Le crepe della maggioranza in vista dell’autunno economico

L’estate sta finendo ma un governo non se ne va ancora. La crisi gestita dall’economia di guerra non è sufficiente a rintuzzare anche soltanto una parte delle pretese dell’esecutivo...

L’estate sta finendo ma un governo non se ne va ancora. La crisi gestita dall’economia di guerra non è sufficiente a rintuzzare anche soltanto una parte delle pretese dell’esecutivo peggiore della storia repubblicana d’Italia. Vero è che le questioni esiziali non mancano all’interno della compagine di maggioranza e che, in vista dei riallocamenti autunnali previsti dai tatticismi sulla manovra di bilancio, la lotta si preannuncia asperrima anzitutto tra Forza Italia e Lega.

E questo non solo perché il tema dell’autonomia differenziata arriva al limite temporale della prima messa in esecuzione dei Livelli Essenziali di Prestazione (acronimamente detti LEP); ma soprattutto perché le oltre cinquecentomila firme raccolte a favore della presentazione del quesito referendario abrogativo della Legge Calderoli (opportunamente appellata come “SpaccaItalia“) pesano come un macigno sul destino della stessa.

Pazienza se il ministro leghista scrolla le spalle e fa finta di farsi scivolare addosso il tutto. Le firme raccolte, alla fine, saranno molte centinaia di migliaia di più e saranno quindi la dimostrazione che il tema è sentito perché la sperequazione che determina il finto regionalismo leghista è più che evidente anche per chi non è addentro ai temi dei tecnicismi che regolano i rapporti tra Stato e Regioni.

Tanto più che il rientro a Palazzo Chigi per Meloni e ministri fedelissimi non rischia solamente di incespicare nelle contraddizioni aperte dal progetto antiunitario del salvinismo di nuovo modello nazionalista, ma rischia più ancora nuove crepe e screzi tra gli alleati sulle defiscalizzazioni, sulle concessioni balneari, sulle aliquote IRPEF e su tutta una serie di provvedimenti che inevitabilmente, almeno secondo la ragioneria generale dello Stato, dovranno essere adottati per tagliare la spesa pubblica.

Si partirà dal taglio del cuneo fiscale, dalla riduzione delle aliquote citate a tre scaglioni; e poi si proseguirà con Opzione Donna e con interventi che andranno a colpire le fasce più ampie della popolazione, ossie quelle i cui redditi sono già stati subissati di compressioni e restringimenti nel nome dell’interesse nazionale, salvaguardando sempre e soltanto i privilegi dei grandi ricchi, garanzia di stabilità per un esecutivo alla prova dei primi (e speriamo anche ultimi) due anni di governo.

C’è poi tutta la partita dei rapporti con Bruxelles e Strasburgo che riguarda la candidatura del ministro Raffale Fitto, già di Forza Italia e di storica famiglia democristiana, ora passato nelle file del partito della Presidente del Consiglio, a commissario europeo. Gradito tanto a Tajani quanto a Meloni, un po’ perché ex berlusconiano, un po’ perché ovviamente di nuova fede fratellitaliota, Fitto si presenta come l’europeista lontano dagli estremismi leghisti, capace quindi di sintetizzare in sé tanto la destra di governo italiana quanto il compromesso di centrodestra continentale.

Si dice, anzi si sa, che nel suo mandato europeo le deleghe alla gestione del PNRR gli toccherebbero quasi di diritto, visto che ha saputo compiacere l’esecutivo nazionale e la Commissione di Ursula von der Leyen nel merito. Sulla delega al bilancio invece si scontrerebbero Italia e Polonia e, in presenza di attriti, la scelta pare ricadrebbe su Varsavia piuttosto che su Roma.

La rivendicazione della vicepresidenza esecutiva della Commissione europea è, però, forse il nodo più spinoso per un governo come quello meloniano che esce da una estate tormentata e che si addentra in un autunno con un paracadute che magari si apre anche ma che, se si osserva bene, qualche forellino inizia a mostrarlo e ad essere sempre meno sicura garanzia di atterraggio indolore per scalvacare l’anno e tagliare il panettone almeno a Natale.

Non c’è dubbio sul fatto che, per una simile richiesta, le istituzioni europee chiederebbero a Giorgia Meloni un cambio di passo, di giudizio, di visione e di prospettiva, tanto per dirne una, sulle concessioni balneari e, non di meno, sulla riforma del MES. La partita economico-sociale qui si gioca apertamente, senza più mezze misure e sorrisi di circosstanza. Parlare del meccanismo europeo di stabilità vuol dire parlare di patto di stabilità.

Ergo, significa fare riferimento esplicito alla dipendenza degli Stati nazionali dei vincoli stabiliti dall’Unione Europea, per evitare le tanto famigerate e temute “procedure di infrazione“. Questo potrebbe creare ulteriori elementi di asperità dentro la compagine governativa: l’incedere del voto regionale spinge la Lega a puntare esattamente sull’autonomia dei territori e, manco a dirlo, la partita si fa ancora più incandescente dopo l’arresto di Toti e la complessità del caso Liguria.

In una regione in cui il tema dei balneari è all’ordine del giorno. Una spina nel fianco per Giorgia Meloni: una doppia partita tra le rivendicazioni consorteristiche della categoria che fa delle spiagge una proprietà privata e una Europa che, per altri versi, vuole un avvicendamento delle concessioni e una rimessa in funzione dei meccanismi liberisti in questo ambito di sviluppo economico-turistico.

