Proprio nei giorni in cui si sta discutendo di una nuova legge elettorale dopo che la Corte Costituzionale nel giro di 3 anni ne ha dichiarato illegittime (totalmente o parzialmente) altre due, una delle quali mai arrivata all’utilizzo, a dimostrazione di una totale incapacità del ceto politico a misurarsi con questi delicatissimi temi con la profondità di respiro e di visione politica che sarebbero necessari.
Assenza di profondità di respiro e di visione politica che si reiterano anche in questa occasione, laddove nel testo in discussione si ravvedono già profili evidenti di incostituzionalità legati soprattutto alla evidente volontà di tipo meramente “consociativo” di procedere non ad una elezione ma ad una “nomina” dei parlamentari per via di fidelizzazione alle varie cordate.
In questa occasione si ricorda allora una data davvero storica al riguardo delle vicende elettorali del nostro Paese: quella del 7 giugno 1953 allorquando si voto con quella che all’epoca fu definita “legge truffa”: l’intento maggioritario fu bocciato dall’elettorato e si aprì una nuova fase, molto tormentata, di transizione nel sistema politico italiano che durò circa dieci anni, almeno fino alla formazione del primo governo organico di centro sinistra nel dicembre 1963.
Di seguito un abbozzo di rievocazione storica della vicenda relativa alle elezioni politiche del 1953: 64 anni fa.
Il 7 giugno del 1953, gli italiani furono chiamati alle urne per rinnovare la legislatura con una grossa novità rispetto al voto del 1948. Il vecchio sistema proporzionale “puro” lasciava il posto a una nuova legge elettorale, che prevedeva un consistente premio di maggioranza, il 65% dei seggi, al gruppo di liste che avesse raggiunto almeno la metà dei voti più uno. Quando però furono aperte le urne, per il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi – che quella legge volle a tutti i costi – fu una ‘doccia fredda’ : il premio di maggioranza non scattò per un soffio e all’appello mancavano appena 54.968 voti. Ai più attenti osservatori politici risultò subito chiaro che con il fallimento della legge maggioritaria, che venne in seguito definitivamente abrogata nel giugno del ’54 da un voto della Camera su proposta di Pietro Nenni, sarebbe calato il sipario anche sull’era degasperiana.
Il disegno di legge relativo alla nuova legge elettorale fu presentato il 21 ottobre 1952 alla Camera dal ministro Mario Scelba e il 29 ottobre la Commissione interni della Camera ne avviò l’esame in sede referente. Ma l’opposizione di sinistra (PCI e PSI), insieme alle destre, attuò fin da quel momento l’ostruzionismo e allo stesso tempo non mancarono neppure da parte dei piccoli partiti laici delle ragioni di diffidenza verso il progetto.
Infatti il dibattito alla Camera per l’approvazione della legge fu fra i più incandescenti della storia della Repubblica, visto che in tale sede il Governo aveva auspicato possibile chiarire e superare quei punti di dissenso – per altro di natura non decisiva – che proprio molti esponenti dei partiti laici alleati alla DC avevano sollevato anche al momento dell’approvazione al consiglio dei ministri e che fino a quel momento erano rimasti ancora insoluti.
Le ragioni per cui i partiti minori guardavano con diffidenza questo nuovo schema elettorale erano dovute prima di tutto al fatto che si mantenevano i quozienti circoscrizionali del 1948 che, anche per la loro elevatezza, operavano del tutto a favore dei grossi partiti di massa. In secondo luogo per l’utilizzazione dei grossi resti che, mentre con il vecchio sistema risultava essere particolarmente a favore dei partiti minori, ora finiva con il favorire di nuovo i partiti maggiori.
L’altro punto che rimaneva non ancora del tutto risolto era quello dell’entità del premio di maggioranza. Mentre il governo era favorevole ad una quota di 385 deputati, i liberali e i socialdemocratici chiedevano invece di limitarlo addirittura a 360-370, in base al concetto di non precostituire una maggioranza assoluta per la DC. I democristiani, ed anche i repubblicani, fecero però presente che, se si fosse limitato troppo il premio di maggioranza, non si avrebbe più avuta la possibilità di creare un’opposizione costituzionale ed un’alternativa tra i partiti democratici, in quanto tutti e quattro sarebbero stati costretti a partecipare al futuro governo pur di non far governare esponenti del blocco PCI-PSI.
