Non è semplice stabilire quali siano le priorità politiche oggi, nonostante sia evidente che nessun problema può essere lasciato a sé stesso e nemmeno risolto singolarmente, astraendolo dal contesto in cui è determinato e alimentato.
Per questo, una delle contraddizioni che paiono abbastanza lapalissiane in questa fase di sconvolgimento istituzionale e politico, di crisi economica e sociale, è il dilemma: come ricostruire la sinistra progressista e di alternativa, come dare vita ad un polo che la rappresenti, unendo a questa lotta quella per la difesa intransigente della Costituzione della Repubblica?
Se non considerassimo tutte le variabili in campo, fra tavoli di trattative, alleanze, tecnicismi e tatticismi conseguenti, strategie più o meno dichiarate tali, allora se ne potrebbe concludere che sia abbastanza semplice mettere insieme quei partiti e movimenti che si sono opposti all’agenda Draghi, quanto meno nell’ultimo periodo di governo, se non altro nella fase della messa in discussione proprio dell’assetto liberista di un esecutivo che si è spinto ben oltre la difesa del privilegio padronale e la protezione degli equilibri confindustrial-finanziari del nostro tempo.
Se si trattasse soltanto di trovare degli elementi comuni che consentano una anche primordiale unità di intenti, sarebbe abbastanza semplice scavalcare tutti i veti e controveti che si incrociano nella fase delle trattative per la formazione delle alleanze. Purtroppo non è così e lo stiamo vedendo nella complicatissima trattativa tra Fratoianni e Bonelli da un lato e Letta dall’altro.
L’alleanza che il PD ha voluto (forse anche in parte subìto) con il centrismo calendiano è ormai costituente di un nuovo orizzonte della politica italiana che ha cambiato la fisionomia del vecchio centrosinistra. Anni fa si discuteva se scrivere la parola con il trattino alto tra “centro” e “sinistra“, sciorinando tutta una serie di sterili argomentazioni che riguardavano la natura, il carattere, il programma e la collocazione stessa della grande area composita che, di volta in volta, avrebbe dovuto fronteggiare le destre di Berlusconi, Bossi e Fini.
Più vicino ai nostri giorni, il carattere del centrosinistra è andato via via mutando con l’affermarsi della simbiotica anomalia del PD: la fusione della cultura socialdemocratica con quella popolare del vecchio democristianesimo, ha impedito che potesse prevalere una tendenza sociale nella continua composizione e scomposizione di un’area mutevole tanto quanto i cambiamenti repentini che si verificano al vertice dei democratici e nell’ambito più articolato della politica italiana.
Fino al punto in cui, anche formalmente e nominalmente, oggi il centrosinistra ha cessato di esistere: il patto con Azione e +Europa, escludente quasi a priori altre alleanza con forze politiche che si oppongono alla cosiddetta “agenda Draghi” e che, oltre modo, sono schierate a favore della pace, contro il riarmo, contro il nucleare e per una economia dal carattere prettamente ecologista, sancisce un nuovo passo, apre le porte ad una nuova esperienza aggregatrice che, pur credendo molto poco nella propria capacità di prevalere sulle destre, sbandiera al Paese la novità politica ereditata dall’esecutivo dell’ex banchiere europeo.
E’ un dato non da poco, che non va semplicemente rubricato come un passaggio formale in vista del voto, come una dettatura di compiti da svolgere davanti all’imminente scadenza elettorale.
La convinzione con cui Letta ha preferito aprire al centro piuttosto che a sinistra, è sintomaticamente emblematica: ci dice che il PD ha scelto da che parte stare da tempo e che, adesso, per garantirsi la rappresentanza di quella classe dirigente italiana che rivendica un posto nell’ambito europeo di quella “credibilità” di cui Draghi parla nelle conferenze stampa spiegando il senso e il significato della sua “agenda“, deve necessariamente andare oltre il progressismo.
