Papa Francesco, nonostante sia il papa e nonostante sia il capo della Chiesa cattolica apostolica romana e, ancora, nonostante sia il sovrano assoluto della medesima e il vicario di Cristo in terra, ha abituato anche i laici ed agnostici come me ad ascoltare una voce differente, per provenienza, in quanto a critica del sistema capitalistico.
Nemmeno le forze del cosiddetto centrosinistra si spingono a tanto, abituate come sono al governismo come forma e sostanza della rappresentanza non delle classi popolari, del mondo del lavoro, ma semmai di quell’imprenditoria che è parte del problema e non certo il pilastro su cui poggia la produzione della ricchezza nazionale.
Ed abituate ormai a portare nelle istituzioni repubblicane non il punto di vista alternativo al regime economico ed antisociale che si esprime, nella sua totalizzazione, nella sostanziazione del processo liberista iniziato negli anni ‘70 del Novecento, bensì progetti riformisti piegati alle logiche del mercato e della concorrenza.
In occasione dello sciopero globale sul clima, a cui i Fridays for future ricorrono ogni anno (e anche più volte durante i dodici mesi), Francesco, nella tre giorni di Assisi intitolata “The economy of Francesco” (intendasi qui il santo patrono d’Italia e non propriamente il pontefice) ha fatto non un cenno, bensì un esplicito riferimento ad un cambiamento radicale dell’economia, della struttura materiale della società tutta.
Una economia su cui poggia una ristrettissima parte dell’umanità (quella che detiene la proprietà privata dei mezzi di produzione, le grandissimi, enormi ricchezze finanziarie, quella che specula su qualunque cosa possa essere oggetto di speculazione) ed entro la quale sono immersi miliardi di indigenti, di salariati, di sfruttati, unitamente alla globalità dell’intero pianeta.
Nulla sfugge alla depredazione in nome del profitto, dell’aumento dei capitali, dei dividendi da accrescere: per prima la Natura, quella con la enne maiuscola e tutti gli esseri viventi altri da noi, quelle altre specie di una animalità di cui noi facciamo parte e dalla quale siamo stati scientemente rimossi per millenni, così da poter essere specisti a tutto tondo, considerandoci signori e padroni del mondo.
Il papa, e non il centrosinistra, tanto meno le forze conservatrici di destra, pone il problema congiunturale dell’incontro di una serie di problematiche che non possono essere risolte separatamente e che, ormai, ci mettono innanzi ad un futuro di tragicità, di sommovimenti sociali, di disperazione crescente, di mancanza di risorse e materie primarie.
Ciò che ci separa da quelle che dovrebbero essere delle forze progressiste è oggi molto maggiore di ciò che ci avvicina ad un pontefice che, non fosse altro per la disposizioni culturale, filosofica e diciamo pure ideologica (e materialista) dovrebbe esserci molto, ma molto lontano. Ma i tempi del “mondo piccolo” di Guareschi sono quasi beatamente passati. Oggi la lotta non è tra comunisti nostalgici dell’URSS e clericali che cantano “Bianco fiore”.
Oggi è proprio il liberismo ad aver stravolto e capovolto ogni senso compiuto della critica sociale, portando, nel corso di tre decenni, la socialdemocrazia di un tempo a mutarsi in un surrogato di liberalismo fintamente moderato e, in realtà, molto simile a quello delle destre in quanto a sostegno indefesso ad una modernità che distrugge il pianeta, allarga i presupposti entro cui si entra nella schiera dei nuovi poveri e impedisce di valorizzare anche solo latamente le potenzialità del singolo e quelle della collettività.
Dunque, il papa espone una critica che è rimasta, nella politica italiana che oggi affronta la prova delle urne, patrimonio di una sinistra progressista che si può individuare, ad excludendum, in Unione Popolare e, in parte, in Sinistra Italiana.
Con una stigmatizzazione per quest’ultima, poiché il tatticismo che Fratoianni rivendica, come elemento dirimente per fare fronte contro le destre sovraniste e neonazi-onaliste, ha finito per essere una coazione a ripetere un errore di fondo divenuto macroscopico: alterare i rapporti di forza dentro le coalizioni pensando, nel migliore dei casi, di poterne condizionare i programmi una volta giunti in Parlamento. E questo, almeno, quando si trattava delle precedenti alleanze, con il veltronismo e il bersanismo.
