bilancio, il diktat del governo: «Niente emendamenti»

La premier vuole evitare che le forze di maggioranza alzino la posta
Matteo Salvini e Giorgia Meloni

Sarà pure una squadra di maratoneti e non di centometristi, come non si stancano di ripetere gli atleti del governo, però nel varare la manovra è stata più veloce della luce: un’ora scarsa. Non è un caso fortuito e fortunato. La rapidità in questa circostanza era essenziale per lanciare un messaggio preciso a quelli che osservano l’Italia, come fa capire la premier introducendo la conferenza stampa di presentazione della legge di bilancio.

Il governo sa di avere gli occhi dell’Europa e degli Stati europei puntati addosso. Il verdetto di Bruxelles sarà probabilmente positivo ma l’assedio internazionale, da Fitch al Fmi, perché il governo italiano non si limiti a spendere poco ma inizi a tagliare di brutto si sta facendo soffocante.

La premier definisce la situazione «un po’ complessa» ed è solo un eufemismo: «L’anno prossimo avremo circa 13 miliardi di euro di maggiori interessi sul debito per le decisioni assunte dalla Bce e altri 20 per il superbonus». Bastano a superare questa manovra di 24 miliardi appena.

Con le spalle così al muro apparire divisi, dare l’impressione che le forze di maggioranza si preparino a sfruttare l’iter della manovra per alzare la posta, anzi la spesa, sarebbe esiziale. La manovra approvata a spron battuto serve a questo, come anche il tentativo di dribblare il parlamento. «L’approvazione rapida dimostra il tipo di coscienza che ha la classe politica al governo. Apprezzerei moltissimo che i parlamentari della maggioranza evitassero di presentare emendamenti», va giù piatto il ministro dell’Economia Giorgetti.

La presidente del consiglio la pensa esattamente allo stesso modo. Ai suoi stessi deputati e senatori l’idea di doversi limitare ad alzare la mano per approvare la legge di bilancio, o meglio il maxiemendamento che alla fine la modificherà e che sarà concordato dalla premier e dai vicepremier, non piace affatto.

Ma la presa di Giorgia Meloni sul suo partito, in questo momento, è tanto salda che difficilmente qualcuno oserà disubbidire. Se ci saranno tentativi di sfuggire al diktat arriveranno piuttosto da Fi, rimasta a becco asciutto sulla richiesta di alzare le pensioni minime, esca per varare subito un massiccio programma di privatizzazioni.

L’opposizione, certo, presenterà «una valanga di emendamenti», come ha già prevedibilmente annunciato. Ma sa già che verranno falcidiati col voto di fiducia sul maxi finale.

Il primo a raccogliere l’invito di Giorgetti è Salvini. In conferenza stampa passa senza pensarci su due volte direttamente all’annuncio ufficiale: «Questa sarà una manovra senza emendamenti di maggioranza». In realtà alla Lega è andata persino peggio che a Fi. La campagna per fare almeno un passetto simbolico in avanti contro la Fornero è approdata a risultati opposti: da quota 103 a quota 104.

L’accenno di riforma fiscale realizzato con l’accorpamento dei primi due scaglioni è temperato dal taglio delle detrazioni sopra i 50mila euro, che serve a risparmiare facendo anche la bella figura di chi pensa solo ai più poveri, e soprattutto difficilmente potrà essere confermato oltre l’anno prossimo, essendo la prevista una crescita dell’1,2% fuori portata, come anche il governo probabilmente sa benissimo.

Interrogato in materia il ministro dell’Economia si limita a constatare che «in questa fase non c’è nulla che sia facile» e la risposta è significativa.

Però, pur avendo incassato solo uno stanziamento per il suo Ponte ancora imprecisato ma che per l’anno prossimo sarà contenuto, Salvini preferisce comunque blindare la manovra piuttosto che esporsi al rischio di incursioni da parte di Fi: il solo partito che, giocando di sponda con l’opposizione, soprattutto nelle commissioni, potrebbe oggi imporre modifiche alla manovra e non nel senso auspicato dal capo leghista.

La legge varata ieri, comunque, è ancora a grandi linee. Per i dettagli sarà necessario aspettare l’approdo in Parlamento, intorno al 26 ottobre, e poi, come d’uso, il maxiemendamento conclusivo.

Dal punto di vista dell’identità politica, sul quale sia Meloni che Giorgetti avevano più volte insistito, tutto si riduce a una serie di mosse più scenografiche che sostanziali a favore delle fasce povere e in una raffica di misure «a sostegno delle famiglie»: nidi gratis e azzeramento dei contributi previdenziali per le mamme con due figli, congedi parentali prolungati di un mese, incremento del 50% dell’assegno unico per le famiglie con tre figli.

L’Italia di questi anni ’20 non è un Paese per single o per coppie poco prolifiche. Come quella degli anni ’30 del secolo scorso, del resto.

ANDREA COLOMBO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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Politica e società

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