Per certi versi, in questi lunghi anni di traversata in un deserto di cui ancora si fatica a vedere la fine, arrivando ora alle soglie del X Congresso nazionale del Partito della Rifondazione Comunista, mi sembra di ripercorrere un poco le atmosfere, i timori, le sensazioni e le mancate percezioni sul futuro di una forza politica cui tocca il compito, dopo ventisei anni di vita, di ritrovare sé stessa dopo aver perso gran parte della sua forza attiva, della sua rappresentanza politica istituzionale e del suo legame con le realtà per cui nasce, esiste e deve crescere una forza comunista: il mondo del lavoro.
Dal 1991 ad oggi
Gli anni della prima Rifondazione Comunista erano stati tutti tesi a impedire una soluzione di continuità con un recentissimo passato in cui i comunisti avevano rappresentato uno degli assi portanti della politica nazionale e locale dell’intero Paese: non si era proprio arrivati all’avere un sezione ovunque sorgesse anche un campanile, ma si era arrivati a stimolare certamente, tra molte contraddizioni, un dibattito e una tensione politica che investivano le viscere dell’essere umano, del cittadino, del compagno e della compagna attivamente impegnati in quotidiano che si nutriva di critica sociale, di ricerca, di inchiesta personale e collettiva sulle ragioni di ciò che avveniva intorno.
Era quel “Paese nel Paese” che aveva richiamato Pasolini, ed era quel grande Partito Comunista Italiano che poteva e doveva essere oggetto di critica perché, proprio in quanto enorme costruzione politica, sociale e civile, raccoglieva diverse culture e interpretazioni tanto sull’ideologia strettamente concepita come tale e il suo riversamento nella pratica quotidiana, il suo farsi sperimentazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole e università e nel vasto mondo di una cultura che era comunista e di sinistra perché proponeva una alternativa di pensiero rispetto a quello dominante.
Gli anni della prima Rifondazione Comunista avevano ereditato tanto lo slancio del binomio “autonomia e unità” del vecchio PCI quanto le preveggenze libertarie di Democrazia Proletaria, della Nuova Sinistra che aveva provato a sganciare i comunisti e le comuniste dall’utopia sovietica di conciliazione tra potere, rappresentanza del medesimo e diritti sociali e civili. Il grande dilemma del socialismo del ‘900 è stato questo: la coniugazione impossibile (quanto meno resa tale dalle circostanze e dalle scelte politiche fatte) tra la libertà dall’economia e dalla schiavitù del lavoro salariato e la libertà di parola, di pensiero e di azione.
Quel nome, “rifondazione comunista”, scritto maiuscolo era diventato il nome del nuovo Partito Comunista in Italia, ma scritto minuscolo era, e tutt’ora rimane, un percorso politico dove la scissione tra sostantivo e aggettivo avrebbe rappresentato, questa sì, una soluzione di continuità con il comunismo italiano del ‘900.
Rifondare ieri e rifondare oggi, essere comunisti ieri ed esserlo ancora oggi: non per civetteria, per illusione o per disillusione quasi verso una rassegnazione davanti all’evidente marginalizzazione delle ragioni dell’egualitarismo sociale, civile e intellettuale dei popoli, ma esserlo perché non vi è alternativa, non vi è piano B che tenga se non la proposta di superare il capitalismo.
I tentativi della “sinistra” senza aggettivi
Coloro che, scindendosi da Rifondazione in diversi tempi e modi, hanno proposto la governabilità del sistema attraverso la procedura di definirsi essi stessi “sinistra di governo”, non sono riusciti non solo a governare i processi di condizionamento della politica e della vita sociale da parte del capitale, ma sono diventati i servitori cortesi di coloro che dicevano di voler combattere e di cui volevano prendere il posto.
Il fallimento socialdemocratico italiano, sia di vecchio modello (PSDI) sia di nuovo modello (PDS, DS, sinistra PD e SEL), si dimostra tale anche oggi nel momento in cui non riesce ad essere attrattivo per la creazione della tanto celebrata “sinistra moderna”, quella senza aggettivi, quella cui ogni riferimento al comunismo è porre steccati identitari, riferirsi a chissà quale vecchia ferraglia arrugginita.