Le cose peggiorano se, sempre parlando di pensioni e di “quota 41“. Quello che è uno dei paletti leghisti, rischia seriamente di saltare e ad opera proprio di Giorgetti, nonostante il veto del suo partito: l’allungamento della finestra temporale con cui potersi ritirare dal lavoro non è un fantasma ectoplasmatico che si insinua nei sogni agitati del salvinismo. Inizia ad essere una solida realtà: perché, come si usa dire, la coperta è corta e da qualche parte i soldi bisogna pur trovarli.

Quindi, in pratica, un taglio all’indicizzazione delle pensioni nei confronti del regime inflattivo: sganciarle dall’aumento del costo della vita, salvaguardando solo quelle minime e bassissime. Per le altre la decurtazione pare certa. Le politiche del governo si rivelano ancora una volta pienamente consone alle direttive di una economia di mercato che richiede sacrifici ai più deboli, considerando che l’effetto dell’inflazione si fa ovviamente sentire di più sui salari e sulle pensioni.

La CGIL ha denunciato, al riguardo, il nuovo attacco del governo contro il sistema previdenziale e nella revisione delle aliquite: Palazzo Chigi prenderà dalle tasche del lavoro dipendente e dai pensionati oltre 120 miliardi di euro in un lasso di tempo che viene preventivato dal 2032 al 2043. Dal settembre dello scorso anno ad oggi Meloni e ministri sono rimasti praticamente in silenzio sul problema dell’aumento delle retribuzioni e su quello delle previdenze. Nessun tavolo è più stato aperto per discutere di un’avanzare della crisi sociale estremamente preoccupante.

L’economia di guerra di cui si parlava all’inizio è la responsabile di una fluttuazione dei prezzi sempre più al rialzo, con effetti catastrofici sui bilanci familiari. Il risparmio è un ricordo del passato. La possibilità di accendere un mutuo, di riuscire a studiare senza dover ricorrere all’aiuto dei genitori, magari facendo qualche lavoretto sufficientemente pagato, sono altri non luoghi dell’esistenza qui ed ora.

Qualunque lavoro precario lo è nel senso esplicitamente negativo del termine: non dà alcuna certezza, sicurezza; non permette nessuna programmazione tanto di vita universitaria quanto di vita sociale. Compito delle opposizioni e della sinistra di alternativa deve essere la scompaginazione di questo modello politico di declinazione del liberismo nella cruda realtà del disagio sociale diffuso e in continua crescita. Il problema è organizzativo, certo, ma proprio perché è anche di questa natura, è soprattutto un problema politico.

Alla domanda: «In cosa si deve distinguere l’opposizione progressista dalle destre di governo?» la risposta prima è e dovrebbe essere sempre: nella riconversione dei tagli dalla spesa sociale alla tassazione dei grandi profitti, degli enormi patrimoni di una stretta minoranza della popolazione. Ma di questo non solo Meloni e soci non vogliono sentirne parlare, ma nemmeno il PD e i Cinquestelle. Figuriamoci poi europeisti radicaleggianti, renziani e calendiani.

Tuttavia un argine a questi disastri antisociali, antidemocratici e anticivili (oltre che immorali, ma questa sarebbe un’altra storia…) va posto e in fretta. Senza precipitazioni alleantiste che, più che contraddire le reciproche e differenti posizioni, tradirebbero, oltre ad uno smaccato avventurismo politico, anche un poco definibile piano organizzativistico.

Ma il tema del dialogo col campo progressista deve porsi in quanto tale. In quanto dati gli attuali rapporti di forza e di debolezza tra rappresentenza democratica e gestione della democrazia medesima. In gioco ci sono, senza ombra di dubbio, il futuro dell’assetto costituzionale della Repubblica e, parimenti, la tenuta dei fondamentali diritti sociali purtroppo falcidiati da troppi governi in cui la partecipazione delle forze che oggi rivendicano un ritrovato progressismo è stata determinante per l’avanzamento di politiche liberiste devastanti.

Se si deve guardare avanti è bene non voltarsi indietro. A distrarsi si fa presto e si perdono d’un colpo la stabilità del passo e l’obiettivo. Ma, proprio perché lo stimolo al dialogo deve essere sincero, ha il dovere di essere anche fortemente critico rispetto alle scelte operate fino a pochi anni fa. Rimangono in piedi fattori locali che sono poi dirimenti per la costruzione di un progetto nazionale di riqualificazione dei diritti tanto sociali quanto civili.

Ed anche per la tutela dell’ambiente e del patrimonio italiano: dalla straordinaria ricchezza delle eco-diversità, che passa anche attraverso la lotta contro l’inutilità delle grandi opere, fino alla rimodernizzazione delle infrastrutture attuali mediante gare e appalti pubblici. Meno privato e più Stato? Sì, perché no? Abbiamo potuto vedere, dopo decenni e decenni di affidamento dei beni comuni ai privati, dove si è andato a parare: nella depredazione delle risorse di tutte e di tutti, nella depredazione e nella spietata gara al maggior profitto in cambio del minor servizio.

Quindi, la sconfitta della politica del governo Meloni non può non transitare per la via del compromesso tra forze della sinistra moderata e di quella di alternativa in un fronte progressista che sia davvero tale non per un simbolo o una dicitura, ma per il cambio di rotta nel progetto di governo legittimo da contrapporre alle destre estreme che siedono a Palazzo Chigi.

Alla preservazione e all’ampliamento dei diritti civili deve corrispondere, ipso facto, una politica di nuova giustizia sociale. Altrimenti il connubio tra democrazia apparente e economia liberista reale sarà certo ancora possibile, ma il tutto a scapito della democrazia sostanziale: quella dei bisogni e della soddisfazione degli stessi per poter avere accesso a tutti gli altri diritti costituzionali ed umani.

MARCO SFERINI

30 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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