Le ultime diciotto ore di Gesù

In diciotto ore può stare una vita intera. Soprattutto se è la vita di un giovane uomo che ha lasciato la casa paterna ai tempi dell’occupazione romana della Palestina...

In diciotto ore può stare una vita intera. Soprattutto se è la vita di un giovane uomo che ha lasciato la casa paterna ai tempi dell’occupazione romana della Palestina e ha girato per Galilea e Samaria a predicare l’avvento di una nuova società, di un modo diverso rispetto a quello in cui il popolo di cui fa parte, l’ebraico, è costretto a sopravvivere.

Diciotto ore, quindi, sono le ultime, ma sono anche quelle che danno origine al mito religioso di Gesù, di Joshua. Che ne perpetuano nei secoli dei secoli la figura di uomo giusto, retto e probo, così come quella di “figlio di Dio“.

La tradizione che ne nasce è canto popolare, rimando orale e scritto di una sacralità che, divenendo principio essa stessa della nuova religione che si diffonde nell’Impero romano, dopo l’opera di diffusione di Paolo di Tarso, sarà il dogma che si sostituisce alle precedenti credenze: dal politeismo di origine ellenica al monoteismo di derivazione giudaica.

Da Oriente, dunque, viene la nuova cultura anche filosofica, teologica e teleologica che prova a spiegare tanto le bellezze quanto le brutture del mondo, mettendo in risalto come tutto appartenga al disegno divino.

In fondo, il Cristianesimo funziona, al pari di altri culti, come una catarsi autoassolutoria che, per potersi esplicare tale nell’altra vita, dopo la morte, necessita di un comportamento adeguato al volere di quelle scritture che vengono aggettivate come “sacre” e che, almeno per quanto riguarda il Nuovo Testamento, partono tutte quante dalla fine delle diciotto ore di cui qui stiamo narrando.

Con un gentile incedere laico, per niente nascosto al lettore, Corrado Augias fa de “Le ultime diciotto ore di Gesù” (Einaudi, 2015) un racconto inebriante che non trascende la cruenza dei fatti, ma li ammanta di un fascino che va al dà del tempo.

Il piglio del cronista-storico somiglia ad una narrazione alla Flavio Giuseppe, capace di mescolare chiarezza e oscurità in una penombra di dubbi che accompagnano lettori e lettrici per mano dalla prima all’ultima pagina di un romanzo giallo che è racconto puntuale e meticoloso alternato ad una serie di dialoghi che fanno entrare in intimità nella quotidianità dell’epoca: dai tuguri della povera gente alle sale della casa del Sommo sacerdote.

Dall’essere presenze ectoplasmatiche tra le colonne delle stanze di Pilato, lì ad origliare con estrema curiosità ciò che il procuratore discute con la moglie Claudia. Roma appare lontana soltanto fino alla fine, quando a ritornarvi sarà una nave forse della flotta di Cleopatra. Una nave non maestosamente grande come si potrebbe immaginare.

Una bireme che solca il Mediterraneo in cui le aquile svettano sulle vele purpuree, gli elmi brillano al sole e in lontananza si scorge la punta di qualche estremità della Sicilia. Chissà se l’Impero sembra più vicino in quell’attimo a Pilato, piuttosto che nella sua lunga permanenza nella provincia di Siria. Gli accadimenti dell’epoca sono prodigiosi. Almeno così si racconta.

Le testimonianze che gli giungono sono incredibili, nel senso letterale del termine. Hanno del soprannaturale e lo legano ad una situazione politico-sociale effervescente, che fa della Giudea il territorio più irrequieto di quasi tutto il vasto impero dei romani.

Colpisce la ripetuta sottolineatura – da parte di Augias, seppure per interposta persona, mentre fa parlare membri del Sinedrio finiti “in minoranza” – del carattere estremamente religioso della società ebraica. Se le insegne dei cesari non svettassero agli ingressi delle città, da Cesarea a Gerusalemme anzitutto, lì il trono di Erode Antipa farebbe a gara con il potere della casta sacerdotale.

La lotta per l’indipendenza dell’antica Palestina, del popolo che chiama sé stesso “Israele“, facendo affondare nella notte dei tempi biblici la propria origine dalla servitù in Egitto, dalla liberazione mosaica e dal vagare nelle terre desertiche fino al raggiungimento di quella promessa dal Dio vivente, è fatta di cento fazioni che si diramano tra percorsi etnico-politico-religiosi.