Le sconfitte dunque sono molte: dei comunisti, dei socialdemocratici, dei socialisti, degli ecologisti, dei libertari. Diciamo che il mondo del progressismo è ignorato dalla maggioranza di coloro che dovrebbero sentirlo vicino ai propri interessi di classe, quindi ai propri interessi economici e di vita, perché ha vinto lo schema della ricchezza a tutti i costi rispetto a quello del livellamento egualitario che impone sacrifici differenti da quelli delle politiche liberiste, meno invasivi, ma tuttavia impone il cambiamento, prima di tutto, degli stili di vita.
E tutte e tutti noi, nel bene e nel male, non abbiamo saputo valorizzare il ruolo di opposizione che avremmo dovuto mantenere rispetto ad esperienze come quella del centrosinistra in fasi della recente storia italiana dove le destre fasciste e xenofobe, unite a quelle liberaleggianti, ex craxiane, di Forza Italia, si mostravano come pericolo per la democrazia, per il vivere civile, per la stabilità del Paese. E lo erano. Erano un pericolo da affrontare con una determinazione cogente, quasi inflessibile: se allora ci fossimo rifiutati, dopo l’esperienza poco positiva dei Progressisti (che tuttavia rimane l’ultima esperienza unitaria a sinistra prima della formazione del bicefalo centro-sinistra dalle alterne fortune…), di far parte in forme differenti (desistenza, partecipazione esterna, partecipazione governativa) del centrosinistra saremmo stati accusati di ciò di cui, alla fine della fiera, ci hanno sempre accusato: di voler far vincere le destre e consegnare il Paese nelle loro mani.
La vittoria delle destre
Poi il Paese nelle mani delle destre è finito davvero: destre più intransigenti, quelle che si fingono “sinistra” e che governano la politica del lavoro e le vite delle persone più deboli con i parametri delle grandi banche, del potere finanziario. Colpa della crisi, si dice. Almeno questa non è stata ascritta ai comunisti.
Ma la crisi è tutta generata da una sovrapproduzione che costringe la concorrenzialità all’eccesso, che fa scontrare i poli economici tra loro e genera speculazioni immani che da qualche parte si devono riversare.
Così a riempire il vuoto lasciato dai comunisti e dalle altre forze della sinistra sono arrivati i Cinquestelle, trasversali in quanto ad impostazioni ideologiche, anzi a-ideologici, senza alcuna impostazione di classe, nessuna critica al capitalismo, nessuna difesa in prima istanza del mondo del lavoro. Semmai delle “classi medie”: un po’ come si comporta il Partito democratico americano quando vuole apparire progressista, e un po’ come si comporta Donald Trump quando parimenti si esercita nel ruolo di difensore dei proletari a stelle e strisce.
Dunque, in questo complesso stanco, decadente mondo moderno, tecnologico e iperattivo, veloce e senza freni, i comunisti sembrano come gli Jedi dopo la “grande purga” di Sith: quasi estinti.
E a dare una mano a questa tesi vengono incontro tutti coloro che immaginano di potersi rigenerare a sinistra definendosi culturalmente e politicamente così: “sinistra”. Senza ulteriori specificazioni, aggettivazioni. Non è un elemento affatto secondario. Sono anni e anni che rivolgo questa critica a chi si ostina a non definirsi, a non chiarire esattamente il progetto politico che lo caratterizza.
La difesa, in questi casi, è: certe categorie sono superate. Eppure il capitalismo è sempre lì, anzi è sempre qui, tra noi, ci vive ogni giorno con i suoi falsi bisogni, ci rende poveri, ci umilia con i voucher, ci nega il futuro, eppure non si fa strada tra gli sfruttati moderni una moderna critica anticapitalista; non rinasce nessuna voglia di rivolta, di alternativa, nessun sogno di costruzione di una forza che compatti chi vuole superare il capitalismo.
