Circa trent’anni fa, quando ancora la crisi climatica non aveva raggiunto i drammatici livelli attuali, quando il buco nell’ozono era il personaggio iperuranico in cerca di un provocatore, di un autore che si assumesse tutta la resposabilità dell’assottigliamento della coltre che ci protegge dai raggi solari, il fondatore di una rivista che divenne una specie di “manifesto” ecologista dell’epoca, James O’Connor e la sua “Capitalismo natura socialismo“, redarguiva tutta una schiera di marxisti che si ostinavano a contrapporre capitale e lavoro soltanto, senza vedere nella questione ambientale un enorme contraddizione proprio per il capitalismo stesso.
Gli effetti dei mutamenti climatici allora erano visibili nel disagio degli orsi polari, in qualche percezione dell’alterazione delle temperature e nella comparsa di quegli “tsunami” che si scagliavano contro le coste orientali, mentre gli uragani tropicali devastavano le coste della grande Repubblica stellata.
Il dibattito politico, economico, sociale e culturale sulla globalizzazione iniziava a concentrarsi anche sul ruolo della produzione della ricchezza (per una parte degli umani) in netta contrapposizione oltre che al lavoro salariato anche nei confronti del suolo, dei mari, dell’aria. Fenomeno eclatante, non evitabile, come uno schiaffo dato in pieno volto era la deforestazione dell’Amazzonia, del polmone verde del pianeta. Lì era visibile proprio la mano dell’essere (dis)umano e (dis)ambientale: la logica devastratrice del profitto non si fermava davanti a niente e nessuno.
La lotta dei seringueiro brasiliani, guidati da Chico Mendes, aveva fatto scuola e aveva sostenuto il movimento nascente dei “sem terra”, di tutti quegli abitanti della gigantesca foresta pluviale che veniva meno davanti alle ruspe che la abbattevano per fare largo a nuovi insediamenti di multinazionali, per un commercio di legname che non teneva in minimo conto nessuna esigenza tanto della natura in senso lato quanto dell’essere umano che vi era in simbiosi da secoli, da millenni.
La lotta sindacalista ed ecologista di Mendes divenne un emblema mondiale quando Chico venne assassinato e, quindi, quando il suo mito si fece anche programma sociale e politico, si fece bandiera da unire a quella della rivoluzione contro un capitalismo predatorio, contro quel liberismo che mostrava tutta la sua invadenza nella storia di una umanità resa spettatrice del consolidamento dei privilegi di pochissime centinaia di individui mega-ricchi e della lotta tra i poli economico-finanziari emergenti.
James O’Connor, che aveva studiato il movimento operaio da professore di sociologia ed economia presso l’Università della California a Santa Cruz, tra le tante sue opere importanti (vale la pena citare “L’origine del socialismo a Cuba“, scritto nel 1970, ed anche un saggio molto godibile dal titolo accattivante: “Individualismo e crisi dell’accumulazione“, edito in Italia da Laterza nel 1986), mandò alle stampe un agilissimo volumetto di pochissime pagine.
Quasi un discorso rivolto a tutte e tutti coloro che, essenzialmente, si proclamavano marxisti e che, però, intendevano ancora quella definizione tanto vituperata dallo stesso Moro come una risoluzione totalizzante dell’analisi dei problemi globali e locali.
Tutto poteva, sostanzialmente, essere compreso dentro l’analisi marxiana della società e dentro la traduzione antropolico-politica del “comunismo” come movimento che innescava le contraddizioni antisociali del capitale, le riverdiva di continuo per esacerbarle e portarle ad una esasperazione che potesse cambiare lo “stato di cose presente“, alterarlo fino a farlo crollare.
Ho sempre condivisio l’idea che dentro alla parola “comunismo“, inteso luxemburghianamente come massa degli oppressi e degli sfruttati che si muove per mettere in pratica il cambiamento a centottanta gradi della società, potesse trovare posto qualunque forma di liberazione: umana, ecologica, animale. Perché l’altro dal capitalismo, il suo esatto contrario, non poteva non essere tale se non in ogni espressione concreta che subiamo dal sistema, che facciamo subire ad altri, di cui – anche inconsapevolmente – ci rendiamo complici per il semplice, banalissimo fatto di vivere dentro la cornice del sistema di produzione delle merci e del profitto.
Per questo, anche “L’ecomarxismo” di James O’Connor (allora edito nel 1990 da Datanews nella collana “I tascabili“, prima edizione economica 1994), scritto con una schiettezza a tratti disarmante, con una lucidità di sintesi altrettanto tale, mi sembrò un primo passo nella ricomposizione di un puzzle che doveva essere rimesso a posto o che, molto più elementarmente e oggettivamente, qualcuno stava cercando, in varie parti del mondo, di comporre dalle tante lotte che venivano avanti ma separatamente.
Marxismo e ambientalismo, quindi visione critica dei rapporti di produzione e tra le classi sociali e sguardo egualmente critico nei confronti dello sfruttamento del pianeta da parte dell’essere umano padrone di tutto e di tutti, potevano trovare finalmente un punto di originale congiunzione, consentendo così al movimento anticapitalista di essere anche tanto d’altro.
Non sarà un caso se, a partire da quegli anni, nel più completo silenzio ostracistico anche di una larga fetta della sinistra (moderata, riformista e pure radicale e di alternativa) si farà avanti lo spettro dell’antispecismo, di una nuova considerazione dell’animalità comprendente quell’umanità che abbiamo considerato come il gradino massimo dell’espressione di una bontà altruistica ineguagliabile.
