Ci sono artisti che ti catturano per la bravura, per la passione, per la determinazione, per l’umiltà, per la coerenza. Hanno recitato per grandissimi registi in film indimenticabili, ma rimangono di una disponibilità unica. Valentina Carnelutti è una di loro. Ci siamo conosciuti anni fa grazie a Citto Maselli e oggi, nonostante gli impegni, trova un po’ di tempo per chiacchierare con me. Ha un sorriso che coinvolge anche via Zoom.

1. Valentina Carnelutti
Partirei da tuo padre, Francesco Carnelutti attore e doppiatore molto apprezzato. Ha doppiato Marlon Brando, Donald Sutherland, Anthony Hopkins. Ha recitato anche con Maurizio Nichetti…
Mio padre era molto amico di Nichetti, io ricordo Domani si balla. Maurizio mi aveva regalato una scimmia di peluche, l’ho dimenticata in banca.
Tornando a tuo padre, quanto ha influito la sua figura nel tuo percorso artistico?
Sto realizzando un documentario su mio padre. Un film sulla follia, sull’essere attore, sulla complessità della mente.
La sua influenza su di me è stata forte, in termini di creatività ma anche di difficoltà. Ora con la complessità ho deciso di farci qualcosa, dei film, insomma questo mestiere è anche un modo per elaborarla.
Non sono forse abbastanza ambiziosa per inseguire ruoli o posizioni. Essere attrice, autrice, è più un modo di vivere, e anche in questo credo che mio padre abbia segnato un cammino.

2. Francesco Carnelutti
D’altra parte ho avuto due figlie da giovane, ero ancora minorenne. E l’attrice è la cosa che ho saputo fare meglio, mi consentiva di mantenerci, di passare con loro del tempo di qualità, e di crescere come persona. Con alti e bassi non solo per me, ma anche per loro. É un mestiere dittatoriale, quando ti prende non ti molla e se molli sei fuori. Forse per farlo bisogna avere fame. O culo. Meglio avere tutte e due, e il talento.
Il tuo nome e il tuo volto sono legati indissolubilmente a La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, un’pera monumento e monumentale. Che ricordi conservi di quell’esperienza? Com’è stato immergersi in una storia così lunga e intensa, capace di attraversare generazioni e lasciare un segno profondo nel pubblico?
Quando sei immerso in una cosa non sempre hai la capacità di guardala da fuori e giudicarla. È un po’ come una relazione sentimentale: il commento arriva dopo, guardando indietro. Avevo 25 o 26 anni, le bambine piccole, quando è arrivato questo film: sei mesi, di lavoro, una cosa fantastica. Ma la consapevolezza che La meglio gioventù avrebbe avuto un impatto così grande sul cinema italiano è arrivata molto dopo. Se ricordi il film non è uscito subito nei cinema: è andato prima a Cannes, e solo in seguito è stato distribuito. L’Italia ha spesso avuto bisogno di un riconoscimento estero per riconoscere i propri valori. Penso al primo film di Emanuele Crialese per esempio, Respiro…

3. La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana
Marco Tullio Giordana è stato generoso con me, e mi ha dato fiducia nelle mie capacità, è stato importante. Il set era divertente, era tutto nuovo e c’era tempo per fare le cose bene. Marco Tullio aveva pazienza e rigore. E poi c’era mia figlia che interpretava me bambina, una felicità speciale. Ma la cosa più eccezionale per me allora era lavorare con dei coetanei – i fratelli, le sorelle, i mariti. Non mi era mai capitato. La sensazione di essere una banda, un gruppo che si muoveva insieme, credo ci abbia toccato in modo molto forte. Infatti quando ci troviamo anche a distanza di vent’anni resta quel sentimento elementare di fratellanza.
Poi La meglio gioventù ha vinto diversi premi, tra cui il Nastro d’Argento al miglior cast femminile, il premio Un Certain Regard a Cannes, ma per me è stata un’arma a doppio taglio. Ero parte di un film importante, ma non ero andata a Cannes, né a Taormina. Si dava per scontata un’appartenenza che però non corrispondeva alla realtà. E questo senso di essere al di fuori delle cose me lo sono portato dietro per un bel po’ di tempo.
Hai lavorato con registi straordinari: oltre a Giordana, penso a Paolo Virzì – con la tua interpretazione indimenticabile in La pazza gioia, che ti è valsa una nomination al David di Donatello – o ancora con Tutta la vita davanti, ma anche ad Andrea Segre, Theo Angelopoulos e Citto Maselli…

