Le ondate del Covid e le colpe reciproche

Non è una questione di criminalizzazione delle libertà di tutti e, in special modo, di quelle giovanili: le esigenze di muoverci, di spaziare, di interagire e di scambiarci ogni...

Non è una questione di criminalizzazione delle libertà di tutti e, in special modo, di quelle giovanili: le esigenze di muoverci, di spaziare, di interagire e di scambiarci ogni tipo di sentimento tramite effusioni se amorose, tramite una birra se amichevoli, le abbiamo veramente tutte e tutti. Ma davvero nessuno escluso. Perché siamo uguali sotto molti punti di vista, oggettivi e rintracciabili dalla biologia, dalla sociologia e da una antropologia meticolosa, e siamo pure assai differenti sotto altrettanti punti di vista: evviva!

Se così non fosse, sarebbe davvero preoccupante, visto che apparteniamo allo stesso genere umano, visto che dovremmo essere consapevoli che così è e che la preoccupazione per la salute di tutti è al contempo una inscindibile preoccupazione per la salute di ciascuno.

Il molteplice e il singolo, proprio nella pandemia che imperversa, dovrebbero essere meglio acquisibili dalla percezione di massa e individuale: ci dovremmo poter riconoscere nella moltitudine e dovremmo poter sentire in noi quella responsabilità nel dare il contributo attivo, civico, civile e sociale, morale, concreto, tangibile, rendendolo un fatto, facendo in modo di esserne magari anche un po’ orgogliosi.

Tocca invece constatare, a partire dalla rissa del Pincio, da quella calca di migliaia di ragazzi che si sono ritrovati su uno dei colli di Roma con un tam tam social, e dai tanti episodi che si verificano in molte parti del Paese, che purtroppo i giovani sottovalutano enormemente prima di tutto la malattia che il Covid-19. Tutti gli alibi che volete: la stanchezza per la durata della pandemia; lo stress scolastico della didattica a distanza; i mancati rapporti sociali con gli amici e con tutti coloro che si è abituati ad incontrare e a vivere la propria sacrosanta vita. Tutto vero.

Uno studio pubblicato da “Il Sole 24 Ore” ci descrive una gioventù sempre più sola, che soffre di questa solitudine quasi cronicamente: 5 giovani su 10, tra i 18 e i 34 anni, si sentono smarriti nell’oggi e quasi inimmaginabili nel domani.

Il quotidiano di Confindustria, come è naturale, ne fa una problematica economicamente data, qualcosa che intacca la parte potenzialmente più produttiva del Paese; dovrebbe invece essere studiata a fondo l’intromissione della dirompente novità della pandemia nell’esistenza quotidiana di queste ragazze e questi ragazzi, ma senza farne una sorta di precostituzione di alibi per comportamenti che oltrepassano il confine della piena aderenza alla vera libertà: quella che esige il reciproco rispetto, quella che finisce – come recita un vecchio adagio – dove inizia l’altrui.

Un aneddoto antico sulla vita di Diogene il Cinico, ci racconta che il filosofo, venuto fuori dalla botte in cui passava le giornate, girovagava per strada senza meta. Ad un certo momento un ragazzo lo colpì in viso con una pietra, tirata con un bel lancio di fionda. Diogene non se la prese con il ragazzo, ma andò dal suo maestro che gli stava accanto, lo schiaffeggiò e gli disse: «Se questo è un impudente, la colpa è solo tua!», e pare se ne sia andato pronunciando qualche parola rivolta poco misericordiosamente agli dei dell’Olimpo.

E’ proprio per questo che non si può parlare di “colpevolizzazione giovanile“. Chi dovrebbe mostrare ai ragazzi la simbiosi tra comportamenti personali e responsabilità civile e sociale o scade in un soporifero redarguire solonico o comunica molto male con loro ed anche col resto della cittadinanza.

Ed è proprio per questo che la colpevolizzazione giovanile dovrebbe essere evitata, se si conoscono i disagi che, pur nelle rispettive differenze per impatto propriamente generazionale, tutti quanti siamo costretti a vivere e a farci passare addosso. Sapendo che una modificazione delle nostre esistenze è avvenuta tanto repentinamente da impattare con inaspettata ferocia contro ogni certezza che potevamo detenere, contro ogni prospettiva che potevamo sperare di avere e di conquistare: con lo studio, con l’amore, con l’amicizia, con il volontariato, col lavoro, con le tante incertezze che si cumulano in una giovane età segnata dal precariato, dall’instabilità emotiva, economica, sociale, magari familiare.

Il quadro deve essere ben esaminato e non vi sono sentenze da emettere, giudizi da assegnare, attributi stigmatizzanti da elargire come gogna pubblica per una generazione piuttosto che per un’altra.