Tralasciando la infelice, lunga, dannosissima parentesi del renzismo, l’alleanza che SEL prima e Sinistra Italiana poi hanno stipulato con il centrosinistra non ha portato a casa nessun risultato se non quello, di cui poi si finisce per sospettare essere l’unico obiettivo veramente datosi in quanto tale, di scavalcare tutte le problematiche tecnico-politiche per ritornare in Parlamento con una pattuglia di deputati e senatori e perpetuarsi stancamente, scaricati alla prima curva dagli istinti di autoconservazione al potere per un centrosinistra.
Quale progressismo si alimenta in questo modo? Quale sinistra di alternativa si vuole costruire così? Si ribatterà facilmente – e con ragione – che nemmeno la critica radicale di chi ha costruito alleanze monocellulari, posticce e raffazzonate, sempre costruite precipitosamente a ridosso del voto, ha di contro portato risultati.
Oggi, giorno del voto, poteva esservi in campo un fronte progressista, una alleanza certa di superare la trappola del 10% per le coalizioni e, magari, anche quel 3% per le liste, se a comporre il tutto fossero stati Cinquestelle, Unione Popolare, Sinistra Italiana e Verdi.
Sapremo stasera quale sorte toccherà a questa mancata coalizione di forze politiche anche molto diverse fra loro ma che, quanto meno, con altrettanto differenti storie alle spalle, avrebbero potuto convergere su un minimo comune denominatore, partendo proprio da ciò che papa Francesco ha rivendicato, ha chiesto con forza alle giovani generazioni.
Non certo la difesa della laicità dello Stato italiano, cui ci auguriamo, quanto meno, il papa sia formalmente (e perché no… anche sostanzialmente) affezionato. Non chiediamo tanto. Ma quell’avvertire la soglia del punto di non ritorno per una umanità che persevera nel costruire i presupposti sempre nuovi, e sempre più laceranti, per la consunzione di una Natura impossibilitata a rispondere alla domanda di esistenza dignitosa di quasi otto miliardi di animali umani e di molti più miliardi di animali non umani.
Ma il problema non sono le altre specie. Il problema siamo noi. Le risposte della politica italiana ai temi della sostenibilità ambientale dovrebbero essere anzitutto risposte sociali, per una riforma effettiva delle condizioni di vita, o per meglio dire “di sopravvivenza”. Una vera sinistra, come Unione Popolare intende essere, deve accogliere quel punto di vista complesso della società, richiamato da Francesco, dove le grandi problematiche si intersecano gordianamente in un nodo inestricabile.
A meno che non si inizi ad avere, per l’appunto, una nuova visione globale e locale al tempo stesso, in cui la questione sociale sia inseparabile da quella civile, morale e culturale. Ed in cui tutto ciò faccia il paio con l’esigenza immantinente di una trasformazione economica che inizi a prendere atto dei limiti del capitalismo, della necessità del suo superamento.
Un processo non immediato, non di breve termine, ma che bisogna iniziare. Non possiamo affidarci alla speranza, alla fede, alla benevolenza di una autocoscienza dei padroni e dell’imprenditoria, dei finanzieri e degli speculatori che ci hanno avvelenato (letteralmente) l’esistenza fino ad oggi.
Dobbiamo costruire una nuova, grande sinistra di alternativa, anticapitalista, antispecista, capace di essere, al pari di altre organizzazioni (come una chiesa più francescana e meno ratzingheriana), un punto di appoggio per tutte e tutti coloro che hanno diritto di vivere e di abbandonare la sopravvivenza in cui oggi macerano per colpa non certo della loro miseria, ma del sistema che la continua, incessantemente a produrre.
Iniziamo ancora un volta, senza rassegnazione. Iniziamo con il voto ad Unione Popolare. Domani, qualunque sia il risultato, continuiamo però su questa via politica e sociale. E’ l’unica, oggi, possibile per ridare all’Italia un progressismo propriamente detto, una critica consapevole del deserto dell’invivibilità che stiamo facendo attorno a noi e a tutto il mondo che ci ospita.
MARCO SFERINI
25 settembre 2022
Foto di JV Gardens