4. Tu devi essere il lupo (2005) di Vittorio Moroni
Mi sono data una scadenza: entro i trent’anni faccio un film da protagonista o smetto. Ed è arrivato Tu devi essere il lupo di Vittorio Moroni. Non so se poi avrei smesso davvero, ma forse avrei potuto smettere di pensare che attrice fosse il mio mestiere. Che non significa smettere di studiare, leggere o praticare, ma cambiare prospettiva. Quel film è stato importante: il confronto con un personaggio che ha sulle spalle le fila del film, e che ha una vita complessa e diversissima dalla mia. Ho scoperto un nuovo modo di fare ricerca nel lavoro. E ho imparato poi quello che succede dopo le riprese, i festival, gli incontri, l’importanza di dialogare con gli spettatori del proprio lavoro, le riflessioni a posteriori sul personaggio e le conseguenze di un’interpretazione…
L’anno successivo ho girato Jimmy della collina di Enrico Pau, tratto da un libro di Massimo Carlotto, presentato al Festival di Locarno. Uno dei film che ho amato di più nella mia vita. Era un film speciale, come un dolce buono fatto in casa, girato quasi come un documentario. Ero l’unica attrice professionista, oltre al caro Francesco Origo, gli altri erano persone che vivevano davvero la storia che abbiamo raccontato, detenuti che scontavano la pena in Sardegna, nella comunità gestita da Don Ettore Cannavera, un uomo straordinario. Un film impegnato, generoso, diretto da un regista con il cuore d’oro.

5. Jimmy della collina (2006) di Enrico Pau
Da lì ho iniziato a tracciare una strada più mia, più autonoma nelle scelte. Il film successivo è stato Sfiorarsi, che ho scritto insieme a Angelo Orlando…
Con Enrico Pau stiamo cercando di mettere insieme un nuovo progetto, una sceneggiatura splendida: un film politico, drammatico, noir. Non vedo l’ora. Anche con Angelo abbiamo ancora un film da fare insieme, tratto da uno spettacolo che abbiamo messo in scena più volte negli anni: Casamatta Vendesi.
Tornare a lavorare con un regista è un lusso!
Tra cinema, televisione, teatro e radio hai dato vita a tantissime donne combattive e combattute, tenaci, talvolta sole, con il tuo volto, il tuo corpo, la tua voce. C’è un’attrice che per te è stata un punto di riferimento?
Ci sono molte attrici che mi hanno ispirato e che ammiro, da Meryl Streep a Sarah Polley, per citarne solo due, ma per interpretare un personaggio l’ispirazione sono le persone, non le attrici o gli attori. Ogni film è un’occasione per immergermi in un mondo altro dal mio, e non è osservando un’altra o un altro interprete che riesco a farlo con autenticità, ma andando a esplorare nella realtà i sentimenti e le necessità che muovono le persone, nelle loro comunità e famiglie.

6. Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì
Anche per film più “mainstream” come può essere stato Tutta la vita davanti, che hai citato, il processo non cambia. Oggi siamo sommersi dalle telefonate delle persone nei call center, ma all’epoca del film era meno comune. Ecco, per un ruolo come quello c’è da andare in un call center, lavorarci, incontrare le persone, vivere quello sfinimento, sapere del telefono sbattuto in faccia, gli insulti… E mettere quella pena in relazione con qualcosa di sé, che certo bisogna avere il coraggio di guardare in faccia. In questo senso il mestiere è anche un’occasione per conoscersi.
La questione è perché si sceglie di dedicarsi a questo mestiere. Dico dedicarsi perché ti puoi dedicare anche senza farlo. Puoi scegliere di dedicarti anche quando non sei scelto per farlo.
Lo fai per la fama? Per il riconoscimento? Per i soldi? Ti ci trovi per caso? Vuoi raccontare storie? Cerchi una catarsi per fare pace con te stesso? I motivi possono essere infiniti. La mia scelta ha a che fare con il riconoscimento delle emozioni, le mie e quelle altrui. Quando vado al cinema e qualcosa mi tocca, che sia un’emozione felice, una commozione, una pena, mi riconosco, allora mi sento vista, compresa, e esco dal cinema appagata. Io faccio l’attrice per qualcosa che ha a che fare con questo: credo di avere uno strumento – il mio corpo, il mio cuore, il mio cervello – allenato per assumersi il rischio e il peso di dire cose difficili, o insolite, perché chi guarda possa sentirsi vivo, percepito, perdonato, amato, o semplicemente perché possa liberamente riflettere su qualcosa in compagnia. La compagnia dell’interprete.