Essere umani non poteva voler dire aver raggiunto l’ultimo gradino dell’aspirazione alla liberazione nella sua forma più completa. Ci eravamo dimenticati, quanto meno fino ai grandi temi dell’atomica nell’immediato dopoguerra, del problema della sostenibilità di un sistema di sfruttamento delle risorse ambientali che iniziava a vedersi solo a danno fatto. Seppure, almeno allora, si fosse ancora in tempo per rimediare, per riportare l’economia a più miti consigli, ad interventi di minore impatto sull’habitat, sullo sfruttamento degli animali non umani, quindi di tutti gli esseri viventi.
Millenni di cristianesimo (e di altri culti religiosi similari in questo) avevano posto l’antropocentrismo all’apice di tutto: era stato dio a mettere l’uomo sopra tutte le altre creature, impartendogli anche il compito di dominare la natura pur rispettandola.
Il movimento comunista, o qualunque altro movimento anticapitalista, poteva mettere in discussione, in nome del modernismo e dello sviluppismo che avevano modificato i rapporti di forza nell’ambito della globalizzazione della produzione e degli scambi commerciali, la ristrettezza d’ambito di una analisi critica riservata soltanto ai rapporti tra persone, alla contrapposizione tra capitale e lavoro. Il capitalismo non sfruttava solamente le menti e le braccia dell’animale umano ma, per espandere la sua dominazione e fortificare i suoi interessi di classe, utilizzava tutto quello che era trasformabile in merce per immetterlo sul mercato.
L’antropocentrismo diventata tanto più evidente quanto più lo sfruttamento delle risorse ambientali e animali (umane e non umane) era necessario alla perpetuazione di una struttura economica proiettata a soddisfare bisogni sempre più enormi: la crescita esponenziale della popolazione mondiale, che oggi ha toccato gli otto milardi di individui, ha indotto il liberismo ad accelerare ancora di più l’intensività degli allevamenti, la deforestazione, lo sfruttamento del suolo e dei mari che si sono impoveriti progressivamente.
La tecnologia con cui si è messo in pratica tutto questo è stata adoperata mediante l’utilizzo di carburanti che hanno avvelenato e surriscaldato l’aria, alterando (quasi) irrimediabilmente la vita di tutte e tutti sul pianeta. Mentre tutto questo non conosce una fermata, un ripensamento nel semplice nome dell’ autoconservazione della “specie umana“, ogni anno centinaia di miliardi di esseri viventi considerati mangiabili, indossabili, sfruttabili in ogni modo, sono sterminati nel nome dell’accumulazione di altri capitali.
Quel capitalismo “dominato dalla crisi” (o dalle crisi…) e quindi “dipendente” dalla stessa che O’Connor mette al centro della sua analisi, oggi è in una fase di post-industrialismo, completamente immerso in una finanziarizzazione dei mercati che registra i suoi maggiori utili dagli scambi commerciali tramite Internet, passando per l’impalpabilità della reta, ma sfruttando sempre e comunque la forza lavoro di un proletariato mondiale irriconoscibile a sé stesso, maschera di un movimento internazionale dei lavoratori che non c’è e che non sembra volersi riprendere dal trauma della vittoria capitalista a far data dagli anni ’70 del secolo scorso.
Scrive O’Connor a questo proposito: «Indipendentemente dalla causa immediata della crisi, la ristrutturazione delle condizioni di produzione, al fine di aumentare i profitti, è una conclusione obbligata». Non se ne esce con tentativi riformisti o di “adeguamento” degli eccessi del capitale alla vastità del disagio sociale crescente e dilagante.
Non può esistere un compromesso tra espansione liberista e tutela dell’ambiente, protezione dell’eco-sistema, difesa della grande popolazione mondiale degli animali non umani che, in confronto a noi, almeno in quanto a numeri, sono i veri abitanti di questa malandata Terra. Per questo la lotta anticapitalista necessariamente include tutte le altre lotte e le esalta come fenomeni di acquisizione di coscienza per una liberazione veramente totale, che non riguardi solamente l’essere umano sfruttato dall’essere umano sfruttatore, ma l’animale non umano dall’animale umano che siamo noi e la natura intera sempre e soltanto in riferimento al nostro dominio mortifero.
Il concetto di “post-marxismo” che O’Connor introduce non è un andare oltre il marxismo stesso, ma un progredire verso una espansione critica che abbracci tutte le questioni irrisolte del nostro tempo e che ci trasciniamo ormai da troppi decenni, da troppi secoli in relazione a quello che, un po’ autoassolutoriamente, definiamo come “evoluzione” e “sviluppo“. Se davvero si tratta di acquisire più libertà per tutti gli esseri viventi e un equilibrio con l’interità della natura, allora non possiamo dire di vivere nel pieno di un’era di evoluzione e, tanto meno, di essere il motore dello sviluppo.
Soltanto uscendo dai dogmatismi di una sinistra ottusamente legata soltanto ai rapporti tra capitale e lavoro potremo ancora far vivere quella voglia di liberazione umana che è, e deve essere, allo stesso tempo liberazione animale e liberazione ecologica.
L’ECOMARXISMO
JAMES O’CONNOR
DATANEWS, 1990 / 1994
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MARCO SFERINI
11 gennaio 2023