La spartizione lottizzatrice delle dirigenze editoriali della RAI, direttori e vicedirettori dei telegiornali e della guida delle stesse reti della tv di Stato, potrà meravigliare forse Giuseppe Conte, intento a preservare per i Cinquestelle quell’aura di verginità rispetto alle tentazioni della partecipazione al balletto delle poltrone di viale Mazzini, tanto da fargli dire a Piazza Pulita che è un po’ la prima volta che si assiste a questo scempio che umilia il Parlamento e che fa del governo l’azionista di maggioranza della trattativa, nonché l’intermediario primo.
E’ così, almeno, da quando ero ragazzo e sentivo proprio dalle tv di allora e leggevo dai giornali una serie di termini che non potevano non essere direttamente collegati al rinnovo periodico delle cariche dirigenziali della RAI: “lottizzazione“, per l’appunto, e pure “partitocrazia“; oppure slogan come: “Fuori i partiti dalla RAI“, tanto cari ai Radicali di Pannella che – ad onor del vero – non sempre stati benevolmente trattati dalla massmediologia italiana.
Certe battaglie per i diritti civili sono scomode, tanto quanto sono pericolose per il sistema economico quelle per i diritti sociali.
Ed allora, se fanno un po’ di ascolti le si può anche far passare per i canali della televisione pubblica, altrimenti si devono accontentare – ieri come oggi – del diritto di tribuna assegnato dalla Legge che relega le tribune stampa e i messaggi elettorali in orari improponibili per un ascolto sereno, disinvolto e magari in un certo modo anche un pochino interessato a comprendere le ragioni degli uni e degli altri.
Il problema dell’informazione e della comunicazione politica in Italia si è complicato ulteriormente con la prepotente discesa in campo della cavalleria berlusconiana che aveva la sfacciataggine di andare proprio sempre in tv a dire che, proprio perché il leader di Forza Italia possedeva (-possiede) un impero televisivo, radiofonico, editoriale, commerciale e finanziario, era maggiormente penalizzato e bistrattato dal potere dei tanti comunisti che Berlusconi faceva vedere agli italiani un po’ ovunque per allontanarne lo sguardo critico da un centrodestra pieno di contraddizioni tra Nord e Sud e dai problemi via via sorti, nel lungo ventennio trascorso all’ombra del biscione, nel rapporto con la legalità e con la magistratura della Repubblica.
Negli ultimi anni, dopo la privatizzazione di tutti i settori della radiotelevisione pubblica italiana dentro il più grande contesto privatizzatore che ha ridotto all’osso i campi di intervento delle istituzioni democratiche nei settori strategici della vita economica del Paese, la manageralizzazione della RAI è diventata il traguardo liberista ulteriore per avere sempre più un controllo di risorse non tanto impiegate per sviluppare programmi di alta qualità culturale, sociale e persino politica, ma per sostenere il confronto concorrenziale con Mediaset e con l’ingresso nella vita degli italiani delle televisioni non più generaliste, ma specializzate nella diffusione H24 di film, sport, telefilm, arte, storia e programmi demenziali provenienti, per la maggiore, dagli Stati Uniti.
Il ruolo di controllo sulla televisione pubblica, che spetta al Parlamento, è stato ridimensionato nei fatti proprio grazie ad una marginalizzazione del ruolo delle Camere in una situazione straordinaria antecedente la pandemia, con l’avanzare di un leaderismo governativo che, solo grazie al fallimento del referendum renziano sull’amputazione del Senato della Repubblica, è stato frenato temporaneamente.
Ma che si è riproposto nel momento in cui è stato lo stesso Parlamento a scegliere di ridurre il proprio numero di componenti: una controriforma sancita da un voto referendario legittimo ma condizionato fortemente dalla propaganda populista che ha, proprio durante la stagione del grillismo, sommata a quella del salvinismo sovranista, ulteriormente fiaccato il ruolo centrale delle Camere nella vita politica e sociale del Paese.
Si è quindi sedimentata, prima e durante il biennio pandemico, una stratificazione di opposizioni differenti alla funzione primaria del Parlamento come regolatore della vita di una Italia piombata nel marasma di un disagio antisociale che si esprime, tuttavia, convulsamente, senza una precisa direzione di classe e senza una guida che miri al rafforzamento del rapporto tra protesta e proposta.
Le manifestazioni no-vax e no-pass di questi ultimi mesi sono la dimostrazione di questa confusione creata ad arte e che è il vero pericolo per un tessuto sociale fragile, pronto a credere alle panzane più fantasiose piuttosto che rendersi conto del progressivo smantellamento dell’architettura democratica non minacciata dal Green pass; semmai dalla continua raffigurazione di Mario Draghi come dell’unica alternativa all’altrimenti inevitabile caos.
Vanno dunque di pari passo la crisi del servizio pubblico televisivo e il ricorrere ad una modernissima edizione del manuale Cencelli con il rimpicciolimento delle funzioni del Parlamento, ridotto a mero ratificatore delle decisioni incontestabili prese da Draghi e sostenute dalla “grande” maggioranza di unità nazionale costituita per affrontare il viatico stretto dei fondi europei, del passaggio di consegne al Quirinale e della futura chiamata alle urne per le elezioni politiche.
Preoccupante è questa sorta di unilateralismo che impedisce di criticare il draghismo senza incappare nell’accusa di contraddittorietà con l’interesse del Paese: la solita bandiera sfilacciata che sventola per ricordare che un certo patriottismo sta soprattutto nella disperazione delle classi meno agiate che devono garantire proprio a quelle benestanti tutti i privilegi che, altrimenti, sarebbero messi in pericolo da eventi fortunosi dove, per l’appunto, il lieto fine è garantito dalla condiscendenza della grande massa di coloro che invece dovrebbero rovesciare la situazione.
Preoccupante è dover assistere quasi impotenti ad uno svilimento istituzionale del cuore della Repubblica, del suo fulcro legislativo, del suo massimo rappresentante della volontà popolare aggirata da tanti salti della quaglia che tutto sono tranne che coitus interrupti, bensì contraddittorie unioni morbose (e per questo ancora più irrealisticamente sostenibili nella confusione generale della politica italiana) tra integerrima rivendicazione di una moralità onorevole e senatoria sopravvivenza di un ruolo che finisce per prescindere dalla rappresentanza avuta con la delega del voto.
Insomma, la crisi della RAI è speculare alla crisi del Parlamento nell’ordinamento attuale della Repubblica. Nonostante la Costituzione, nonostante il persistere ed il resistere di una certa critica primordiale all’onda lunga del presidenzialismo iniziata con il craxismo e proseguita con Berlusconi, Renzi, con i poteri forti di Salvini e con le carezze della destra neoanzi-onlista emergente, la pressione pluridirezionale contro la democrazia repubblicana aumenta: la cedevolezza del PD e del centrosinistra di nuovo modello, da questo punto di vista, è allarmante.
Nel nome dell’adesione ai progetti liberisti del governo, della stabilità economica e finanziaria dell’imprenditoria (non si cita nemmeno più ormai il tanto decantato e inflazionato “ceto medio“), si lasciano così tanti spazi dissoluti e dissolutori che la sinistra di alternativa, sperduta com’è, non è in grado di arginare davanti alla prepotenza delle destre privatizzatrici e sovraniste.
Oltre alle patrie galere, per vedere lo stato di salute democratica (e democraticamente sociale) del Paese, guardiamo come sarà la vita futura della RAI TV.
MARCO SFERINI
20 novembre 2021
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