Secondo le nuove regole, che potrebbero essere introdotte nel Decreto del 2 marzo 2020 emanato dal governo della Repubblica sul Coronavirus Covid-19, per tutto il mese di marzo la popolazione italiana dovrà prendere le distanze da sé stessa, sperimentando nuovi comportamenti sociali per fare in modo che anche il virus prenda le debite distanze da ciascuno di noi.
C’è chi legge in tutto questo una forma di atomizzazione individuale, un complotto per ridurre i rapporti sociali a spezzatino e gestire meglio chissà quale forma di dittatura della maggioranza sulle minoranze, oppure quale dominio delle classi dirigenti sulle classi meno abbienti.
Se non ci fosse il pericolo del contagio, la penserei così anche io: un governo che ti impone di evitare le strette di mano, i baci, i contatti fisici e i rapporti sociali propriamente detti e classici di ogni giorno, sarebbe qualcosa che andrebbe oltre il regime autocratico. Significherebbe cercare di desocializzare il sociale, fare degli individui degli automi indistinguibili, silenziosi e distanti fra loro in ogni ambiente, appena capaci di rivolgersi la parola.
Scene di questo tipo, nonostante non siano queste le intenzioni di chi oggi sta provando a tutelare la salute pubblica, si sono già verificate: fotografie tratte dai cellulari di cittadini che vanno al lavoro al mattino sui mezzi pubblici raccontano di file di persone che a mala pena si salutano, che evitano di aprire la bocca, di spargere i germi; si parla meno, si legge di più, ci si scambia qualche occhiata più a lungo. E tutto questo non è detto che sia poi così un male.
Leggere di più è terapeutico in questa società di improvvisazione dei concetti, di bulimia delle false notizie, di produzione continuativa e incessante di odio e di meschinità per il solo gusto di diventare protagonisti in televisione, sul web e, prima di tutto, sui tanto frequentati “social“.
Ma la costrizione a stare molto di più nella sedentarietà casalinga non sarà automaticamente una induzione a frequentare meno le tastiere e i le reti sociali, a fare magari di più l’amore, a vivere comunque in qualche modo una vita sufficientemente possibile e necessaria. Per molti sarà come stare in gabbia, in prigione, in un isolamento decretato, magari autoimposto per via della quarantena.
E’ emblematico vedere gli studenti scriversi nelle chat di WhatsApp: non gioiscono dell’assenza dalle aule scolastiche. Rimpiangono il non potersi incontrare, vedere. Viene fuori così il valore associativo della scuola, il suo vero ruolo di formazione sociale. Accorgersi di questo aspetto, soprattutto per le generazioni più giovani e vulnerabili, è un importante presa di coscienza.
Del resto, però, un regime di disposizioni sanitarie così rigido non può avere una durata a lungo termine: impedisce i normali esercizi democratici del cittadini, dell’individuo prima di tutto. Impedisce quella espressione soprattutto interiore che diventa personalità nel momento in cui si confronta con gli altri simili: in pratica tende a rafforzare il cordone sanitario attorno al virus, ma indebolisce le nostre già precarie difese immunitarie dall’apatia, dalla circospezione, dalla diffidenze dell’uno verso l’altro e rafforza uno stato di insicurezza che da sporadico caso sovranista, fondato su razzismo, disprezzo delle differenze e fobia del diverso da noi, diventa sistemico.
Il rischio è che, mentre curiamo un patogeno che si diffonde nel Paese e nel mondo, come controindicazione del medicinale abbiamo la fine (seppur momentanea) della comunità, dell’essere tale nello stare insieme mediante una empatia – ed anche molta antipatia – che è naturale e che da sempre è il collante di un riconoscimento tra simili sotto molti punti di vista.
Partiamo dalla scuola: se il limite di vicinanza tra le persone fosse, come indicato da alcuni specialisti del settore medico, di due metri, non sarebbe possibile riaprire alcun plesso formativo dopo l’8 marzo. Come si fa a distanziarsi così tanto gli uni dagli altri? Pare che sia sufficiente un metro di distanza. Ma sarà difficilissimo poter far rispettare questa norma igienica in ogni circostanza.
Prendiamo ad esempio i supermercati, gli uffici pubblici, anche i semplici negozi di paese dove si vende un po’ di tutto: si tratta nei primi casi di spazi grandi dove si incrocia molta gente che si incontra, si scontra con i carrelli della spesa e che comunque alle casse deve andare e che non può porgere il denaro o la carta di credito al cassiere con un lancio olimpionico.