Ma “i dubbi” dei partiti laici di maggioranza erano dovuti anche a delle ragioni ancora più profonde. Infatti la comune coscienza della propria debolezza portò alcune componenti socialdemocratiche, ma anche quelle repubblicane, a vedere nell’iter dell’approvazione di questa legge elettorale una delle loro ultime occasioni per affermare con maggiore incisività il loro ruolo nel governo, liberandosi quindi dalla subalternità alla DC. Infatti il riequilibrio delle posizioni all’interno della coalizione sembrava essere diventato finalmente possibile – a loro giudizio – dopo le ultime elezioni amministrative, che avevano fatto intravedere un consistente declino dell’egemonia democristiana, grazie alla forte crescita della destra. Ciò avrebbe certamente anche reso indispensabile l’appoggio del PSDI e del PRI per la continuità della politica centrista di De Gasperi. L’immobilità del sistema, fulcro della politica di De Gasperi, non poteva infatti essere anche l’obiettivo strategico dei socialdemocratici e dei repubblicani che, prefiggendosi il rinnovamento ed il cambiamento della società, dovevano per forza puntare su fattori dinamici che potessero contribuire a modificare anche lo stesso quadro politico.
Comunque alla fine queste difficoltà furono superate e la sera del 15 novembre 1952 fu siglato a Roma l’accordo fra i quattro partiti di maggioranza (DC, PSDI, PLI, PRI).
Un primo punto dell’accordo conteneva – oltre all’impegno a sostenere fino in fondo, in sede parlamentare, il disegno di legge governativo – la prevista riduzione del premio di maggioranza da 385 a 380 seggi. Infatti la prospettiva di questo premio continuò a non rassicurare il PSDI, il PRI e il PLI su una loro occasione futura di rafforzamento perché una volta ottenuta la stabilità governativa riducendo il peso delle opposizioni, sarebbe continuata ad essere sempre la DC il partito più forte della coalizione. Invece un secondo punto dell’accordo riconosceva, ad ognuno dei quattro partiti, un potere di veto contro eventuali altri apparentamenti in sede regionale ed in tale maniera si escludeva automaticamente un allargamento dell’intesa alle forze monarchiche.
PCI e PSI, in particolare Togliatti, continuarono in quei giorni a puntare continuamente il dito sulle presunte analogie tra la legge elettorale del Governo e la Legge Acerbo, la quale assegnava un premio di maggioranza schiacciante ad un partito o gruppo di partiti che non arrivava nemmeno ad ottenere la maggioranza relativa.Tale loro atteggiamento diffidente nei confronti di questo sistema era mosso anche dal timore che tutto questo fosse propedeutica ad una svolta autoritaria a destra e ciò li spinse, quindi, a presentare quattro pregiudiziali sulla pretesa incostituzionalità sulla legge, oltre che una richiesta di sospensiva avanzata da Pietro Nenni. Ma la sera del 9 dicembre, dopo un’attenta analisi, la Camera le respinse.
La prima pregiudiziale presentata intravedeva la presunta incostituzionalità della legge nel fatto che “la proporzionale pura sta alla base della nostra Costituzione” e che “la proporzionale rappresenta la conquista più avanzata della Democrazia”. Ma la richiesta non venne accolta dal Governo perchè la Carta Costituzionale – rispose Scelba – non contemplava alcuna norma in base alla quale la Camera avrebbe dovuto essere eletta col criterio proporzionale integrale e che neppure esisteva un criterio generale in favore del proporzionale.