Le distinzioni sono quasi sempre nuove anche per i romani che faticano a gestire una situazione in continuo mutamento. Pilato ne parla apertamente con Nikephoros e Kyrillos: lui vuole stabilità e certezza del proprio ruolo in un contesto magmatico.

Roma gli chiede rapporti: l’imperatore pretende risultati in quella terra di frontiera. Al di là c’è un Oriente inquieto. Dai parti alle tribù nomadi del deserto è tutto un pullulare di commerci, di pressioni che si spingono dalla remota e sconosciuta Asia fino all’antica Mesopotamia e, da lì, sulle coste del Mediterraneo.

La via economica va salvaguardata e, con essa, ovviamente il potere istituzionale, politico. Il che vuol dire impedire che zeloti e indipendentisti varii sobillino il popolo, magari spingendolo a non pagare più le tasse.

Quando nella commercialissima sacralità del Tempio Joshua rovescia i banchi dei venditori di animali per i sacrifici, di cambiavalute e di osti, l’immagine che il futuro ne trarrà sarà quella della rivolta contro una corruttela religiosa che ha tradito le leggi dei padri, che ha mescolato ciò che i romani chiamano “sacer” con il profano dio del denaro e dell’avidità.

Molto più probabilmente il figlio del falegname di Nazareth intendeva mandare un messaggio a chi aveva accumulato troppo potere, sommando cariche ecclesiali a cariche temporali e che aveva una sua polizia per far regnare l’ordine.

Tre sono, infatti, le autorità che incontriamo sempre nella vita di Gesù: quella del procuratore romano che rappresenta Tiberio; quella di Erode, il re fantoccio che regna per grazia di Roma; quella della casta sacerdotale ebraica che si raduna nell’assemblea del Sinedrio.

Intorno a questo trittico ruota la vicenda delle ultime diciotto ore di vita del profeta Joshua che, sebbene le raffigurazioni iconiche che si sono prodotte a migliaia nel corso dei secoli lo abbiano rappresentato nelle più diverse ma anche molto simili sembianze, rimane per noi un volto sconosciuto.

Così come l’agiografia religiosa ha trasfigurato le immagini di sua madre Miryam e di suo padre Joseph. Attorno alla persona della genitrice ruota la mariologia che sarà costruita come elemento ambivalente nel culto cristiano, in quanto prosecutore della tradizione pagana di una presenza tanto maschile quanto femminile nel parterre di dei che affollava il politeismo di allora.

Il Cristianesimo è monoteista e risolve il problema della compresenza di Dio, di suo Figlio e dello Spirito Santo con il dogma trinitario. Accanto pone la figura di Maria che, in quanto madre del figlio del Padre, diviene essa stessa “madre di Dio“.

Il mito oltrepassa i confini di sé stesso, perché la religione diventa elemento costituente e rifondante lo Stato romano che ha bisogno di nuove certezze per non crollare sotto il peso di un potere che, altrimenti, in quanto proclamatosi “parola divina” e “vera fede” tra quelle invece false, sormonterebbe il dominio dei cesari.

Il concetto di eresia inizia a farsi spazio, sgomitando tra le tante interpretazioni della parola e dell’azione di Joshua e il protagonismo di Gesù, per quanto Augias tenti di metterlo al pari della storia coeva di altri personaggi che, seppure in secondo piano, hanno avuto un ruolo primario in quelle ultime diciotto ore della vita del profeta di Nazareth, viene comunque indubitabilmente fuori.

Primeggia, per così dire, perché la storia termina, ed inizia contemporaneamente, con la crocefissione, mentre gli storici e gli agiografi dell’epoca, ancora mezzo secolo dopo si affannano a trovare una conciliazione tra emersione del Cristianesimo e potere romano: siccome non si può dare la colpa della morte del Figlio di Dio alle istituzioni che lo hanno condannato ufficialmente, ci si inventa l’anatema ebraico contro lui.

Non che il clero sinedrita non avesse motivi di avversione nei confronti dei profeti che pullulavano nella Palestina di allora. Molti erano dipinti come candidi sognatori, ognuno dei quali proclamava la venuta del Messia, del “liberatore” del popolo.

