Era il 2 febbraio del 1999 e Hugo Chávez assumeva per la prima volta la presidenza del Venezuela, giurando «dinanzi a Dio, alla patria e al popolo, su questa moribonda Costituzione, di promuovere le trasformazioni necessarie per dare alla Repubblica una Carta Magna adeguata ai nuovi tempi».
Iniziava così una nuova fase nella storia del paese, quella «bella rivoluzione» che avrebbe posto il Venezuela al quinto posto, insieme alla Finlandia, nella classifica dei Paesi considerati più felici dai propri abitanti, permettendo la conquista di una nuova consapevolezza da parte del popolo povero, la coscienza della sua insopprimibile dignità.
Vent’anni dopo, tutto o quasi tutto è cambiato nel paese, ma il ricordo di quelle conquiste non è stato sepolto – almeno in una consistente parte della popolazione – sotto il peso di difficoltà, errori, tradimenti e privazioni di ogni tipo. Così, ieri, nel ventesimo anniversario della rivoluzione bolivariana, in tantissimi sono scesi in piazza a difendere il governo del presidente Maduro che, di fronte a un’enorme concentrazione trasmessa in diretta dalla principale tv di stato, ha ribadito la sua offerta di elezioni parlamentari anticipate. Nello stesso momento, anche gli oppositori riempivano le strade chiedendo la «fine dell’usurpazione», in una guerra dei numeri tra chi è a favore e chi è contro il governo, che è ancora presto dire da chi è stata vinta.
Per quanto forse la maggioranza della popolazione – come ha avvertito Miguel Ángel Pérez Pirela, uno dei più ascoltati conduttori televisivi del paese (vicino al chavismo ma in maniera critica) – è quella che «non esce a manifestare né per gli uni né per gli altri, restando alla finestra e sforzandosi di acquistare alimenti, di farsi bastare i soldi per il trasporto, di sfuggire alla criminalità». Ma che sia a favore o contro Maduro, che sia disposta a rivotarlo o miri invece a un’alternativa, è certo che la maggioranza è contraria alla via militare e auspica decisamente una soluzione negoziata.
«Se esiste almeno un punto di consenso tra i venezuelani – ha evidenziato ancora Pérez Pirela – è che la maggior parte di loro non vuole la guerra. Per questo rivolgo un appello a tutti i politici, ai militanti, ai militari, agli studenti, a tutti: non permettiamo che gli egocentrismi dei politici di ogni colore ci conducano a un conflitto armato».
Se di fronte al tentativo di colpo di stato più multinazionale mai registrato in America latina la vera partita si gioca fuori dal territorio venezuelano, anche qui si assiste a uno scontro serrato. Mentre una buona parte del mondo si schiera a favore di un processo di dialogo, gli Stati uniti procedono imperterriti sulla via del golpe, pretendendo di sostituire con un deputato semisconosciuto votato da 90mila persone un presidente scelto da più di sei milioni di elettori.
«Non mettete alla prova la determinazione degli Stati uniti», ha dichiarato venerdì il vicepresidente Mike Pence in una riunione con un gruppo di oppositori venezuelani residenti a Miami, ribadendo quanto già affermato da Trump rispetto a un eventuale impegno militare Usa: «Tutte le opzioni sono sul tavolo». «Non è il momento del dialogo, ma dell’azione – ha spiegato Pence – È arrivata l’ora di porre fine una volta per tutte alla dittatura di Maduro».
Un appello lanciato ieri – a conferma del rischio di pericolose crepe dentro le forze armate – anche da un generale, il direttore di pianificazione strategica dell’aviazione militare Francisco Yánez, passato dalla parte di Guaidó. Il quale però, ha precisato il comandante generale dell’aviazione Pedro Alberto Juliac, «non ha il comando di truppe né di unità aeree».
Sempre più aggressivo è apparso anche il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton, che, ospite del programma The Hugh Hewitt radio show, ha addirittura evocato per Maduro un futuro a Guantánamo: «Ieri ho diffuso un tweet – ha detto a proposito delle «opzioni a disposizione di Maduro» – in cui gli auguravo un lungo e quieto pensionamento in una spiaggia carina lontano dal Venezuela. E dico che è meglio che si avvalga al più presto del consiglio, scegliendo il pensionamento su una spiaggia carina, piuttosto che trovarsi a frequentare un’altra spiaggia come Guantanamo».
Una minaccia diretta, dopo quella implicita ma non meno significativa rappresentata dalla nota sul suo quaderno con la scritta «5.000 militari in Colombia» apparsa come per sbaglio in una conferenza stampa.
E proprio dalla Colombia si fa sentire il presidente Iván Duque, che si è detto convinto che «alla dittatura del Venezuela» restino «poche ore di vita», criticando in maniera larvata la creazione da parte dell’Unione europea di un gruppo di contatto impegnato per 90 giorni in un «accompagnamento» del processo in direzione di nuove elezioni presidenziali: «Spero – ha detto – che ciò che è stato presentato come un accompagnamento sia diretto a garantire elezioni libere e indipendenti e la fine dell’usurpazione».
CLAUDIA FANTI
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