La stravaganza sarebbe una qualità umana e anche della natura per rompere tante monotonie che derivano dai corsi e dai ricorsi storici, del tempo, della vita. Ora questa presunta qualità precipita nell’agone politico italiano sotto forma di proposta di legge elettorale: un pasticcio a dire poco, un imbroglio a voler essere sinceri, un tentativo di scardinamento della legittima rappresentanza della delega popolare per l’elezione di un libero Parlamento a voler essere sinceri e lungimiranti al tempo stesso.
La riproposizione rimaneggiata del celeberrimo “Italicum”, che escluderebbe il Senato e regolerebbe solamente l’elezione della Camera dei Deputati, è quanto di peggio potessero partorire le “larghissime intese” tra Berlusconi, Renzi e Alfano. Tutti insieme appassionatamente per creare le condizioni di uno stravolgimento di quella essenziale particolarità del voto che è l’uguaglianza singolare nell’assimilazione collettiva del volere che esce dal conteggio dei numeri.
Ciascuno di noi in quanto elettore rimarrà imbrigliato in un meccanismo fondato su un monocameralismo studiato per gestire velocemente i processi di intervento politico sul piano economico, così da soddisfare sempre meglio quella “governabilità” del sistema che è opportuna alle borse, ai mercati e ai grandi poli finanziari continentali.
Matteo Renzi dispensa sorrisi e spiega che si tratta della prima promessa che mantiene puntualmente: la promessa di Marzo. Ne toccherà vederne altre e, a quanto si intuisce, saranno tutte volte a consolidare la forza dei potentati economici, il loro primato sulla politica, il loro schiacciante peso sulla democrazia e, pertanto, sulla centralità del Parlamento.
Ne viene da sé che ad essere messa in discussione è la forma stessa della Repubblica, tanto più che il Titolo V si accompagna alla generale riforma della legge elettorale e diviene complementare ad essa e inscindibile. Il piano funziona solo se funzionano le “larghissime intese”.
Costituzione ancora vuole, eppure, che per abolire il Senato occorra almeno un anno di tempo, visti i tempi di una legge di revisione della Carta del 1948 e quindi i commentatori politici si sbracciano e strepitano dalle televisioni per dire che, qualora il governo cadesse nel giro di 365 giorni, si andrebbe a votare con l’Italicum per la Camera dei Deputati e con la legge proporzionale lasciata in eredità dalla Consulta per il Senato della Repubblica.
Ed ecco che definirlo “pasticciaccio” sarebbe persino eufemistico e farebbe indispettire certamente Carlo Emilio Gadda.
Ma qui non ci troviamo innanzi ad un romanzo noir, ma ad una politica che diventa mezzo di sussistenza per la crisi economica dei più forti e clava per i più deboli.
L’instabilità complessiva delle istituzioni repubblicane ormai non è più soltanto uno spettro che emana da una tentata violenza nei confronti della Costituzione. La decadenza dei valori di uguaglianza civile, sociale e la stabilità stessa della Repubblica sono minate da quelle che ci si ostina a chiamare “riforme” e che invece dovrebbero essere definite col loro nome vero: atti antidemocratici volti a svoltare dal parlamentarismo ad una forma più energicamente esecutivista dello Stato.
Le intenzioni di Berlusconi sono sempre state rivolte a fare del Parlamento un mero ratificatore delle decisioni governative. Renzi persegue uno scopo simile per dare ai mercati un governo autorevole, forte e che quindi non possa essere messo sotto scacco dalle costituzionalmente scritte dinamiche parlamentari.
La riforma del Titolo V della Carta è, in fondo, la cartina di tornasole di una operazione che ha diverse teste e un corpo unico. Un’Idra dell’a-democraticità in nome della stabilità economica farà torcere gli equilibri in equilibrismi e il voto da investitura popolare diventerà scelta coartata attraverso le trappolette disseminate nel testo del nuovo Italicum.
La favola delle riforme sociali fatte sulla scorta di quelle istituzionali è la scenografia di un teatro dove non si recita nemmeno a soggetto, ma dove si mettono in tutta evidenza le necessità impellenti imposte dai trattati e tradotte in italiano come necessità strutturali incontrovertibili, non negoziabili e da ottemperare al sacrificio estremo dell’ultimo poveraccio dissanguato da anni di decurtazioni di salari, pensioni e tagli su tagli al resto dello stato-sociale.
Pensavamo che le larghe intese fossero il punto più basso cui il PD sarebbe potuto scendere nel suo cammino obliante i valori sia socialdemocratici che del cattolicesimo sociale del passato nemmeno tanto remoto. Invece non avevamo ancora visto le “larghissime intese” di Matteo Renzi: dalla legge elettorale alla fine della repubblica parlamentare. Sarà così. E se così non dovesse essere, meglio nel peggio.
MARCO SFERINI
6 marzo 2014