L’accusa per Mohsen Shekari era di “inimicizia contro Dio“. E’ il 476esimo manifestante ucciso dalle autorità della Repubblica islamica iraniana per le manifestazioni di piazza contro il regime, dopo la morte della giovane Mahsa Amini, ammazzata per aver indossato impropriamente l’hijab.
Mohsen è stato impiccato e, quindi, a differenza di chi è stato ucciso in strada e nelle piazze durante le lunghissime settimane di rivolte contro il regime degli ayatollah, qui ci troviamo davanti alla prima esecuzione di una condanna a morte che vorrebbe essere un deterrente nei confronti della cosiddetta “rivoluzione gentile“.
La gentilezza, si intende, da parte della maggioranza delle e dei manifestanti: perché questa è prima di tutto la rivolta delle donne iraniane che non intendono più vivere in uno Stato teocratico, in una dittatura che, pur essendo un contraltare dell’imperialismo americano, è impossibile sostenere visti i suoi caratteri nettamente distintivi in quanto a repressione totale del dissenso, limitazione della libertà personale e collettiva, contenimento feroce della critica in ogni contesto di vita sociale e civile.
Più ad est, a Farah, nell’Afghanistan trasformato un anno fa in Emirato islamico, un altro regime teocratico e totalitario, quello dei talebani, mette fine alla mai dichiarata moratoria della pena di morte con una pubblica esecuzione nello stadio cittadino: il leader supremo Hibatullah Akhundzada ha approvato la sentenza capitale contro un omicida.
Alla presenza di mezzo governo di Kabul, la famiglia della vittima, seguendo scrupolosamente la reimposizione della legge del taglione, dà corso alla condanna. Non si conoscono le modalità precise di questo orrore, ma sembra che, come in Iran, anche in Afghanistan si prediliga l’impiccagione al dispendioso spreco di pallottole…
Tanto il regime di Teheran quanto quello di Kabul rivendicano la legittimità dei loro atti sulla base di una legge coranica, mentre nel libro sacro dell’Islam (basta leggerlo per rendersene conto) non vi è una sola riga che affermi che la morte deve essere una pena da comminare, soprattutto se non si indossa un copricapo, se la si pensa in modo diverso dai propri simili e si vuole criticare, vieppiù, il proprio governo.
A regolare il teocraticismo dei paesi musulmani viene chiamato un procedimento interpretativo del Corano, una sua declinazione legalistica definibile nel concetto di “al-mushaf” a cui si vanno a sommare tutte le pratiche della tradizione, i riti, le diverse abitudini che i singoli popoli hanno via via sviluppano nella regolamentazione di un diritto piuttosto aleatorio, trasmesso di padre in figlio, estraneo comunque a qualunque tipo di costituzionalismo – va detto – occidentalmente inteso.
In questo codice di condotta morale, civile e sociale, quindi individuale e collettiva, rientrano i precetti del profeta Muhammad che, in quanto comportamento di un uomo ispirato direttamente dalla divinità, valgono in equipollenza al pari dei testi che si rifanno al libro sacro dell’Islam, sempre per interpretazione.
Le storie delle teocrazie africane, mediorientali ed asiatiche, quelle che nel corso del cammino umano sono più evidenti rispetto ad altri esempi più sporadici nella loro durata temporale (come i regni musulmani nella Spagna della successiva “reconquista” o nella presenza araba in Sicilia), non sono tutte esattamente riconducibili ad un unico codice comportamentale, ad una univoca voce di un potere che disciplina la vita delle persone senza distinzione alcuna.
Al pari del mondo cristiano, la religione viene utilizzata dai singoli governi come instrumentum regni e, in quanto tale, adattata scrupolosamente alle più antiche abitudini popolari, per preservare da un lato una tradizione che diventa conservazione sociale e, dall’altro, conservatorismo politico.
Tanto quanto la Bibbia e, in particolare, dei Vangeli canonici, il Corano ha conosciuto diverse trascrizioni (e riscrizioni), per meglio adattarlo alla comprensione dei tempi, centellinandone le modifiche ora sulla rimodulazione grammaticale, ora sul contenuto vero e proprio.
Come tutti i grandi libri considerati “sacri“, quindi emanazione diretta di dio, parola dello stesso, sia che provenga dal racconto della vita di Gesù Cristo mediante le versioni dei quattro evangelisti, sia che origini dalla stesura fatta quarant’anni dopo la morte di Muhammad dal califfo Uthman ibn Affan (il “ben guidato“), si impone, ad un certo punto, quale legge fondante il potere e sostituisce quella che, in un certo qual modo, possiamo definire come “tradizione laica” delle società pre-cristiane e pre-islamiche.