La seconda invece riguardava il principio dell’uguaglianza del voto, che con il nuovo sistema elettorale prefigurato dalla legge, secondo le sinistre, sarebbe stato violato
La terza pregiudiziale invece intravedeva una violazione del principio di tutela delle minoranze etniche presenti nella Valle D’Aosta ed in Trentino Alto-Adige, mentre la quarta – mossa da Togliatti – accusava il governo di voler spianare con questa legge la strada ad un Governo “oligarchico” e quindi ad una successiva riforma arbitraria della Costituzione.
Infine, nelle votazioni seguite subito dopo, le quattro pregiudiziali poste da Togliatti, Basso, Ferrando e Francesco De Martino, riunite poi in una sola, furono tutte respinte per appello nominale, con 314 voti e 180 contrari. Invece successivamente, con 296 voti contro 207 – a scrutinio segreto – venne respinta la sospensiva presentata da Nenni.
Ma ciò che preoccupava maggiormente il Governo e De Gasperi, era il fatto che fra gli avversari della legge vi fossero alcune personalità politiche di grande integrità ed autorevolezza, anche appartenenti all’area della stessa maggioranza.
Infatti, anche se Gaetano Salvemini trovava questa legge elettorale corretta e ragionevole, con la condizione però che il premio di maggioranza non fosse troppo spropositato, c’erano illustri politici come Ferruccio Parri e il liberale Corbino che al contrario l’avversavano totalmente. Ed era pronto a battersi contro questa riforma anche l’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, ma la sua morte – sopraggiunta il 20 febbraio 1953 – gli impedì di votare contro la legge.
Anche un altro ex presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, si associò alle voci contrarie e poco prima di morire (novembre 1952) dichiarò di essere maldisposto verso questo nuovo sistema perché “la prassi parlamentare non ammette che alla fine di una legislatura si modifichino i meccanismi elettorali che devono presiedere alla formazione di una nuova Camera”.
Infine, l’11 dicembre, ci fu la presa di posizione contraria di Piero Calamandrei, che in un suo intervento alla Camera – parlando anche a nome di altri sette deputati socialdemocratici dissidenti – espresse chiaramente la sua avversità alla legge elettorale, che definì una “truffa”.
Ma lo strappo definitivo con il gruppo dei “dissidenti” socialdemocratici avvenne appena pochi giorni dopo, il 23 dicembre, con l’espulsione dal partito di Tristano Codignola. Per solidarietà si dimisero anche lo stesso Piero Calamandrei, Paolo Vittorelli, Francesco Zanardi, Antonio Greppi, Edmondo Cossu, Lucio Libertini ed altri.
Pochi giorni dopo la bocciatura delle pregiudiziali di incostituzionalità presentate da PCI e PSI contro la nuova legge, il 31 dicembre il presidente della Camera Giovanni Gronchi dispose la riduzione a 11 dei 216 ordini del giorno presentati dalle sinistre, allo scopo di affrettare i tempi per la sua approvazione, e per tutti i primi mesi del 1953 la politica italiana visse uno dei momenti più aspri della sua storia. Tutta la vita parlamentare fu infatti animata da durissimi scontri contro il governo e fu proprio in quei giorni che l’opposizione, continuando nel suo ostruzionismo, cominciò col definire assiduamente questa legge elettorale una “truffa” (successivamente in campagna elettorale il termine “Legge truffa” avrà una grossa presa presso il pubblico), mentre la maggioranza di centro si impegnò energicamente per ottenere l’approvazione nei minori tempi possibili.
Ad un certo punto De Gasperi pose la questione di fiducia.
Numerose furono le manifestazioni organizzate da PCI e PSI contro questa decisione e a Roma una dimostrazione fu dispersa dalla celere. Il 20 gennaio la CGIL proclamò uno sciopero generale.
Il 21 gennaio dopo una seduta di oltre 70 ore, nel corso della quale intervennero tutti i deputati dell’opposizione, il governo ottenne la fiducia. Quindi la legge elettorale venne finalmente approvata con 332 sì e 17 no. Durante il dibattito finale Palmiro Togliatti propose in extremis il ritiro di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione a patto che il Governo si fosse impegnato a sottoporre la nuova legge ad un Referendum popolare, da tenersi contestualmente al voto delle politiche, ma il Governo rifiutò decisamente la proposta. A questo punto l’opposizione di sinistra abbandonò l’aula per manifestare il proprio dissenso per questa inusitata procedura della fiducia e verso il presidente della Camera Gronchi che l’aveva avallata. Quindi il vicepresidente della camera Fernando Targetti e gli altri membri dell’Ufficio di presidenza appartenenti a PCI e PSI si dimisero.
