Nulla giustifica la guerra. Ma, paradossalmente, qualunque pretesto al pari di qualunque verità finiscono per essere il trampolino di lancio della sequela di menzogne che fanno da acceleratore verso invasioni, aggressioni, stupri di interi popoli, deflagrazioni di città, rannicchiamento di miriadi di civili dentro cantine buie, come topi da stanare, come bottino da esigere dopo la battaglia.
Missili ipersonici partono dai Mig, altri dai sottomarini nel Mar Nero e fanno migliaia di chilometri sopra le teste di chi si sta abituando, oltre la propria volontà, ad ascoltare i suoni della guerra, i sibili e le sirene, i tonfi delle bombe, i crateri che si formano mentre cumuli di terra dall’aria che odora di sangue e di putrefazione ricadono a coprire pietosamente i tanti morti disseminate per le strade.
I corridoi della salvezza hanno, di umanitario, solamente il consuetudinario nome che gli si affibbia e che stona nel linguaggio muscolare del militarismo. Dall'”operazione speciale“, l’eufemismo patetico con cui Putin e i suoi chiamano la guerra che muovono contro l’Ucraina, siamo passati in queste ore a qualcos’altro di speciale: al “trasferimento” di una parte della popolazione di Mariupol in Russia.
Alcuni quotidiani online usano la parola che mai si sarebbe voluta scrivere dopo la fine della Seconda guerra mondiale: “deportazione“. Le prime indiscrezioni, tutte da verificare, parlano di migliaia di ucraini radunati in campi (e qui i brividi iniziano a farsi sentire percettibilmente…) per sorvegliarne le comunicazioni.
La guerra tecnologica, internettiana, probabilmente non si accontenta delle informazioni satellitari, delle spie sul campo e di quelle che si intrufolano nei sistemi informatici attraverso gli hacker dello spionaggio. Pare che i dati e le comunicazioni più confidenziali siano ancora più utili delle cifre ufficiali, dei piani lasciati a disposizione della pirateria digitale per provare a depistare il nemico.
Ma i brividi non se ne vanno: guerra di aggressione, operazione speciale, invasione, genocidio, città martiri, deportazione e campi sono tutte parole che non possono non riportarci indietro nel tempo, di almeno ottant’anni. E se è ancora presto per stabilire anche solamente delle similitudini lontane con quello che avvenne in Europa tra il 1939 e il 1945, non è affatto ipocondria storica, politica e sociologica la presupposizione che si possano ripetere vecchi orrori innovandoli, attualizzandoli e mascherandoli da interventi di protezione, di tutela della popolazione assediata, affamata, assetata, resa esanime dal prolungarsi degli scontri.
Qui non vi sono preconcetti e nemmeno conclusione tratte troppo in fretta: giorno dopo giorno la guerra stabilizza sé stessa in un disordine militare che smonta il mito della vecchia Armata Rossa, almeno per quanto è dato vedere fino ad ora.
Ma l’apparenza, si sa, inganna: i missili ipersonici usati per attaccare anche Leopoli, sono un evidentissimo avvertimento alla NATO e agli Stati Uniti. Putin parla con le testate convenzionali (un termine che fa amaramente sorridere…), con quelle balistiche e con quelle nucleari. La risposta dell’Alleanza atlantica è nelle esercitazioni in Scandinavia, nell’approntamento di truppe ai confini con Russia, Bielorussia e Ucraina, mentre i governi di Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma inviano armi alla resistenza ucraina.
La guerra stabilizza sé stessa nello stabilire i nomi con cui chiamarla di volta in volta: oggi ha il nome di “ipersonico“, di “Mariupol martire della storia” e di “scuola bombardata“.
Domani sarà di nuovo un “supermercato che crolla“, un “bambino di nove anni morto a Kharkiv“, un “corridoio umanitario” finito in mezzo alla linea di fuoco o sotto le bombe di non si sa bene quale delle due parti. Le interferenze delle presunte democrazie occidentali, quelle che pretenderebbero, dopo aver disseminato di guerre il pianeta, di fare la morale ad altri guerrafondai, sono così impercettibili da non scalfire minimamente l’ostinazione di Putin a voler realizzare tutti gli obiettivi di cui non ha parlato nel suo discorso nello stadio Luzhniki di Mosca.