La teocrazia nasce e si consolida come forma di governo suprema, proprio perché unisce la profonda devozione del popolo verso la parola di dio alla venerabile autorità del sovrano che, proprio perché tale, è e non può non essere diretta espressione della volontà di colui il quale non si può pensare nulla di superiore, diceva Anselmo d’Aosta.
Il potere di grandi sovrani del Sacro Romano Impero ha potuto rimanere immutato e preservarsi nel corso dei secoli, grazie alla benedizione papale. Nel momento in cui, sulla nomina dei vescovi si incrina questo equilibrio tra Impero e Papato, si scatenano le lotte per le investiture in Europa, mentre nel mondo islamico si avvicendano le dinastie che si scalzano nel nome della discendenza dal profeta Muhammad.
Lo stesso quasi millenario Impero Ottomano, ligio all’islamismo sunnita, ha mantenuto un controllo rigido sulle minoranze religiose presenti al suo interno (le “millet“), pienamente consapevole che la loro importanza diveniva quasi stragegica quando si trattava di mantenere il controllo sulle vaste aree di uno Stato che abbracciava tre continenti e che si proponeva di allargarsi verso l’interno dell’Europa, espandersi nel resto dell’Arabia e del Medio Oriente, penetrare ancora più a fondo nelle regioni africane.
Andando ancora indietro nel tempo, arrivando alla Roma dei Cesari, il fenomeno teocratico venne rivestito dalla figura dell’imperatore pur rimanendo in secondo piano rispetto alle prerogative piuttosto militari e politiche che lo stesso Augusto, pontefice massimo, aveva messo in primissima rilevanza, mostrando così di avere a cuore tanto la tradizione dei padri in materia di culto quanto il comando diretto su tutte le legioni: l’imperium, quindi.
Il pragmatismo romano del potere principesco, dopo la lenta transizione dalla repubblica all’impero consolidatosi nel corso della dinastia giulio-claudia, non sottovaluta il fenomeno religioso in quanto espressione del fervore delle masse, ma è molto lontano dall’esserne preda, dal farne l’elemento fondante di un controllo sul popolo.
Si preferisce rifarsi ai vecchi culti, mentre il cristianesimo prende corpo e incede anzitutto nelle regioni orientali del grande apparato dello Stato romano, divenendo un culto alternativo, ma un culto organizzato, con una sua struttura piramidale, con un comunitarismo che, ben presto, passa dalle “comunità di base” alle “diocesi“, alle sedi vescovili e, infine, al primato papale.
Ogni religione ha le sue proto-storie, la sua originale originarietà che viene alterata dalla seduzione dell’allargamento del consenso che induce alla procrastinazione di eccezionalità nell’interpretazione dei testi sacri che finiscono per essere sempre più allontanati da sé stessi e utilizzati per il controllo sociale, per la solidità del potere, per la sua unità imprescindibile tra fede, ragione, Stato ed economia.
La religione, proprio studiando il fenomeno che la riguarda sul piano sociale, civile, morale e statuale, è sempre più evidente come lontananza dalla credenza e vicinanza alla superstizione dettata da regole che giovano esclusivamente al mantenimento dei privilegi di classe, di alcune grandi casate nobiliari un tempo, di gruppi di sacerdoti, ricchi e potenti padroni e mercanti nei secoli passati, di agiatissimi imprenditori e finanzieri oggi.
La religione è ciò che gli uomini dicono di dio e inventano su dio per sopravvivere, certamente, anche alla durezza dell’apparente (e irrisolvibile) dilemma dell’insignificatezza dell’esistenza nel mistero dell’universo.
Ma, di più ancora, la religione è parte indissolubile del potere: sia che si tratti di piccole comunità indigene, dove lo stregone esercita questo ruolo di autorità nell’essere praticamente il “saggio“, il sapiente che si accompagna al capo o al re; sia che si tratti di grandi apparati statali ben consolidati, dove il clero partecipa ad ogni passaggio della vita istituzionale: in pace e in guerra.
Tutto ciò prescinde, come è ovvio intendere, dall’esistenza di dio.