Il 22 gennaio una delegazione di deputati dell’opposizione (composta dallo stesso Fernando Targetti, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Fausto Gullo e Tomaso Smith) illustrò al presidente della Repubblica Luigi Einaudi le ragioni dell’ostruzionismo sulla legge elettorale e denunciò l’incostituzionalità del modo di procedere del presidente della Camera Gronchi. Einaudi però obiettò loro che non era di sua competenza tenere conto dei rilievi che riguardavano la procedura parlamentare, la cui disciplina ed applicazione era sempre rientrata fra i poteri propri dell’Assemblea attraverso l’emanazione del suo regolamento.
Intanto la legge continuò il suo percorso di approvazione ed il 27 gennaio arrivò alla commissione interni del senato, dove si cominciò ad esaminarla in sede referente, e il 12 febbraio l’aula approvò – con 165 sì e 111 no – la procedura d’urgenza per una discussione veloce della legge, che iniziò il 7 marzo.
In senato però la situazione si mostrò essere più difficoltosa del previsto, ma questa volta non solo a causa delle opposizioni. Il presidente dell’aula, Giuseppe Paratore, un liberale di vecchio stampo (da giovane era stato segretario nell’ultimo governo Crispi), era contrarissimo a questa – fino ad allora – inusitata procedura di porre la questione di fiducia su una legge elettorale allo scopo dichiarato di troncare l’ostruzionismo dell’opposizione. Infatti il primo giorno in cui la legge approdò in senato, Paratore ammonì da subito De Gasperi affinchè questa insolita procedura “non rappresenti un precedente”. Quindi il PSI e il PCI ne approfittarono per ottenere il suo appoggio riguardo quella proposta di referendum, con cui si sarebbe chiesto ai cittadini se erano favorevoli al nuovo meccanismo previsto da questa legge. Ma il governo rifiutò di nuovo energicamente questa offerta delle opposizioni per due ragioni: per l’imminenza della scadenza della legislatura e soprattutto perché il ricorrere ad un Referendum non abrogativo era estraneo alla carta costituzionale.
De Gasperi quindi continuò nella sua strategia verso l’approvazione della legge e anche qui non mancarono quegli scontri che avevano contrassegnato il primo iter alla Camera. Il 22 marzo il vicepresidente del senato Umberto Tupini – che quel giorno presiedeva la seduta dell’assemblea di Palazzo Madama in sostituzione di Paratore – notò un numero rilevante di assenze fra i banchi della maggioranza. Quindi, malgrado il suo ruolo, sollecitò il Governo a richiedere velocemente la verifica del numero legale per impedire l’approvazione della proposta del comunista Luigi Ruggeri di inversione dell’ordine del giorno, tesa anche questa ad allungare i tempi dell’approvazione della legge elettorale. L’opposizione protestò vivacemente e bloccò per alcune ore la discussione. Allo scopo di attutire gli scontri, intervenne anche la proposta di Ferruccio Parri di ridurre ulteriormente il premio di maggioranza previsto come contropartita per il ricorso al voto di fiducia, ma anche se l’idea fu giudicata positivamente fra i vari schieramenti, non fu accolta dal Governo perché ormai mancava il necessario tempo tecnico. Una simile modifica avrebbe infatti comportato un ulteriore rinvio del testo alla Camera ad appena pochi giorni allo scioglimento della legislatura.