Nei negozi più rionali e dei piccoli centri, per inverso vale lo stesso principio: nella comunità con meno densità di abitanti si dovrebbero fare anche meno incontri. Ma questo non è statisticamente certo: è possibile che nello stesso negozio di frutta e verdura largo venti metri quadrati, ci siano tre o più persone. A quel punto lo spazio per poter evitare il contagio e rispettare le norme previste dai “saggi” del presidente Conte diventano acqua fresca, sono letteralmente inapplicabili.
E’, del resto, vero che nessuna norma viene mai applicata ferreamente: nemmeno quelle più severe del Codice della Strada. Una certa “tolleranza” (come si usa dire in gergo) viene sempre messa in pratica per cercare di capire come si sono svolti i fatti.
Tuttavia qui siamo in presenza di una modificazione dei nostri comportamenti che non necessita di qualche precauzione salutista come lo starnutire a gomito flesso o il farlo dentro un fazzoletto da gettare in un contenitore chiuso per evitare che i germi si diffondano tutto intorno a noi. Stiamo per fare un salto di qualità notevole se il decreto del 2 marzo venisse implementato con norme ancora più restrittive.
Intendiamoci: sono norme di buona creanza, hanno ragione d’essere visto il diffondersi del virus e lo sforzo cui è sottoposto un Servizio Sanitario Nazionale che sta dando grande prova di sé stesso nonostante i numerosi tagli procuratigli dai liberal-liberisti della politica in ossequio alla sanità privata in questi decenni.
Ma non sarà semplice impedire ad un anziano ultraottantenne di uscire al mattino col suo cane, dicendogli che è preferibile che stia in casa. Va bene… alle sette del mattino chi volete che sia in giro a fare assembramenti o capannelli di discussione. Al massimo i quattro pensionati descritti da De Andrè… Ma quelli erano seduti a tavolino. E ciò sembra ancora essere permesso se si va al bar. Al tavolino sì, al bancone no. I tavoli rispettano certe distanze. Gli umani tendono, istintivamente e umanamente, a non rispettarle.
Ci si vorrebbe magari ancora abbracciare, accarezzare, baciare, stringere la mano quando si incontra un amico, un parente, qualcuno che non si vede da molto tempo. Sarà, pare impossibile. E sarà una bella prova di resistenza alle abitudini. Anche questa a doppio taglio: da un lato servirà a testare la forza di volontà nel proteggersi dal virus secondo le misure di salute pubblica, mostrando la maturità del popolo italiano in questo frangente; dall’altro ci priverà di quelle necessarie coccole e interazioni umane che sono proprie della nostra sfera più intima e quindi avvertiremo una violazione dei nostri privilegi di esseri viventi che provano sentimenti impossibilitati ad essere espressi mediante quelle parti del corpo che ci consentono ciò.
Non sono solo i virus ad allontanare le persone tra loro. Molto prima dell’arrivo di Covid-19, siamo un po’ tutti stati lontani tra noi. Lo siamo ancora, sempre divisi tra visioni della società che non possono collimare, tanto meno arrivare a sintesi. Finché tutto ciò rimane nella normale dialettica politica e sociale, ci si può definire una “buona democrazia borghese” (lasciatemi usare questi vetusti termini!), dove anche ai tempi del colera – come racconta Garzia Marquez – ci si incontrava pur nelle diversità e si veniva separati dai genitori che volevano mantenere intatto lo status dei propri casati.
Ma l’Italia ha rischiato e rischia, Coronavirus Covid-19 a parte, di essere da tempo un Paese dove la distanza tra i cittadini è ampia per un odio e un disprezzo frutto di tanti pregiudizi e recriminazioni che hanno la loro origine da una mancata comprensione della storia, quindi della Costituzione, quindi delle fondamentali regole morali, civili e sociali per stabilire una vita comune, una vita “nazionale“.
Più grande ancora è stata fino ad oggi (ma si sa… “In disgrazia addio orgoglio“) la distanza tra i cittadini e le istituzioni. Serviva un virus per far stringere gli italiani attorno al governo e alla Protezione civile, superando certe barriere e provando a a far convivere la giusta e anche severa critica politica con la altrettanto giusta collaborazione al benessere del Paese, mediante l’applicazione individuale (e collettiva) delle norme previste.
Può darsi che ancora una volta il vecchio detto abbia un qualche valore: “Non tutte le disgrazie vengono per nuocere“. Ma, statene certi, quando l’emergenza sarà passata, questa forma di “unità nazionale” cesserà di esistere e torneremo a fronteggiarci come prima. Chissà se con un po’ di umiltà nel descrivere le nostre opinioni o se con maggiore virulenza… I sovranisti sono pronti a scommettere.
MARCO SFERINI
4 marzo 2020
Foto di Sumanley xulx da Pixabay