A colpi di reciproca propaganda e disinformazione plateale, il ping pong delle accuse spreca colpi continuamente ma ne mette a segno anche tanti: convince dall’una e dall’altra parte della giustezza delle posizioni e altera continuativamente la percezione della guerra. Ne fa un teatrino dove il cinismo si mescola al racconto, dove l’empatia ipocrita del cannibalismo televisivo si indirizza alla ricerca dell’ascolto in presa diretta, con i giornalisti sul campo che rischiano la vita per portare un briciolo di oggettività in mezzo a tanta voglia di sensazionalismo, di palpitazione dei direttori che danno i loro bollettini quotidiani per ore e ore.
Ma c’è un limite: la critica può anche occuparsi del raffronto tra Russia ed Europa, tra Russia e Stati Uniti, tra Russia e Cina. Può anche parallelizzare le guerre del Novecento, fare raffronti e strampalatizzare un po’ tutto quello che capita per mano, nella testa o davanti agli occhi. Ci si può spingere, persino in televisione, a mettere a confronto la sincerità razionale e un po’ cattedratica del professor Orsini con la compassata seraficità dello storico Mieli.
Ma non si può eccedere nell’oggi, nell’immediatezza del presente: i paragoni vanno bene finché restano affidati ad una custodia del passato e non pretendono di insegnare all’attualità di osservarsi, di analizzarsi e di riconoscersi colpevole nella reiterazione di reati di massa. Le guerre.
Fino a che non ci si scosta troppo dal passato ma, soprattutto, fino a che non si pretende di stabilire un collegamento tra guerra ed economia, tra guerra e capitalismo, allora è concesso parlare, è concesso potersi vedere riconosciuta la propria dignità: di professore nel caso di Orsini, di commentatori nel caso di giornalisti che non sposano la traduzione letterale del conflitto come concretizzazione della megalomania putiniana.
Se si fa cenno al fatto che questa economia di mercato, che questo liberismo sono all’origine dei conflitti, si è oltrepassata la linea delle liceità e si deve essere pertanto messi al bando, ridicolizzati, tacitati con spalle scrollate, accigliamenti sornioni e sorrisi ironici lanciati al pubblico di soppiatto, per significare che la propria interlocutrice o il proprio interlocutore sono dei poveri tapini, da non prendere in considerazione. Utopisti, complottisti, pacifisti, anticapitalisti… E vorrete mica dar credito, voi popoli occidentali, a chi vi dice che le ragioni delle guerre non stanno soltanto nelle guerre stesse?
Non vorrete mica che si pensi che le guerre non nascono dalle guerre ma da quelle situazioni apparentemente di pace in cui fermentano scontri intercontinentali e interstatali fomentati da interessi di grandi gruppi capitalistici, di grandi monopoli privati che sorreggono le sorti dei governi e degli Stati?
Non si può dire ufficialmente tutto questo. Lo si lascia con grande benevolenza democratica lasciar pensare nei perimetri della sinistra radicale, libertaria, comunista oggi preda dell’irrilevantismo più spinto e incontrovertibile. Almeno pare. Ci lasciano sbraitare, protestare, scendere in piazza per farci sfogare, pensando che siamo così ingenui dal non accorgerci di essere in qualche modo manipolati dalla grande comunicazione che, quando non ti ignora, concede un patetico diritto di tribuna.
Questi costruttori della pace sociale sulle rovine dei diritti sociali sono gli stessi che parlano di pace tout court, che un attimo dopo sostengono l’invio delle armi e il ruolo fondamentale della NATO nella difesa dell’Italia e del Vecchio continente. Tutto si tiene, alla fine… Liberismo e atlantismo, capitalismo e imperialismo.
Sono parole fastidiose alle modernissime orecchie democratiche e liberali. Ma sono le uniche con cui ancora si può chiamare col loro nome le tragedie che stiamo vivendo. I vocabolari dei Putin e dei governi occidentali per parlare della guerra non si possono aggiornare, si possono soltanto riscrivere.
MARCO SFERINI
20 marzo 2022
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