Giunti a questo punto Paratore, dopo un breve colloquio con il presidente Einaudi, si dimise dalla carica di presidente del Senato, sostenendo di non poter più svolgere imparzialmente la propria funzione, e dopo due estenuanti giorni di consultazioni fu scelto come nuovo presidente del Senato Meuccio Ruini, già ministro delle Colonie nel Gabinetto Nitti, che il primo giorno del suo insediamento dichiarò: “Affronto quest’opera con la stessa fermezza con la quale andai, con i capelli già grigi, sul Carso”. Il 25 marzo la sua nomina ottenne l’approvazione di 169 senatori. Quella del candidato delle sinistre, Enrico Molè, ne ottenne solo 109.
Alla fine, alle ore 15.55 del 29 marzo 1953, dopo interminabili battaglie parlamentari e dopo una seduta di 77 ore e 50 minuti, la legge venne approvata anche dal senato. Ottenne ben 174 voti favorevoli e solo 3 astenuti. Infatti l’opposizione al momento del voto abbandonò l’aula, criticando anche qui la procedura utilizzata. Poco prima del voto finale scoppiarono anche violentissimi incidenti, nel corso del quale il ministro Randolfo Pacciardi rimase leggermente ferito, mentre il ministro Ugo la Malfa fu schiaffeggiato dal senatore Emilio Lussu.
Il giorno successivo l’opposizione operò il suo ultimo tentativo per impedire la promulgazione della nuova legge elettorale. Anche questa volta una delegazione di senatori della sinistra – ma anche di altri settori politici – composta da Umberto Terracini, Ferruccio Parri, Enrico Molè, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Pasquale Jannaccone, Pietro Tomasi della Torretta ed Alberto Bergamini, chiese ed ottenne un nuovo incontro con il Presidente della Repubblica Einaudi per invitarlo a tener conto delle loro proteste, non promulgando la legge e rinviandone il testo alle due Camere per un ulteriore verifica. La richiesta non venne anche questa volta accolta ed il 31 mattina Einaudi promulgò la legge elettorale e il testo di riforma fu pubblicato nello stesso pomeriggio sulla Gazzetta Ufficiale. Pertanto essa ebbe fin da quel giorno valore esecutivo.
Successivamente – il 4 aprile – Einaudi, oltre alla Camera, sciolse con un anno di anticipo dalla scadenza naturale anche il Senato, in modo da dare ad entrambe le Camere una fisionomia omogenea con questo nuovo meccanismo di voto, e furono fissate le elezioni per il 7 giugno.
A differenza del 18 Aprile 1948 PCI e PSI presentarono liste separate.
La campagna elettorale fu molto combattuta e fu vivacizzata anche dalla propaganda delle sinistre contro i cd. “forchettoni”, termine inventato da Giancarlo Pajetta in riferimento ad esponenti dei partiti della maggioranza, ritenuti ormai definitivamente compromessi nella “questione morale”.
Il nodo della legge elettorale aveva provocato gravi lacerazioni all’interno della maggioranza centrista. Dai partiti laici alleati alla DC fuoriuscirono illustri politici che si presentarono alle elezioni in formazioni nate appositamente per impedire alla coalizione formata da DC, PSDI, PLI, PRI, Partito sardo d’azione, Sud Tiroler-Volkspartei e Partito Popolare Sudtirolese di ottenere il quorum. La percentuale non venne infatti raggiunta dai partiti della maggioranza anche in virtù dell’azione di queste piccole liste laiche formate dai “dissidenti” – come l’Up (Unità popolare), guidata dal liberale Corbino, e Adn (Alleanza democratica nazionale) guidata da un triumvirato composto da Calamandrei, Parri e Codignola. Era presente anche la lista dell’Unione Socialista Indipendente, formata in seguito all’uscita dal PCI dei deputati Cucchi e Magnani contrari alla rottura con le Lega dei Comunisti jugoslavi, cui il partito si era allineato su indicazione dell’Unione Sovietica, ancora vivente Stalin che, al momento delle elezioni italiane, era già scomparso dal marzo dello stesso anno 1953.
I risultati delle elezioni non diedero l’esito sperato dal Governo.
A fronte di un notevole recupero della Democrazia Cristiana, rispetto ai risultati delle amministrative, infatti i partiti cosiddetti “apparentati” non ottennero la maggioranza assoluta per uno scarto minimo di voti (meno di 40.000 in cifra assoluta).
In un Parlamento dove la proporzionale rimase dunque la tecnica per il riparto dei seggi, il bipolarismo del ’48 non trovò più riscontro.
Le elezioni come abbiamo visto si svolsero in un clima di alta conflittualità tra DC e partiti apparentati da una parte e le due opposizioni di sinistra e di destra.
Uno scontro che produsse un’impennata alla partecipazione, che era già stata alta nel ’48 ma che crebbe ulteriormente.
L’unica circoscrizione che ebbe percentuali inferiori al 90% fu quella di Catania – Messina – Ragusa – Enna – Siracusa che arrivò all’89,6%.
La Democrazia Cristiana risultò in calo in tutta la penisola. Le maggiori perdite le registrò al Sud, con un meno 15,5% a Napoli e meno 10,1% a Campobasso. Mentre al Centro Nord fu in Piemonte che lo scudo crociato calò maggiormente perdendo circa l’8%.
Il Partito Comunista, sciolta come abbiamo visto l’alleanza elettorale con i socialisti (la somma dei due partiti separati superò comunque nettamente la cifra realizzata dal Fronte Popolare) ottenne un risultato molto importante proprio sul piano della propria legittimazione nazionale: in nessuna circoscrizione risultò al di sotto della percentuale del 10%, salvo che nel Trentino Alto Adige. Si affermano aree di forte radicamento comunista come l’Emilia Romagna e la Toscana con percentuali che partono dal 30% per sfiorare il 40% (39,9% nella circoscrizione Siena – Arezzo – Grosseto).
Il Partito Socialista invece fece registrare un netto calo rispetto alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946: le uniche aree nelle quali il PSI riuscì a confermarsi furono, da un lato la Lombardia e il Veneto.
Notevole per contro l’incremento, quasi esclusivamente verificatosi al Sud, del Partito Monarchico e del Movimento Sociale.
Queste comunque le cifre assolute, percentuali e seggi relativi alla Camera dei Deputati delle forze che superarono la soglia in quella storica occasione.
Democrazia Cristiana 10.862.073 (40,10%) 256 seggi; PCI 6.120.809 (22,60%) 138 seggi; PSI 3.441.014 (12,70%) 70 seggi; Partito Nazionale Monarchico 1.854.850 (6,85%) 35 seggi; MSI 1.582.154 (5,84%) 23 seggi; PSDI 1.222.957 ( 4,51%) 14 seggi; PLI 815.929 (3,01%) 10 seggi; PRI 438.149 (1,62%) 2 seggi; SVP 122.474 (0,45%) 3 seggi.
Questi i dati riguardanti le liste che, pur non raggiungendo il “quorum” utile per essere rappresentate in parlamento, avevano contribuito a fare in modo che il premio di maggioranza non scattasse:
Unione Socialista Indipendente 225.495 0,83%, Unità Popolare 171.071 0,63%, Alleanza Democratica Nazionale 120.590 0,45%.
I seggi assegnati alla Camera dei Deputati:
DC 262, PCI 143, PSI 75, Monarchici 40, MSI 29, PSDI 19, PLI 13, PRI 5, SVP 1, UV 1.
Al Senato:
DC 113, PCI 58, PSI 28, Monarchici 16, MSI 9, PSDI 4, PRI 3 (eletti con simbolo comune DC – PRI), PLI 3, SVP 2, UV. 1.
La II legislatura repubblicana si apriva così con la crisi della coalizione centrista in una situazione gravida di incognite con un progressivo esaurimento della formula e la difficoltà di superarla in un Paese dalle grandi contraddizioni che si stava avviando alla fase del superamento del periodo immediatamente post – bellico.
FRANCO ASTENGO
foto tratta da Wikipedia
Per compilare questo lavoro sono stati consultati: Celso Ghini “Il Voto degli Italiani”Editori Riuniti 1975, Maria Serena Piretti “ Le elezioni politiche in Italia dal 1848 ad oggi” , Laterza 1995.