Le priorità, dunque, sono difficili da mettere nell’ordine giusto, perché spunta sempre fuori il dilemma dell’emergenza nazionale contro le destre, del tentativo di sovvertimento della Costituzione.
Ma di quale sovversione si parla in realtà? Di quella formale o di quella sostanziale che la include? Se stiamo al dettato della Carta del 1948, tanto il centrodestra quanto il centrosinistra, nelle varie declinazioni che ha conosciuto nel corso delle ultime legislature, hanno prodotto politiche economiche che non hanno avuto alcun riguardo per la tutela dei ceti meno abbienti e, più precisamente, per quel principio di uguaglianza che emana dalla Costituzione.
Il pericolo riguarda la manomissione del testo, la distruzione di una serie di princìpi e valori che devono, proprio formalmente, rimanere tali per poter essere rivendicati nella pratica quotidiana tanto politica quanto sociale. Il dilemma si potrebbe anche porre se la coalizione formata dal PD includesse una specie di “fronte repubblicano” dove ogni forza avesse pari dignità e pari accesso ad un progetto di governo altro da quello che si pretende di ispirare al draghismo.
Non solo questo tentativo di coalizione o “campo largo” è fallito prima ancora di nascere, ma col passare delle settimane, e facendosi sempre più stretto il tempo che ci separa dal 25 settembre, sono emerse con forza le vere ragioni che hanno spinto i democratici a voltarsi nel settore di centro.
Siamo, del tutto probabilmente, davanti ad un falso problema quando ci interroghiamo sulle conseguenze del nostro voto. Le ragioni dettate dalla Legge elettorale non bastano, e non possono, non devono bastare, nello stabilire quale direzione debba prendere un partito. Eppure, almeno all’apparenza, pare proprio che tutto venga fatto per garantire collegi sicuri e posti garantiti in uno scontro che, a cominciare proprio dal PD, un po’ tutti danno per perso in favore dei sovranisti neonazi-onalisti.
Se per davvero ci troviamo davanti ad un falso problema, e non soltanto per la presunzione dell’ex centrosinistra di essere un baluardo della Costituzione che ha contribuito a minare e a rendere sempre meno solida nella difesa dei diritti sociali (diverso il discorso per i diritti civili), allora la priorità che ci dobbiamo dare è quella di dare vita, con Unione Popolare, ad una aggregazione che vada oltre il 25 settembre e che lavori, proprio come la NUPES di Mélenchon in Francia, ad una rimodulazione tra elettori ed eletti, tra cittadini e rappresentanti dentro il contesto di una rivisitazione culturale di ampio spettro.
Se Unione Popolare dovesse essere il nuovo, l’ennesimo cartello elettorale solo in vista del voto, ciò vorrebbe dire che l’immaturità politica della sinistra in questo Paese avrebbe toccato il suo fondo più buio. Non prescindiamo dal risultato del voto, ma lavoriamo per allargare il vero “campo progressista“, per mettere insieme chi ha una serie di rivendicazioni sociali da accoppiare ad una tutela dell’ambiente e di tutte le vite su questo pianeta che sono minacciate da una catastrofe anti-ecologica di dimensioni spaventose.
Facciamo con sincerità una domanda diversa da quelle solite: può davvero la difesa della Costituzione passare dalla riproposizione di quanto ha fatto Draghi in quest’ultimo anno e mezzo e, nello specifico, negli ultimi mesi prima della caduta del suo governo? Il liberismo non ci protegge dagli autoritarismi e non ci garantisce nessuna preservazione della nostra Carta fondamentale. Le destre, del resto, ci consegnano la sicurezza di un attacco repentino alle pietre angolari della Repubblica, al regime democratico.
Forma e sostanza vanno fatte coincidere se si vuole proteggere gli strati più deboli della società. Ma per farlo serve ricostruire una sinistra degna di questo nome dentro un’area progressista che sia plurale e unitaria al tempo stesso.
MARCO SFERINI
5 agosto 2022
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