Il pensiero unico non ha fatto breccia ovunque: vi sono ambiti politici a sinistra dove la critica rimane solida, dove si sviluppa ma si rifiuta di riproporsi come “comunista”. Quell’aggettivo fa paura? Intimorisce forse i padroni? Purtroppo no. Intimorisce proprio e soprattutto una certa sinistra.
E fino a che non sarà chiarito il confine che si intende stabilire tra conservazione dell’esistente e alternativa sociale, sarà molto complicato poter costruire un quarto polo anche semplicemente antiliberista (che è un valore un gradino più in basso dell’essere “anticapitalista”, visto che il liberismo è una produzione del capitalismo, del sistema nella sua interezza e globalità).
Il X Congresso del PRC
E’ necessario, dunque, che il X Congresso nazionale di Rifondazione Comunista formuli una chiara linea politica da seguire senza tentennamenti: la costruzione dell’alternativa di sinistra a questa politica italiana fatta di tre destre passa per il rilancio del progetto (minuscolo grammaticalmente parlando, maiuscolo politicamente) della riproposizione, quindi della rifondazione, del comunismo come movimento, come sponda culturale, come approccio sia teorico che pratico verso una formulazione di nuove coscienze di classe.
Servirebbe anche leggere Marx per ottenere tutto questo, ma sarebbe già sufficiente conoscere i fondamenti di un progetto politico attuale che rimetta in campo l’opposizione come elemento fortemente rifondativo di tutto ciò.
Senza la ricaratterizzazione dei comunisti come forza di opposizione, quindi di netta alternativa a tutte le altre forze politiche presenti in campo, non può esservi nessuna crescita politica perché non può nascere nuovamente alcuna percezione di alterità dei comunisti rispetto all’omologazione regnante tra le altre forze che oggi sono sia maggioranza sia opposizione nel Parlamento e nel Paese.
L’opposizione comunista deve diventare il nuovo binomio che si accompagni alla “rifondazione comunista” stessa. Senza questa rimodulazione sia del pensiero che della pratica, sia della teoria che dell’attività di partito (e di movimento più generale e vastamente inteso), la ricostruzione della sinistra finirà per essere un tentativo di accedere ancora una volta alla “governabilità” del sistema, al “temperamento” degli eccessi del liberismo.
Come ho già avuto modo di scrivere qui su la Sinistra quotidiana, il binomio antico, già richiamato ad inizio di queste lunghe righe, formato da “autonomia e unità” è ancora utile a definire un rapporto tra Rifondazione Comunista e l’esterno politico che le è immediatamente vicino. Ma questa esternità deve essere concepita come luogo non di cessione della sovranità del Partito per meri fini elettorali, quanto più per ricostruire un tessuto politico e sociale dove i comunisti abbiano un ruolo che punti comunque, nel rispetto delle singole soggettività, ad esercitare una egemonia culturale e, pertanto, anche politica.
Nessuna prevaricazione, ma la competizione sana tra differenti proposte politiche dentro una coalizione di sinistra di alternativa dove la propria impostazione può prevalere a volte su determinati temi rispetto ad altri. Questa è una ricerca dell’egemonia che fa crescere tanto nel momento unitario quanto come partito comunista nelle sue funzioni più “di movimento” all’interno della società frammentata, disarmonica e tutta protesa all’abbraccio del semplicismo populista nella volontà di risoluzione dei problemi contingenti.
Se leggerete i documenti congressuali (documento 1 – documento 2) e le relative proposte emendatarie e tesi alternative, troverete una grande affinità tra le due proposte in campo: forse mai nella storia del PRC due analisi politiche sono state così vicine, escludendo la parte che il secondo documento imposta sulla critica gestionale del Partito che sembra messa lì proprio per avere un ché di differente, di alternativo da mostrare alle compagne e ai compagni.