Si potrà, dunque, dire che quando un gruppo di giovani porta la mascherina al di sotto del naso o del mento, chiacchiera allegramente, si sbraccia e si abbraccia, si scambia bottiglie di birra, lattine, condivide cellulari, fa come se il Covid-19 non ci fosse, sbaglia e gli andrebbe fatto notare che sta sbagliando? Oppure anche questo intacca il buonismo di chi intende assolvere maternamente e paternamente i giovani perché semplicemente sono i propri figli o i propri nipoti?

Si può affermare e scrivere che, non l’intervento repressivo dei vigili o della polizia, ma quello di chi è capace di far notare a questi ragazzi (e a tanti adulti che si comportano irresponsabilmente allo stesso modo, se non peggio…) che non stanno dando una mano nella lotta alla pandemia, che stanno tradendo un patto di emergenza che ci coinvolge tutti, che non possono permettersi di farlo, è un atto dovuto e non un semplicistico rimprovero che rischia di avere l’effetto uguale e contrario?

Se tra i giovani la tendenza a fare spallucce e a minimizzare i pericoli è nella natura adolescenziale che, tuttavia, non va trasformata in una giustificazione, in tolleranza, è altrettanto corrispondente al vero che la diserzione dalle buone regole, quelle che vanno rispettate perché finalizzate al bene comune, è pratica allettante per molti indisciplinati che hanno oltrepassato la pubertà da tempo e che dovrebbero essere cittadini consapevoli dei loro diritti e doveri.

Non c’entra assolutamente niente il ribellismo, la voglia di sfidare le autorità, il mostrarsi impudenti e privi di scrupoli, alternativi al sistema, impavidi contro le avversità, capaci di pensare rispetto alla massa che segue chi la precede senza senso critico, senza acume.

Sovente siamo davanti a forme inespresse di frustrazione che si manifestano in questo modo, acchiappando al volo la prima occasione per esprimere un disagio anti-istituzionale, una forma di protesta democratica e civile, responsabile e civica che invece prende le sembianze di un finalismo a senso unico, di qualcosa che finisce per scadere nella rabbia cieca e non trovare uno sfogo in un indirizzo tanto sociale quanto politico.

Le fasi successive della pandemia che dovremo affrontare non ci lasciano grande possibilità di scelta: il governo si è dimostrato incapace di gestire la cosiddetta “seconda ondata“, quella autunnale che tutt’ora è tra noi; ma è pur vero che una gran parte della responsabilità va ascritta ai comportamenti singoli di ognuno di noi. Nessuno escluso.  Compresi deputati e senatori che vengono paparazzati senza mascherina mentre pomiciano con il proprio fidanzato e che dovrebbero essere i primi a dare l’esempio al Paese.

La moralizzazione della vita ai tempi del coronavirus è decisamente insopportabile, ma è necessario ricordarci – come ci veniva insegnato a scuola nelle tremende ore di fisica – che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e conseguente: gettare le mascherine in terra comporta un aumento dell’inquinamento, è anche terribile a vedersi perché è la fotografia di una natura morta ultramoderna, laddove qualcuno è passato, ha cercato respiro, forse gli è caduta per terra la protezione chirurgica, forse un alito di vento l’ha slacciata improvvidamente…

Ma ci si può sempre chinare, raccoglierla e gettarla nella raccolta indifferenziata. Se costa troppa fatica, ciò vuol dire che il livello di civiltà di questo Paese, declinato sul piano della reciproca consapevolezza del mantenimento e dell’aumento della qualità del benessere comune, è ancora estremamente basso.

Un governo, poi, che nel giro di quarantotto ore si rimangia parte dei decreti che aveva appena siglato e proclamato alla nazione, mostra di sé stesso quell’immagine sempre più bollita di cui si è dovuto pietosamente discutere nei giorni scorsi in merito al MES e alla vicenda tutt’ora sospesa nelle ipotesi di crisi della tenuta della maggioranza. E’ evidente che questi spettacoli, privi di significato per la stragrande maggioranza della popolazione, non fanno che confermare la tesi sovranista che vuole spacciare per vera l’inutilità del regime democratico: un’operazione che riesce molto bene nel solco del populismo più becero, fin quando l’esecutivo si mostra privo di quel piglio decisionista che è tutto il contrario dell’autoritarsmo. E’ autorevolezza.

Ciò che oggi manca al governo, così come il senso civico e civile di preservazione dei beni comuni e della comunità stessa nella Repubblica mancano in molta parte della popolazione.

MARCO SFERINI

11 dicembre 2020

Foto di Alexandra_Koch da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli