Le eterne antinomie nel gioco millenario del paradosso

Vero o falso, giusto o sbagliato, coerente o incoerente, saggio o stolto, e così via… Gli opposti dividono, si scrutano da lontano e si riavvicinano per convergere, sintetizzarsi, confondersi...

Vero o falso, giusto o sbagliato, coerente o incoerente, saggio o stolto, e così via… Gli opposti dividono, si scrutano da lontano e si riavvicinano per convergere, sintetizzarsi, confondersi e lasciare perplessi.

Soprattutto se la sovrapposizione che a volte li uniforma è ispirata ad un presupposto logico, ad una sequenza di parole, di idee e di comportamenti che danno quanto meno l’impressione di seguire una linearità che propende a disverlarci qualcosa, a mostrarci la correttezza di un costrutto.

Verità e falsità, in particolare oggi nell’era dell’intelligenza artificiale, della facilità con cui si inventano volti e vite inesistenti, in cui si deformano i fatti e li si rappresentano attraverso immagini che sono decisamente un salto di qualità epocale rispetto all’ottocentesca scoperta del fotomontaggio, meritano di essere al centro di una discussione tutt’altro che retorica e scontata.

Se la possibilità che oggi la scienza (quindi l’informatica) ci da per decostruire completamente l’oggettività, per trarre da essa una oggettività inesistente e comunque apparentemente alternativa, è un’arma a doppio taglio, non si può negare che, parimenti, eserciti un certo fascino proprio in relazione al rapporto tra logico ed illogico, tra vero e falso.

A cominciare dalla diffusione di massa di false notizie (le cosiddette “fake news“) che condizionano eventi globali e influenzano il corso degli eventi.

Intere comunità di persone accettano come opzione quella più facile da seguire e da propalare indiscriminatamente senza aver minimamente verificato le fonti, senza aver fatto una ricerca che potesse avvalorare la veridicità dei fatti. Dove sta, dunque, il vero in una società in cui è divenuto così difficile poter separare ciò che è palesemente riscontrabile da ciò che è, invece, letteralmente inventato?

Probabilmente la verità sta a monte. Anzi, certamente. Perché per smontare le fake news serve un meticoloso lavoro di confutazione che segue non solo la classica buona logica, la dialettica tra gli opposti che citavamo all’inizio, ma pure la paradossalità, il ricorso quindi ad una evidenza che nasce dal contrasto apertis verbis tra ciò che è pensabile e ciò che, pur essendo pensabile, è chiaramente impossibile.

L’impossibilità, ci si chiederà allora, da dove la possiamo trarre come assunto di un metro di giudizio che determini la separazione tra vero e falso?

Dall’esperienza, dalla pragmaticità, dalla riproduzione degli stessi fenomeni che, seguendo le leggi naturali che segue la composizione e la scomposizione della materia (con tutto quello che ne consegue in ogni parte dell’Universo, della nostra Terra e, quindi, della vita quotidiana di ciascuno e di tutti) sono inalterabili mediante la volontà umana.

Possibile è ciò che sta, per antonomasia, nel reale, nel concreto, nel visibile, nel tangibile, nel verificabile in ogni momento.

Impossibile è ciò che è irrealizzabile o ciò che, pur provando ad essere concretizzato, non arriva mai ad esserlo e, pertanto, non superando la prova rimane al di fuori del reale. Noi possiamo immaginare di essere teletrasportati come l’equipaggio di Star Trek da una parte all’altra del cosmo, da una nave spaziale all’altra, ma non siamo (ancora) in grado di realizzare questa straordinarietà che, quindi, rimane nell’impossibile.

Non per questo ci possiamo attribuire il diritto di affermare che il teletrasporto è in assoluto qualcosa di impossibile. Molte scoperte scientifiche del Novecento, in assoluto il secolo in cui l’accelerazione scientifica è stata tanto impetuosa quanto sorprendentemente efficace e devastante al tempo stesso, sono state pensate nei contorni di una fantasia che ha ispirato storie fantastiche: basti pensare ai romanzi di Jules Verne.

Ciò che è vero oggi poteva, dunque, essere non vero ieri e si stava magari inverando in un presente a metà tra l’immaginazione oniricheggiante del prima e l’impeto visionario del poi. Sottomarini, aerei, viaggi stellari, la stessa possibilità di entrare fin dentro i meandri più imperscrutabili della natura, nell’atomo e oltre l’atomo, potevano essere classificati come voli pindarici di qualche troppo immaginifico autore di libri o di racconti per ragazzi, e niente più. Ma sappiamo che non è così.

Il paradosso qui rientra fino ad un certo punto nella discussione tra vero e falso, tra possibile e impossibile. Occorrerebbe indubbiamente distinguere i piani, ma tenere comunque presente che quello che è vero può essere tanto possibile quanto impossibile (se per “vero” intendiamo il riscontrabile, l’oggettivo, il percepibile dai sensi).

Così ciò che è falso può essere sia possibile nella sua falsità (ossia può essere riprodotto e rimanere ugualmente falso) sia impossibile: le fake news rientrano in questa categoria ultima. Sono False perché impossibili e sono impossibili proprio perché false.

Possibile e impossibile, dunque, sono elementi valoriali che supportano verità e falsità con una vicendevolezza affidata non al caso ma al riscontro oggettivo: la coincidenza dei fattori è determinata dalla concretezza del reale.

La realtà la si può anche immaginare come una sciarada divina, come qualcosa che, nell’essere incomprensibile all’ennesima potenza, può far parte di un qualche gioco dogmaticamente imprigionato in un cinismo sadico dell’essere supremo.

Rimane il fatto che, in quanto reale e tangibile, ci si deve fare i conti in tutta la sua oggettività. I fatti sono per l’appunto questo: quello che è vero e possibile, dunque certo e inconfutabile, sicuro e incontrovertibile. Ovvio che la realtà è interpretabile fino ad dato limite, dopo il quale si ritorna praticamente al punto di partenza di una essenza del palese che è uguale per tutti.

Anche la logica, se vogliamo, fin dai tempi antichi è stata oggetto di speculazione come metodo di interpretazione della realtà, dell’esistenza stessa, della formulazione di intere teorie tanto legate all’immanenza quanto entranti nel campo più metafisico della trascendenza e dell’incorporeità degli elementi di certi ragionamenti.

Fin dai tempi degli antichi greci e dei romani, la logica aveva rappresentato sia il fondamento della matematica e delle prime scienze, sia l’origine di arzigogolatissimi paradossi che si sono riproposti tante volte nel corso del tempo e che, a ben vedere, non hanno mai trovato una vera soluzione soddisfacente.

Diogene Laerzio racconta alcuni aneddoti al riguardo nella sua opera “Vite dei filosofi”. Uno di questi riguarda Epimenide di Creta che aveva fama di essere un esperto divinatore.

Lo era divenuto dopo che, spedito da suo padre a cercare una pecora che si era smarrita dal gregge, si fermò a sonnecchiare in una caverna e cadde in un sonno così profondo che vi restò in letargo per cinquatasette anni! Si risvegliò che tutta la realtà intorno era ovviamente cambiata: ciò che era impossibile – almeno per uno straordinario malato di sonno come Epimenide – si verificò possibilissimo.

Andò a cercare la sua famiglia ma non trovò più nessuno in vita se non suo fratello, divenuto vecchissimo. Grazie a questo incontro poté in un certo qual modo ricostruire l’accaduto ed autoconvincersi che gli dei lo avevano proprio in simpatia. Così divenne una sorta di sacerdote di Apollo delfico e si fece considerare come maestro di culto.

Ad Epimenide, di cui non ci rimane nulla di scritto ma soltanto qualche cenno sulle sue opere e sulla sua, non impossibile, ma certamente molto improbabile vita grazie a Laerzio e a Plutarco, viene fatto risalire uno dei paradossi più strordinari della logica antica. Uno di quei dilemmi che Aristotele definiva come “insolubili” ed a cui aveva egli stesso tentato di dare una spiegazione, se non proprio una soluzione.

A sfidare il vero e il falso, il possibile e l’impossibile, è il celeberrimo “paradosso del mentitore“. Si tratta di una semplicissima frase: «Tutti i cretesi sono bugiardi». Una antinomia che diventa un evidente rompicapo appena ci facciamo alcune domande. Se Epimenide dice il vero, allora anche lui, in quanto cretese, è un bugiardo e, pertanto, la sua affermazione è da considerarsi falsa.

Ma se Epimenide invece dice il falso, allora la sua asserzione, nell’essere non vera, finirebbe per negare sé stessa e si potrebbe considerare il fatto che i cretesi non sono tutti bugiardi, ma solo alcuni. Magari lo stesso divinatore dei misteri delfici.

Non c’è una soluzione al dilemma posto. Nel corso dei secoli tante interpretazioni hanno dato seguito ad altrettanti tentativi di risolvere logicamente un qualcosa che la logica predispone manifestamente all’insolubilità decretata da Aristotele. Si entra in questo modo in un circolo vizioso, in una ricerca spasmodica per una risolvibilità di una incoerenza della logica con sé stessa.

Se utilizzassimo le categorie dell’ovvio, inteso come ciò che è e non può non essere tale, un po’ come l’essere parmenideo (che è “ovvio” di per sé e nei confronti di sé stesso), dovremmo avvicinarci ad una sorta di pseudo-conclusione che ci induce a ritenere la logica come una espressione di una coerenza lineare se affidata, un po’ sillogisticamente, a qualcosa di altrettanto logico nell’essere dimostrabile.

La scienza, ad esempio, procede studiando, sperimentando e verificando. La dimostrazione è alla base della sua logicità. Quasi per eccellenza. La filosofia può essere logica se intende adoperare questi strumenti per tentare di capire razionalmente i fenomeni che si dispiegano nel corso della nostra esistenza tanto sotto i nostri occhi quanto nelle nostre menti.

La Storia è logica nel rapporto di causa ed effetto tra gli eventi che si susseguono. Ciò che accade nel corso della Storia può non apparirci logico se proviamo a riferirlo, sempre e comunque, ad una attinenza costante a quelle virtù umane che religioni, scuole di pensiero, e una etica sovraordinante rivolta all’esaltazione del bene singolo e reciproco, plurale e collettivo al contempo, proclamano come la vera essenza spirituale dell’essere umano.

In fondo, il paradosso è una costante della nostra presenza sulla Terra. La nostra stessa esistenza ci appare paradossale, illogica al di fuori del meccanicismo materialista del mutamento della materia, della sua evoluzione (consideriamola così…) in una forma sempre più complessa che giunge all’autocoscienza e alla capacità di discernimento propria della specie umana.

Dunque, non esiste una fine per le ambivalenze, per le contraddizioni, per i pregiudizi che ne possono venire fuori.

Quello che possiamo ragionevolmente auspicare è un sempre maggiore ricorso alla razionalità unita ad una serie di valori condivisi che diano alla vita sul pianeta una uguale dignità per tutti. Cominciando dalla considerazione della sofferenza come elemento discriminante tra bene e male, tra giusto e ingiusto.

Il paradosso qui sta proprio tutto nell’intenzione umana. Il masochismo non c’entra per niente. Soffriamo, al di là delle cause naturali, perché facciamo soffrire col fine di garantirci un posto di privilegio in seno alla società, dentro un mondo che stiamo distruggendo.

L’interesse economico gestisce questa capillare alienazione dell’uomo da sé stesso, lo spersonalizza e fa dell’odio il principe delle passioni. Qualcosa che gli stoici aberravano. Tutto quello che è riconducibile alle passioni ci trasforma in peggio e ci allontana dalla vera conoscenza, dalla saggezza, da una imperturbabilità coerente con il rispetto vicendevole.

Forse gli stoici esageravano un po’: tanto è vero che oggi si dà dello “stoico” a chi assume una postura comportamentale inossidabile, che davanti alle peggiori sventure resta come la torre dantesca al soffiar de’ venti. Ma non sarebbe di certo male recuperare, ogni tanto, un po’ di quella asetticità.

Non fosse altro per sfuggire all’eterno ritorno del dibattito su quello che è vero e quello che è falso, mentre continuiamo a disprezzarci, ucciderci nel nome della superiorità, del dominio e del potere.

MARCO SFERINI

12 novembre 2023

foto: screenshot

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Il portico delle idee

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