Essere critici verso il fenomeno religioso non significa meccanicisticamente essere atei, a meno che con questo termine non si voglia riferirsi esclusivamente agli dei o al dio che gli esseri umani hanno creato a loro immagine e somiglianza, oppure immaginandolo con due, tre gambe, otto braccia, su un monte alto o sopra le nuvole, con un corrispettivo malefico nelle profondità della terra o con schiere di angeli suonatori di trombe nell’empireo non più platonico.
Molto più stimolante è l’alimentazione del dubbio sull’esistenza o meno di un essere ordinatore dell’esistente, creatore di tutto ciò che esiste se si prescinde dai tanti racconti che ci sono stati tramandati e che sono diventati i “testi sacri” su cui fondare i poteri statali che, a loro volta, sono garanzia delle prosperità economiche di caste e classi privilegiate, mentre immense masse di proletari sopravvivono a mala pena nel cosiddetto “mondo moderno” di oggi.
L'”ipotesi dio” è affascinante, ma anche molto semplicistica nel suo essere l’unica soluzione a tutto ciò che non conosciamo e che non potremo mai conoscere. La scienza ci avvicina alla scoperta progressiva, a piccole soluzioni che, pure, sono passi da gigante se si considera il grande sviluppo avuto nel corso del secolo scorso. Ma non potrà mai spiegare tutto, non potrà mai risolvere il mistero dell’universo e dell’esistenza.
Le teocrazie, se non contrastate da una rivolta laica che affermi la ragionevolezza dell’uguaglianza nel nome della libertà e del diritto all’esistenza in quanto tale per ogni essere vivente (non solo umano), avranno sempre un margine su cui giocare la loro fondatezza: l’ignoranza propriamente “universale“, quella dell’inconoscibilità della vita fino in fondo, che si rifà ad aspetti prettamente gnoseologici, unita però ad un mantenimento di un’altra ignoranza, più propriamente (anti)sociale e che riguarda il particolare quotidiano, la vita di tutti i giorni.
Per rimanere salde alla guida degli Stati che governano, i teocrati di qualunque tipo hanno bisogno di impedire un razionalismo diffuso, una critica laica, un approccio uguale e contrario alla fede, una messa in discussione del fondamento sul “nulla” attraverso cui la gestione del potere sembra apparentemente molto semplice.
Perché non si danno spiegazioni, ma si forniscono solo dogmaticità, verità incontestabili e si mantengono i popoli dentro un perimetro di regressione culturale che ammette soltanto l’evoluzione se finalizzata alla preservazione del potere di una classe sulle altre. La teocrazia non è mai “amica del popolo“, ma è sempre sua avversaria e lo è tanto moralmente quanto materialisticamente.
Il trascendentalismo della maggior parte delle direttive morali, affidato alla preghiera, quindi al rivolgersi a qualcosa che è superiore, ad esempio, agli ayatollah iraniani, è uno strumento antico come il mondo: il timor di dio prima ancora del timore della autorità. Ma il secondo senza il primo non può esistere e, per questo, la religione è e rimane, nella straordinaria modernità di un mondo che riteniamo – con troppo superficiale ottimismo – avanzato e civile, un pilastro del potere più retrivo.
Ogni conservatorismo è amico del tradizionalismo religioso, dei culti primordiali, dell’antico che si sposa con la preservazione delle abitudini e di ciò che si tramanda e che pretenderebbe di prescindere dalle conquiste sociali e civili guadagnate da grandi rivoluzioni popolari, da grandi sovvertimenti degli ordini costituiti.
La Storia procede anche per rivoluzioni, per strappi violenti e repentini. Ma la tramutabilità delle società è, anzitutto, cambiamento sociale, mutamento economico, rapporto fra le diversità di vita nella popolazione. Bergsonianamente potremmo sostenere che, comunque la si pensi, non si può prescindere da una spiritualità che vive unitamente alla materiatlià dei nostri corpi, dei cambiamenti che, letteralmente, viviamo sulla nostra pelle.
Dobbiamo impedire al potere di esercitarsi tramite l’irrazionale: religioso, magico o di qualunque altro tipo. Dobbiamo pretendere che ogni Stato si rifaccia all’oggettività del reale e non alla trascendenza del divino. Dobbiamo affermare, soprattutto quando sembra impossibile, la più sfacciata delle laicitò, se questo significa combattere un potere che intende negarci di pensare senza un dio o di pensare a dio senza fare riferimento alcuno a tutti quelli che sono già stati pensati nel corso di migliaia e migliaia di anni.
MARCO SFERINI
8 dicembre 2022
Foto di mohd Shajid