Joshua è però diverso da costoro. Solo di rado si lascia andare a moti di collera. Parla pacatamente, ha una parola buona per tutti i derelitti. Siede su sassi, rocce, prati e predica l’amore per il prossimo, la giustizia, l’uguaglianza. Manda al suo mondo un messaggio di fratellanza universale e non contraddice il potere politico.

Ma mette in guardia chiunque incontri: le ingiustizie esistono, vanno contrastate ma mai con la violenza. Il suo è un messaggio rivoluzionario, perché sovverte i canoni morali di una legge dei padri ebraici che invece grida: «Occhio per occhio, dente per dente».

Augias riprende l’enormità della rivoluzione ghandiana che è un buon parallelo col messaggio di Joshua: il porgere l’altra guancia spiazza, inorridisce, impietrisce. Come si può scendere così in basso, umiliarsi e degradarsi al punto da voler amare i propri nemici, benedire chi ci maledice e far del bene a chi ci fa del male?

Sarà un po’ quello che proprio il Mahatma insegnerà ai sudafricani e poi agli indiani del Novecento. Sconfiggere la paura con la determinazione e la forza con l’azione tutt’altro che passiva, ma non violenta. L’impero inglese ne uscirà sconfitto; eppure verrà a patti con Ghandi. L’Impero romano non farà a tempo a venire a patti con Gesù.

Dovrà fare i conti col Cristianesimo che, rispetto a Cristo, sarà ben altra cosa fin dalla sua prima apparizione sulla storia religiosa, politica e sociale del vicino Medio Oriente. La diarchia tra potere temporale e potere spirituale accompagnerà la vita dei grandi Stati europei, degli imperi che succederanno a quello romano d’Occidente e terminerà soltanto, nei suoi strascischi ottocenteschi con la comparsa degli Stati nazionali.

Il Sacro Romano Impero cadrà prima dello Stato della Chiesa, ma il Cristianesimo come grande religione tra le altre monoteiste, è e rimane, dopo i trentatré anni di vita e le ultime diciotto ore della vita di Joshua, indubbiamente uno dei più sconvolgenti fenomeni globali perduranti sul pianeta. È una caratteristica propria dei culti, anche se non è una legge meccanicistica, una impronta ancestrale degli stessi.

Lo stile plurale di Augias aiuta a distinguere i livelli storici da quelli politici, così pure da quelli della vita sociale della Giudea romana. Ma, pur nella distinzione, questi livelli restano inseparabili fra loro: lo si avverte soprattutto quando a confronto si trovano Pilato e Joshua o Caifa e Pilato o, ancora, durante le testimonianze che sono narrate in prima persona. Sembra di stare lì, seduti ad ascoltare chi parla.

Intorno a tutto ciò aleggia il mistero della vita di Joshua e del suo arresto. Poi della sua morte. La resurrezione è, come i miracoli che gli vengono attribuiti, qualcosa di sentito dire, su cui Roma indaga ma su cui non viene a capo. Forse perché non c’è nulla di cui venire veramente attualisticamente, e poi storicamente, a capo.

Il grido di morte sulla croce è un esempio narrativo di come, durante i decenni prima, ed i secoli poi, il racconto si stato adattato alle esigenze della cristologia che si andava affermando e della cristocentricità dei Vangeli dichiarati dalla Chiesa “canonici” ossia “legittimi“: “verbum Dei“.

Del messaggio umanamente probo, interprete dello strazio della povera gente che faceva la fame, immiseriva e pativa tanto sotto il dominio degli imperatori romani quanto sotto quello delle caste sacerdotali e dei regni fantocci, di quell’esortazione ad amare la vita nonostante tutto, è rimasto qualcosa in una speranza di uguaglianza che sopravvive nell’ottimismo che, duemila anni dopo, conservano quei progressisti che guardano ad un cambiamento a centottanta gradi della società…

LE ULTIME DICIOTTO ORE DI GESÙ
CORRADO AUGIAS
EINAUDI, 2015
€ 12,00

MARCO SFERINI

22 maggio 2024

foto: particolare della copertina del libro, particolare del dipinto di Antonio Ciseri “Ecce Homo“, olio su tela, 1890, Firenze, Galleria d’Arte Moderna


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