Questo è un elemento, l’ultimo, che voglio porre alla attenzione del paziente lettore, delle paziente lettrice: al di là delle vicende che hanno condotto alla formulazione di due documenti (apparentemente contrapposti), rifiuto l’idea che il congresso possa essere impostato soprattutto sulla personalizzazione e che circolino in rete pubblicità prodotte da circoli e federazioni che invitano a stare con Tizio o Caio piuttosto che con Sempronio.
Tutto ciò uccide non solo la ragione politica dello svolgimento del X Congresso (e del congresso stesso come momento alto della formulazione della proposta dei comunisti per provare a cambiare la società partendo proprio dalle persone!), ma annienta lo spirito che dovrebbe animare la dialettica: il sereno confronto tra tesi diverse, tra opinioni che sono incarnate da persone, ma che non può trascendere nella contrapposizione tra tifoserie dell’una o dell’altra parte.
Una di queste “pubblicità” che giravano su Facebook in questi giorni recitava: “Io sto con Eleonora Forenza”. Io no. E non sto nemmeno con nessun altro singolarmente, soprattutto se costui o costei divengono una bandiera da mettere sui crani dei compagni e delle compagne sostituendo alla riflessione e all’analisi solo uno schieramento per la conquista della maggioranza del Partito.
Non è così che si rilancia Rifondazione Comunista anche se lo si propone nel documento 2 tanto quanto nel documento 1 proposto dalla attuale maggioranza espressa dal segretario uscente Paolo Ferrero.
Per questo, penso, dopo una attenta riflessione che confermerò quello che avevo anticipato in quella piazza virtual-popolare (molto poco educativa…) che è Facebook: mi piace la critica fatta dal compagno Dino Greco (tesi B riferita al capitolo 7 del documento 1) sul Partito stesso e ritengo possa entrare a far parte del documento 1, dando così a Rifondazione una linea politica omogenea nella proposta di rilancio della “comunisticità” del PRC senza dimenticare il ruolo di propulsore della nuova sinistra unita.
Il comunismo non può essere solo una scritta in un simbolo, un simbolo da adorare, altrimenti finisce con il diventare un feticcio e niente più. Il comunismo nostro deve rifarsi a quella voglia di massa che aveva Rosa Luxemburg quando fondò la Lega di Spartaco, per un riscatto morale, civile e sociale di un proletariato che viene sempre tentato dalle lusinghe del riformismo, dalle tentazioni della compromissione e dell’accondiscendenza con il sistema che lo tiene, così, sagacemente a bada.
Il nostro comunismo è quel Socialismo del XXI secolo richiamato nel titolo del primo documento, dove si guarda alla crisi del Nord del mondo e alla voglia di alternativa del Sud del medesimo mondo, dell’America Latina, della resistenza delle ultime esperienze socialiste del secolo scorso escluse quelle degenerate in autoritarismi privi di qualunque connotazione libertaria.
Creiamo le basi per un X Congresso vero, senza compagne e compagni da innalzare o da schiacciare. Un confronto aspro ma sereno. Siamo comuniste e comunisti che conoscono questa arte della dialettica, questa capacità di unire radicalità e unità. Siamo una comunità di cui l’Italia ha bisogno, anche se crede il contrario. Non aiutiamo i nostri avversari a darsi ragione. Proviamo ad essere fieri della nostra esistenza, della resistenza che abbiamo esercitato e tutt’ora esercitiamo nel mantenerci tali in mezzo ad una contrarietà totalizzante.
Le parole di Bianca Bracci Torsi mi martellano il cervello, soprattutto in questi frangenti…: “Proprio nel momento della difficoltà è un crimine abbandonare la lotta. Nel momento in cui si è assediati da tutte le parti, andarsene diventa tradimento. Anche perché sono momenti in cui bisogna ricominciare daccapo e non c’è nessun altro che fa ciò che spetta a noi comunisti fare. E quindi bisogna farlo noi, tutti insieme.“.
Tutti insieme, capito?
MARCO SFERINI
29 gennaio 2017
foto tratta dalla pagina Facebook nazionale di Rifondazione Comunista