7. La pazza gioia (2016) di Paolo Virzì
Nelle tue interpretazioni trasmetti emozioni, ma spesso anche un messaggio. Ti capita di prendere posizione: eri, ad esempio, tra i sostenitori della piazza per il disarmo, una scelta che non tutti nel tuo ambiente fanno, pur avendo un ruolo pubblico. Pensi che questo tuo impegno possa aver penalizzato la tua carriera?
La tua domanda è interessante. La risposta è non lo so. Forse sì. Viviamo in un mondo in cui, per sopravvivere o emergere, spesso si calpesta la moralità. Chi sostiene un’etica, una coerenza morale, inevitabilmente dà fastidio a qualcuno. Forse no. Le mie posizioni mi consentono di navigare serena, di trovare uno spazio coerente in cui mi sento comoda.
I miei motivi, però, sono cambiati nel tempo. Prima ti ho detto che non sono ambiziosa: anni fa lavoravo soprattutto per mantenere la mia famiglia. Ora che le cose sono cambiate, posso essere più autentica e pensare di più al mondo in cui vivo. Questo non significa che io rifiuti chissà quali copioni. È una navigazione complicata, un equilibrio difficile da rinnovare costantemente quello tra l’esserci e la scelta.

8. Citto Maselli e Valentina Carnelutti sul set de Le ombre rosse
Non mi piace portare un’etichetta, destra, sinistra. Certamente se fossi stata di destra Citto Maselli per esempio non avrebbe mai scelto me per la sua Margherita di Ombre rosse, né forse Andrea Segre per il suo Ordine delle cose. Mi piace quando si riesce a mantenere una coerenza. Non parlo di rigidità o dell’ottusità di chi non cambia mai idea, tutt’altro. Parlo della fatica che si fa a praticare ciò che si predica. Certamente è più facile essere coerenti se si è fortunati, in salute, economicamente al sicuro. Avere una casa di proprietà per esempio, banalmente, ti consente scelte più decise. Eppure, arriva un momento in cui bisogna mettersi in discussione, rischiare. I partigiani rischiavano la vita; noi, oggi, cosa rischiamo? Di non apparire nella prossima fiction?
Sei un’artista incredibilmente poliedrica: attrice, doppiatrice, regista, leggi libri alla radio e parli fluentemente cinque lingue. C’è qualcosa che non sai fare?

9. Valentina Carnelutti vista da Davide Sacco
Le pubbliche relazioni: sono un disastro. Me ne starei sempre a casa. E non sono particolarmente diplomatica: mi piace la franchezza, ma in un mondo dove si tende all’ambiguità, finisco per sembrare rude.
Però, quando c’è qualcosa che non so fare, cerco di impararla. Ad esempio, per un film dovevo dire sei battute in portoghese: non mi sono limitata a quelle, ho deciso di imparare la lingua e sono andata in Brasile. Oppure, quando porto la macchina dal meccanico, mi faccio spiegare come la ripara. È curiosità, mi piace capire.
Non riesco a stare ferma volentieri.
Tornando al cinema e in qualche modo alla prima domanda, quali sono i tempi del documentario su tuo padre?
È un lavoro lungo e avvincente che porto avanti da vent’anni. Ora il materiale è completo. Si comincia a montare. I tempi sono quelli della creazione!
Altri progetti?
Dovrebbe cominciare a breve la preparazione del mio primo lungometraggio, Margherita, che ha avuto il finanziamento da parte del Ministero. Un film in parte autobiografico sul tema del consenso, e dell’amore!
redazionale
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