Se c’è una speranza per la sinistra comunista, di alternativa, radicale, di riconquistare una connessione non meramente emotiva ma fattivamente politica e sociale, ebbene questa speranza a mio avviso non può che passare nella ricostruzione di un confine, di una linea non di separazione ma di distinzione tra i comunisti e tutte le altre forze politiche che, invece, a differenza nostra, accettano il punto di vista del mercato come elemento regolatore della vita quotidiana.
Per ridare prima un significato e poi un senso all’aspirazione grande del cambiamento a cento ottanta gradi della società in cui viviamo, volendo rovesciare i rapporti di produzione e di proprietà dei mezzi di produzione, noi comunisti non possiamo prescindere da tutto questo.
Mi rendo conto che significa fare a pugni con le tentazioni anche giustamente rivendicate di patteggiamento con le forze meno reazionarie davanti a quelle più reazionarie.
Ma l’illogicità della scelta di alleanze con il “meno peggio” è una scelta che può adrenalizzare sul momento, ma che non paga nel lungo termine e che rimanda sine die proprio il percorso, che necessariamente va rimesso in essere, della costruzione di una nuova egemonia culturale e sociale dai contenuti antichi.
Antichi perché non sono mutate le relazioni di classe: la lotta di classe esiste, ma esiste in gran parte per il capitale e in piccolissima parte per mondo del lavoro, per il moderno proletariato.
Ho maturato questa convinzione dopo aver riflettuto tanto, letto, discusso.
O si fa camminare insieme il demone della cultura sociale e delle cultura critica con quello della riorganizzazione politica, oppure non c’è alleanza, patto o sigla elettorale che possa rilanciare veramente l’alternativa di società tanto in Italia quanto nel resto del mondo.
E’ una riflessione amara, perché parte dal presupposto di essere minoritaria. Ed è minoritaria. Più ancora minoritaria di altri entusiasmi che si profondono in appelli e lettere aperte per la nascita di una sinistra al passo coi tempi e che, invece, non risulta altro se non pericolosamente al seguito di idee che seguono comunque l’orizzonte della riforma del capitalismo come fronte rivoluzionario massimo.
Una prospettiva fallimentare che non può arrivare lontano. Mentre quella che dovremmo proporre noi comunisti è ancora tutta da reinventare, da ricominciare.
Ma anche nel 1921 i comunisti si ritrovarono a riunirsi in un teatro dove al suo interno pioveva per il diroccamento del tetto e delle pareti, mentre il Partito Socialista Italiano teneva l’epilogo congressuale del suo distacco dalla Terza Internazionale in un ambiente decoroso e pulito.
Ecco, noi ci troviamo in un nuovo teatro diroccato, senza tetto, senza molte pareti ancora rimaste in piedi. Ci riuniamo, come i comunisti di allora, con gli ombrelli aperti ed in piedi, invece che comodamente seduti sulle poltrone di velluto di un teatro riscaldato.
Dobbiamo essere consapevoli che la nostra giusta lotta è tutta volta al miglioramento della vita di ciascuno per il miglioramento della vita di tutte e tutti.
La rifondazione della sinistra italiana passa anche per la “rifondazione comunista” che è un processo aperto, dinamico e che in troppi si sono affrettati a dichiarare morto e sepolto.
Qualcuno diceva ciò dei primi cristiani, mentre tutto intorno prosperava il paganesimo. Eppure il cristianesimo è vivo e si è manifestato, in mezzo a mille contraddizioni, per oltre duemila anni in diverse correnti.
Alcune di queste sono più rivoluzionarie del nostro comunismo. Per questo esiste una speranza. Per questo va alimentata con la consapevolezza che una vita non basta a realizzarla, ma serve per continuare il viaggio di un cammino umano, abbandonando la triste attuale sopravvivenza dei popoli.
MARCO SFERINI
redazionale
foto tratta da Pixabay