Mancano ancora pochissime giorni all’ora X, la presentazione dei simboli (14 agosto), la formalizzazione delle liste (21 agosto), dopo la quale rien ne va plus. Ma a questo punto è difficile immaginare qualcosa che possa cambiare il quadro descritto ieri dall’Istituto Cattaneo in una proiezione che profetizza la vittoria della destra per ko. Cifre impietose: 61,3% dei seggi alla destra alla Camera, 26,8% alla coalizione del Pd, 6,8% al M5S, 4% a Iv e Azione dati per unificati anche se l’accordo al momento non è affatto chiuso.
Quadro molto simile al Senato: 64% all’armata di sorella Giorgia, 25,5% a quella di Letta, 6% a Conte, 3,5% alla coppia centrista. È vero che con queste percentuali la destra mancherebbe il traguardo dei 2/3 del Parlamento ma è anche vero che lo mancherebbe per un soffio e che la proiezione sui collegi uninominali è decisamente ottimistica, dal punto di vista del Pd. Più di quella degli stessi partiti interessati.
La sola sorpresa in grado di ribaltare i pronostici sarebbe un ritorno di fiamma Pd-M5S nel quale qualcuno ancora attivamente spera ma che pare in realtà impossibile. Le caselle ancora in sospeso riguardano soprattutto la coppia Calenda-Renzi. Stando ai sondaggi quel matrimonio s’ha da fare, felici o meno che siano gli sposi. Insieme i due “galli nel pollaio” hanno la quasi certezza di passare la soglia di sbarramento, da soli proprio no. Sulla testa di Calenda pende poi la mannaia della raccolta delle firme.
Lui si dice certo che basti il simbolo con il quale è stato eletto parlamentare europeo e le fonti di Azione segnalavano ieri il parere positivo di Sabino Cassese. Ma la verità è che Calenda non ha alcuna certezza e la tesi viene tirata in ballo soprattutto per trattare con Renzi a partire da una posizione più forte, in soldoni senza la pistola carica delle firme vacanti puntata alla tempia.
Per ora la trattativa segna il passo. «Ci stiamo lavorando», annuncia laconico Calenda, poi per una volta diserta interviste e telecamere, segno evidente che le difficoltà non sono state superate. I due si sono sentiti per telefono lunedì. Si vedranno a breve, forse oggi, più probabilmente domani o dopodomani. La logica imporrebbe di dare per certa la lista comune ma i fatti hanno già provato in abbondanza che, fuori dal recinto del centrodestra, la logica razionale non è moneta corrente.
A destra invece lo è e da quelle parti, infatti, il rebus dei centristi si avvia a composizione nonostante le microformazioni in questione si amino poco. Sono quattro: l’Udc di Cesa, Coraggio Italia di Brugnaro, Noi con l’Italia di Lupi, Italia al Centro di Toti, che fino all’ultimo è rimasto incerto sull’adesione al cartello di destra e che, se nascesse il “terzo polo”, sarebbe il più tentato dal salto della quaglia dopo le elezioni. In nome della necessità di passare la soglia i 4 avevano già deciso di accorparsi a due a due.
Ora sono passati a un gruppo unico, logo e nome ancora da definire ma numero di seggi da spartirsi invece già definito: 16 e non sono pochi. I simboli dei tre partiti maggiori sono invece definiti: uguali a quelli del 2018 i simboli di FdI e Lega, illuminato da un’ulteriore mano di bianco quello di Arcore nel quale campeggia la formula «Berlusconi presidente» anche se Silvio giura di non aver deciso se candidarsi o meno.
Certo racconta di essere assediato da postulanti che insistono perché sia in campo e lui stesso è già lanciato in campagna elettorale. Ci sono pochissimi dubbi su come risolverà il rovello e anzi l’amletico dubbio ricorda da vicino l’“indecisione” che Berlusconi adoperò con maestria nel 1994 per far montare la suspence e lanciare così la sua candidatura col massimo della visibilità.
Ieri il centrodestra si è riunito, ufficialmente per definire il programma. Non che i programmi nella realtà della politica contino più che tanto. In compenso indicano con una certa chiarezza il modello di governo che la varie parti hanno in mente.
Giorgia Meloni e Salvini gareggiano in truculenza nelle loro dichiarazioni contro gli immigrati. Lo stesso Salvini e Berlusconi giocano al ribasso sulla Flat Tax: il Cavaliere al 23%, Salvini addirittura al 15%. Questo sarà il programma e il segno del governo della destra. Ma la vera svolta nella destra è un’altra. Giorgia Meloni si è decisa a dire chiaramente che la premier sarà lei. Gli alleati concordano. Sempre che prenda un voto in più degli altri ma stando ai sondaggi interni potrebbe arrivare a quasi il doppio degli alleati messi insieme. Quella partita ormai è chiusa.
ANDREA COLOMBO
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